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sabato, Novembre 30, 2024

I chatarreros di Barcellona: le mani (in)visibili dell’economia del riciclo

La marginalizzazione del lavoro in un’economia iperfinanziarizzata ed i movimenti migratori internazionali stanno segnando la nostra epoca. A Barcellona - e in altre città d’Europa - sono tornati da tempo i raccoglitori informali di rifiuti, e mostrano le crepe di ciò che ci raccontiamo sull’economia del riciclo

Enrico Chiogna
Enrico Chiogna
Consulente ambientale nell’ambito della biodiversità e dell’ecologia industriale. Laureato in Cooperazione Internazionale e Economia Ambientale, si avvicina alla comunicazione e all’attivismo climatico attraverso l’Agenzia di Stampa Giovanile, con cui partecipa come observer e reporter alla COY 12 e alla COP26

La città di Barcellona, almeno dai grandi cambiamenti urbanistici collegati alle Olimpiadi del 1992, si è radicalmente trasformata attraverso la “riscoperta del mare” e del turismo, in cui sono occupate circa il 50% delle attività economiche cittadine, che danno un impulso all’economia dell’intera comunidad autonoma.  Nonostante ciò, al di là delle spiagge, le tapas e i monumenti, Barcellona e la sua provincia mantengono un cuore industriale e portuale, non immediatamente visibile ai turisti che vi trascorrono qualche notte.

Tra le attrazioni turistiche più frequentate, a poche decine di chilometri a Nord Ovest della ciudad condal, troviamo l’Abbazia di Montserrat. Per giungere ai piedi dell’omonimo massiccio e dei suoi pinnacoli modellati dal vento si risale, attraverso la ferrovia o la carretera, il Vallés, un’area fortemente industrializzata la cui primigenia industria, fatta di colonie tessili, è stata nel tempo diversificata per adattarsi al rinnovato ruolo globale della metropoli, del suo porto e del suo mare.

All’altezza di Sant Andreu de la Barca, un osservatore attento, guardando fuori dal finestrino, potrebbe notare un enorme e nerissimo complesso industriale. Questo immenso spazio di 0.54 chilometri quadrati – più grande di Città del Vaticano – accoglie uno dei più grandi complessi di riciclo di rottami ferrosi d’Europa, la CELSA.

La Spagna è il quarto produttore comunitario di acciaio ed è il Paese che utilizza la più alta proporzione di metallo riciclato come input produttivo (77% contro una media europea del 55%). La CELSA è una delle più grandi acciaierie spagnole, e contribuisce all’industria pesante europea producendo ogni anno oltre 5 milioni di tonnellate di acciaio. Oltre il 97% della produzione della CELSA deriverebbe da fonti riciclate. Tra queste troviamo la chatarra, parola gergale che potremmo tradurre in italiano come “rottame” o “scarto”, e generalmente utilizzata per riferirsi alla frazione metallica dei rifiuti.

La nostra storia inizia dalla fine, ovvero dal punto di scarico della chatarra della CELSA, dove ogni giorno una moltitudine di camion viene pesata e svuotata dal suo carico diretto agli altiforni. La chatarra ci racconta una storia inattesa. La storia del ritorno di un lavoro che sembrava scomparso nel Nord del mondo e che dimostra come le radici dell’economia del riciclo, che sembrano essere sempre più tecnologiche, riguardano invece il valore economico, sociale ed ambientale estratto dal lavoro manuale ed informale di individui marginalizzati.

Infatti una parte significativa della raccolta dei rifiuti metallici prodotti dal metabolismo urbano di Barcellona viene svolta da riciclatori informali (waste pickers), i cosiddetti chatarreros. Queste persone, che vivono perlopiù in una condizione di marginalizzazione sociale ed economica, vengono spinte verso questa attività dalla necessità e da questa attività sono spinte ancora più ai margini, invisibilizzate nel dibattito pubblico e nella stessa città in cui vivono.

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Un sistema all’avanguardia

Il sistema della raccolta dei rifiuti solidi urbani a Barcellona è un sistema capillare e ben organizzato, attributi necessari per un’area metropolitana di tre milioni e mezzo di abitanti che producono 1,19 chilogrammi di rifiuti per persona ogni giorno. Il sistema si basa sulla raccolta differenziata in grossi bidoni liberamente accessibili per le strade che vengono svuotati una o più volte al giorno, a cui si sommano piccoli bidoni dell’indifferenziata sui marciapiedi.

