Immaginate di aver mangiato un po’ troppo nel weekend. Per compensare, durante la settimana, proverete a stare attenti. Frutta, verdura, attività fisica, e perchè no, quelle barrette proteiche che vi danno energia per affrontare la giornata. Solo che a un certo punto vi rendete conto che quelle barrette sono piene di conservanti e additivi, alimenti chimici che non sostituiscono alcun pasto. In altre parole, influenzano negativamente il vostro fisico in un altro modo rispetto a qualche eccesso domenicale.
Lo stesso accade con alcuni progetti di crediti di carbonio venduti sul mercato volontario. Le aziende, per lo più occidentali, che vogliono compensare la CO2 prodotta in eccesso, comprano crediti di carbonio generati da progetti che dovrebbero aiutare a evitare, compensare e ridurre le emissioni ma che producono danni collaterali alle popolazioni impattate.
È quanto accade nel Kenya settentrionale, dove la Northern Rangeland Trust (NRT), un’organizzazione che si occupa di progetti di conservazione, ha preso il controllo di 4 milioni di ettari di terra con il pretesto di istituire un nuovo tipo di area protetta chiamata “area di conservazione” (conservancy). Si tratta di zone teoricamente gestite a beneficio della fauna selvatica e della popolazione locale, la cui costituzione ha cambiato l’assetto culturale e ha forzato l’adattamento della popolazione ai nuovi parametri richiesti dal progetto.
È quel che racconteranno Yannick Ndoinyo, attivista Masai e direttore generale del Traditional Ecosystems Survival Tanzania, e Fiore Londo, ricercatrice e responsabile della campagna di Survival International per “decolonizzare la conservazione” durante l’incontro “Carbonio insanguinato” che si terrà oggi a Roma, zona Pigneto, organizzato da Survival Italia e A Sud.
“Oggi le grandi ong per la conservazione – come il WWF e la WCS (Wildlife Conservation Society) – continuano a promuovere le aree protette come la soluzione ai nostri più che evidenti problemi ambientali. E questo nonostante le aree protette siano teatro di gravi e diffusi abusi dei diritti umani, e senza avere alcuna prova concreta che contribuiscano davvero a fermare la perdita di biodiversità”, racconta la ricercatrice Fiore Longo a EconomiaCircolare.com.
Leggi anche: Come funziona il mercato volontario dei crediti di carbonio e perché se ne discute così tanto
Il progetto di conservazione in Kenya
L’area coinvolta nel Northern Kenya Grassland Carbon Project (d’ora in poi NKGCP) conta più di 100mila abitanti, tra cui gli indigeni Samburu, Maasai, Borana e Rendille. Si tratta per lo più pastori, il cui stile di vita è legato al pascolo del bestiame. Il progetto, lanciato nel 2013, si basa sull’idea della Northern Rangeland Trust di rimpiazzare i tradizionali pascoli “non pianificati” con “il pascolo a rotazione pianificato” descritto dai proponenti come più prolifico per la ricrescita della vegetazione e lo stoccaggio della CO2.
Il progetto dovrebbe generare 1,5 milioni di tonnellate di “extra” CO2 conservata all’anno, producendo circa 41 milioni di crediti di carbonio da vendere nell’arco di 30 anni. Il valore di questi crediti di carbonio, alcuni dei quali venduti a grandi aziende come Netflix e Meta, varia tra i 300 e i 500 milioni di dollari.
I punti deboli del progetto di conservazione in Kenya
Secondo l’ultimo report di Survival Italia, il progetto di Northern Rangeland Trust non presenta sufficienti evidenze per dimostrare che un approccio centralizzato, controllato e focalizzato sulla pastorizia incrementi la capacità di stoccaggio di carbonio del suolo rispetto ai metodi tradizionali. Allo stesso tempo, il progetto distruggerebbe le norme culturali delle popolazioni indigene che abitano l’area e danneggerebbe persone e ambiente. Le problematiche evidenziate sono diverse e legate alla misurazione, la trasparenza e il monitoraggio, oltre che a un bias culturale che non tiene conto di secoli di tradizione.
I progetti di compensazione basati sulla natura, come nel caso dell’NKGCP, si fondano su una proiezione nel futuro di ciò che sarebbe accaduto alla terra o all’ecosistema se il progetto non fosse stato realizzato. Questa proiezione è chiamata baseline, linea di base. Nel caso dell’NKGCP, la linea di base è una proiezione della quantità di carbonio stoccato del suolo nel caso in cui si fosse mantenuto una modalità di pascolo “continuo, in cui gli animali pascolano ripetutamente lo stesso sito in piccoli gruppi”.
La linea guida del progetto, dunque, parte dall’assunto che le norme culturali delle popolazioni locali e le tradizioni legate alla pastorizia possano causare una più rapida degradazione di suolo. Secondo l’organizzazione che difende i diritti delle popolazioni locali, si tratta di un approccio colonialista. In più non ci sono dati in grado di dimostrare che l’intervento da parte della Northern Rangeland Trust abbia migliorato una situazione preesistente. La quantità presunta di CO2 stoccata nel suolo prima e durante il progetto non è stata misurata direttamente, ma si è basata su una misurazione indiretta attraverso una variabile proxy, cioè la densità della copertura vegetale del terreno, poi convertita in stima di carbonio nel suolo attraverso un algoritmo.
La copertura vegetale può essere monitorata utilizzando i dati satellitari, disponibili e gratuiti, ma che devono essere convertiti in stime di carbonio attraverso un processo di modellazione, o misurata direttamente attraverso numerosi campionamenti in tutta l’area del progetto, che poi devono essere trasportati e analizzati in laboratorio.
Le prove presentate dalla NRT indicano che la qualità della vegetazione è peggiorata dall’inizio del progetto. Per le riserve incluse nel progetto di compensazione, si è verificato un declino del 48,5% della vegetazione nei campi. Il punto chiave è che, a circa otto anni dall’inizio del progetto, un indicatore chiave mostra che anche la salute dei pascoli sta effettivamente diminuendo in quasi la metà dell’area delle otto riserve incluse nel progetto di compensazione.
Sul controllo e il monitoraggio, Survival evidenzia come su un confine lungo circa 1.000 km il contenimento del bestiame all’interno di confini definiti è quasi impossibile: gli spostamenti oltre il perimetro del progetto possono essere essenziali per la sopravvivenza sia del bestiame sia delle persone, specialmente durante i periodi di siccità. Per l’ong i dati sul monitoraggio presentati dalle 13 comunità conservative sono qualitativamente insufficienti e in contravvenzione con le modalità di validazione.
Non c’è stata nessuna consultazione preliminare della popolazione locale e le informazioni relative al progetto sono rimaste all’interno delle unità conservative sotto il controllo della Northern Rangeland Trust. Non c’è neppure un meccanismo per la presentazione di reclami, a dispetto della metodologia richiesta dall’ente verificatore Verra, oggetto di una recente inchiesta da parte del Guardian che ha portato alle dimissioni dell’amministratore delegato, che ha comunque verificato il progetto.
Inoltre non era stato firmato nessun accordo tra NRT e le comunità conservative fino a giugno 2021, otto anni e mezzo dopo l’inizio del progetto, per cui NRT non aveva teoricamente nessun diritto contrattuale per vendere crediti di carbonio durante tutto il periodo precedente a quella data.
Chi è il Northern Rangeland Trust
Il Northern Rangeland Trust descrive la “conservazione dal basso che migliora la vita della popolazione residente e protegge l’ambiente” come la propria missione. Fondata nel 2004 da Ian Graig, la cui famiglia possedeva già 62mila ettari nella contea di Meru, l’organizzazione ha iniziato progetti di conservazione per la protezione della fauna selvatica e lo sviluppo del turismo. Attualmente, NRT racchiude 43 comunità conservative per un’area di circa 63mila ettari, più del 10% dell’intera superficie kenyota.
L’Unione Europea ha recentemente definito i programmi di conservazione della NRT un modello di progettazione e ha inserito l’organizzazione nel programma “NaturAfrica” per garantire l’eleggibilità a fondi pubblici europei.
I punti deboli dei progetti di conservazione delle aree protette
Il sistema della compensazione attraverso l’acquisto dei crediti di carbonio consente ai soggetti inquinanti di continuare a emettere, scambiando le proprie emissioni con una capacità di riduzione o di stoccaggio in un altro luogo, anche remoto.
Le nature based solution, cioè le soluzioni basate sulla natura, sono progetti che consentono ai programmi di conservazione di finanziarsi attraverso la vendita di crediti di carbonio alle aziende, promuovendo un miglioramento rispetto alle condizioni di partenza. Ciò avviene attraverso un calcolo di perdita futura stimata di Co2 nell’atmosfera e alla capacità di impedire, prima del tempo, che questo avvenga, attraverso la protezione o la creazione di nuova vegetazione.
I crediti di carbonio generati dai progetti di compensazione sono essenzialmente la differenza tra ciò che si sostiene sarebbe accaduto e ciò che effettivamente accade in presenza del progetto. Ma il concetto stesso di prevenzione è discutibile: non sappiamo cosa succederà a un pezzo di terra tra 10, 20 o 100 anni ed è molto facile creare una narrazione speculativa attorno a una foresta che ha buone probabilità di essere distrutta. Anche per via dei cambiamenti climatici, il cui impatto non è considerato nella proiezione.
Ciò che è avvenuto con lo scandalo Verra, uno dei più grandi enti certificatori del mercato volontario dei crediti di carbonio, ne è l’esempio diretto: i dati sulle proiezioni future sono stati gonfiati in modo da valutare meglio i progetti di crediti di carbonio ma le aree interessate non sono state veramente “protette”.
Nel caso del progetto della NRT, Survival afferma che “l’analisi delle mappe originali del bestiame mostra discrepanze enormi e significative rispetto alle mappe della vegetazione derivate dal satellite”. Il sospetto, dunque, è quello di una vera e propria manipolazione di dati.
Terre sottratte ai loro custodi
Non è un caso che il numero di progetti di crediti di carbonio sia in aumento nei Paesi poveri: la compensazione basata sulla natura coinvolge territori molto vasti. Per la compensazione vengono scelti Paesi dove la proprietà dei terreni è incerta ed è più facile ed economico sottrarre il controllo alle popolazioni locali.
Inoltre, la maggior parte delle foreste intatte è sotto la protezione di popolazione indigene che sono le più impattate dal mercato dei crediti di carbonio. Il paradosso è che si sottraggono terre già ben custodite per creare aree protette, che finiscono per escludere e marginalizzare gli abitanti dalle proprie terre.
Leggi anche: Net zero vs. real zero: dalla Cop26 la critica al calcolo delle emissioni di Stati e imprese
© Riproduzione riservata