Il cittadino (meno il turista) è responsabilizzato nella divisione dei rifiuti domestici ed è supportato da uno sforzo continuo di educazione al riciclo. Inoltre in ciascun barrio della città è possibile lasciare gli ingombranti in strada in una specifica sera alla settimana, che vengono poi ritirati durante la notte. Dal 1993 esistono infine i cosiddetti “punts verds, isole ecologiche sparse in punti strategici di ogni barrio dove si possono conferiti rifiuti ingombranti o che necessitano particolari condizioni di precauzione nel riciclo (batterie, oli, rifiuti elettronici). Nei punts verds non è possibile riscattare eventuali oggetti funzionanti o facilmente riparabili per un eventuale riuso. Infatti, nel momento in cui un oggetto viene cestinato, lasciato per strada oppure in un punt verd diventa automaticamente proprietà dell’amministrazione locale.

Infine negli ultimi anni sta venendo sperimentato in alcune città della Catalogna ed alcuni barrios di Barcellona un sistema di raccolta porta a porta, che si è dimostrato essere uno dei sistemi di gestione dei rifiuti solidi urbani che da i risultati più efficienti in termini di differenziazione dei rifiuti attraverso un ulteriore maggiore responsabilizzazione dell’utente.

Nonostante le molte luci, che permettono a Barcellona di sostenere l’imponente afflusso turistico in maniera efficiente, una parte non indifferente dei rifiuti, proveniente dalla frazione indifferenziata, sfugge al sistema pubblico e agli appaltatori privati (a cui è affidata soprattutto la gestione dei rifiuti industriali e di costruzione) e transita fino alle grandi aziende del riciclo per vie informali, attraverso una catena di valore basata sul lavoro manuale dei chatarreros.

I veri minatori della città

I chatarreros sono, lo abbiamo detto, i riciclatori informali di Barcellona. Una frazione della popolazione urbana, che per vari motivi sociali ed economici, si ritrovano ad occuparsi in maniera informale del recupero, la separazione e il trasporto di ciò che viene scartato dalla città, utilizzando come mezzi di produzione il proprio lavoro manuale, un contenitore trasportabile, come un carrello o delle borse, e il proprio cellulare.

Nonostante possano essere definiti come veri e propri “minatori delle città”, contribuendo a mettere a terra la decantata visione di urban mining, il valore aggiunto che i chatarreros generano in termini ambientali – contribuendo all’economia del riciclo e del recupero – ed economici – contribuendo al settore del riciclo – non viene riconosciuto.

“Con il loro lavoro, i chatarreros garantiscono la ricircolazione di oggetti e materiali scartati, ma che hanno un valore residuale d’uso o di riciclo, nel processo metabolico urbano, in cui la città è un corpo attraverso cui passano materiali ed energia che vengono digeriti nel loro uso e scartati come rifiuti”. Per Daniele Vico, dottorando in economia ecologica all’Università di Barcellona che si occupa di studiare le interazioni tra questo fenomeno e le politiche urbane, il ruolo dei raccoglitori informali è importante nell’indirizzare i flussi di materiali della città.

Ciò si manifesta da un lato nel recupero di oggetti che possono essere rivenduti nei mercati di seconda mano sparsi nella città. Dall’altro, e in forma più evidente, garantiscono il dirottamento dalle discariche di una parte dei rifiuti industriali e domestici. In questo modo riforniscono la catena del valore del riciclo di materiali ferrosi, dal valore abbastanza alto per garantire una sussistenza. Di questa sono sia il motore che le vittime: facendo parte dell’economia informale – ovvero quella parte dell’economia non formalizzata da contratti, protezione sociale o tassazione – affrontano una serie di rischi lavorativi e di esclusione sociale e non hanno accesso alle protezioni sociali di base, come il salario minimo e la sanità.

Dalle strade alle fonderie

Per capire le connessioni che legano le grandi realtà del riciclo industriale con il lavoro dei chatarreros e lo sferragliare dei loro carrelli, è necessario chiarire i percorsi alternativi che i rifiuti possono prendere entrando e uscendo in quello spazio informale dell’economia urbana.

Come spiega ancora Vico, i chatarreros si appoggiano su 3 fonti principali:

  • i cassonetti grigi dell’indifferenziata, che ricevono la frazione non differenziata degli hogares (ossia le famiglie);
  • i rifiuti prodotti nei cantieri da attività di costruzione e demolizione, il cui accesso spesso è facilitato da contatti con i lavoratori del settore delle costruzioni;
  • infine, i mobili e i materiali ingombranti che, a turno, i cittadini dei vari barrios della città possono mettere in strada per il recupero da parte dell’azienda dei rifiuti

I chatarreros raccolgono e trasportano i rifiuti provenienti da questi luoghi in borse di plastica resistente, carrelli della spesa, o a volte addirittura carretti legati alle biciclette. Generalmente lavorano da soli, e raccolgono in diverse zone della città, cercando di evitare di farsi competizione a vicenda. Dopo ore passate a camminare, caricare e scaricare oggetti, ricevere chiamate al telefono o da persone in strada o negli edifici che richiedono il loro servizio, i chatarreros  hanno due scelte:

  • possono portare il loro carico direttamente in una chatarrería, ovvero un punto di acquisto, raccolta, smistamento e rivendita dei materiali di scarto, soprattutto metallici. A seconda della qualità della raccolta, le chatarrerías scelte possono essere registrate all’amministrazione pubblica oppure informali, non registrate alla municipalità e dove di solito i rifiuti vengono ulteriormente divisi e “raffinati” per poi essere rivenduti alle chatarrerías formali.
  • in alternativa, a seconda dei loro contatti, possono raggiungere un punto di raccolta, dove troveranno un altro chatarrero dotato di un veicolo, che agisce da intermediario, acquistando la chatarra dai riciclatori “di strada” e trasportandola alle chatarrerías.

In ciascuno di questi passaggi – un processo manuale di recupero, smontaggio, separazione e trasporto – ognuno degli attori guadagna una piccola percentuale del valore generato, diluita su ogni chilo di chatarra recuperata (spesso pochi centesimi per chilo di materiale). Dato che i prezzi finali dei materiali sono fissati dal mercato internazionale, ciò si ripercuote sulle valutazioni a cui le chatarrerías formali comprano dai chatarreros, dalle chatarrerias informali o dai trasportatori. In una dinamica a domino che tende a comprimere maggiormente i guadagni nei livelli più bassi di questa catena di fornitura, ovvero i chatarreros “di strada”.

Le chatarrerías formali, che forniscono la domanda necessaria al funzionamento del sistema informale, hanno un rapporto di dipendenza e di sfruttamento nei confronti dei riciclatori informali, evidenziato dal fatto che, nonostante la necessità giornaliera di reddito, i chatarreros non lavorano il sabato e la domenica, quando la maggioranza delle chatarrerias sono chiuse.

La catena del valore informale della chatarra è popolata da 5 attori: i chatarreros “di strada”, i chatarreros trasportatori, le chatarrerías informali e quelle formali, che fungono anello di congiunzione con i grandi riciclatori come la CELSA, riportando i rifiuti nell’economia formale. Nel momento in cui viene staccata la ricevuta d’ingresso nella chatarrería formale, il rifiuto viene estratto dal circuito dell’economia informale e diventa un materiale secondario di recupero, che viene poi rivenduto alle grandi aziende del riciclo, l’ultimo anello della catena del valore. Ciò che accade prima di quella ricevuta, dunque, scompare nella bruma dell’economia informale.

Un fenomeno evidente ma difficile da analizzare

La semplificazione di cui sopra deve essere presa come tale: come sanno le amministrazioni di mezzo mondo, raccogliere dati sull’economia informale è difficilissimo, quasi impossibile. Per esemplificare l’eterogeneità nelle direzioni dei flussi di materiali, Vico spiega come in alcune interviste con dei chatarreros sia venuto a conoscenza del fatto che una parte di questi flussi di materiali, di particolare interesse tecnologico (come motori dei frighi, pezzi delle lavatrici) vengono portati al porto commerciale dove, probabilmente, vengono poi spediti in Paesi dall’altro lato del Mediterraneo, in una dinamica di trasferimento tecnologico di pezzi di ricambio che possono essere riutilizzati nelle filiere del Sud del Mondo.

L’assenza dei dati genera enormi difficoltà nel comprendere le vere dimensioni del fenomeno, ostacolando il riconoscimento del contributo economico ed ambientale dell’attività informale dei chatarreros all’economia formale, e in converso, quanto il valore da loro prodotto viene sfruttato per offrire un servizio diffuso alla cittadinanza. Lo riconosce anche Vico, che nell’ambito del progetto Wastecare, realizzato dall’università di Barcellona e finanziato dall’amministrazione municipale, mira anche a migliorare le prime stime sulle del fenomeno del waste picking nella città realizzate nei primi anni ‘10.

La stima realizzata nel 2011 dal Gremi de Recuperació de Catalunya, l’associazione delle aziende di riciclo catalane, riporta la strabiliante cifra di 125.492 tonnellate di metallo recuperate da riciclatori informali in un anno nell’intera Catalogna. Secondo un’analisi successiva di alcuni ricercatori dell’Università Autonoma di Barcellona, basata su dati raccolti dall’IDESCAT (l’istituto di Statistica della Catalogna), questo valore rappresentava il 26% dei rifiuti metallici industriali nello stesso anno ed era venti volte superiore alla quantità di rifiuti metallici raccolta dall’amministrazione pubblica. I dati non sono dei più puliti, considerando che la stima si basa sull’intera Catalogna, mentre i dati dell’IDESCAT solamente sulla città di Barcellona, ma considerando che Barcellona rappresenta più di un terzo dell’economia della Catalogna, il dato rimane comunque sbalorditivo.

Nonostante la certezza dei dati non sia ancora disponibile, le dimensioni di questo fenomeno sono evidenti come il lavoro di questa moltitudine eterogenea che si muove nella città. Questo potrebbe contribuire a migliorare le figure relative al recupero e il riciclo di una città come Barcellona, che fa parte di coalizioni come il gruppo C40 e la Zero Waste City Alliance, e della Catalogna intera.

Tuttavia, pur essendo così visibili nella vita quotidiana e generando probabilmente delle esternalità positive in un’industria strutturalmente in perdita, i waste pickers rimangono lontani dal dibattito pubblico.

Una moltitudine eterogenea

Il fenomeno del waste picking non è un nuovo nelle città europee, ma piuttosto dormiente: in mancanza di sistemi centralizzati di recupero dei rifiuti solidi municipali, questa attività era variamente praticata fino alla fine del XIX secolo. Con l’avvento della gestione municipale dei rifiuti nelle città che si andavano rapidamente industrializzando, le attività informali di recupero dei rifiuti vennero spinte sempre più fuori dalle città dalla centralizzazione dei sistemi di gestione nelle mani delle amministrazioni municipali, o più recentemente, esternalizzate ad aziende private di gestione dei rifiuti.

Con la Grande Recessione finanziaria iniziata nel 2008, espressione della perdita di centralità del lavoro nelle società post-industriali a favore dell’economia finanziaria, il fenomeno del recupero informale dei rifiuti torna a manifestarsi sempre di più nelle città del Nord del Mondo, fomentato dalla sostenuta overconsumption, l’inefficienza economica strutturale dei sistemi di gestione dei rifiuti urbani e il grande fenomeno geopolitico e storico delle migrazioni internazionali. Quest’ultimo, in particolare, si interseca con le conseguenze della recessione, che hanno generato delle nicchie economiche che accolgono persone con scarse alternative lavorative.

A Barcellona, come in altre parti del mondo, la provenienza e le traiettorie di vita dei riciclatori informali difficilmente possono essere standardizzate in una narrazione comune. Secondo alcune stime, realizzate da un gruppo di ricercatori coordinati dal professor Federico Demaria dell’Università di Barcellona, di cui Vico fa parte, nell’intera Catalogna potrebbero essere più di 50mila.

I chatarreros sono perlopiù di origine subsahariana, della zona MENA (Medio Oriente e Nord Africa), dell’Est Europa, di etnia Rom o Sinti. Una minoranza è composta anche da persone iberiche. Per molte di queste persone il lavoro di riciclatore informale rappresenta una extrema ratio e, in presenza di alternative, non è la loro fonte primaria di reddito.  Questo lavoro si intraprende inizialmente in maniera transitoria e per necessità di sopravvivenza economica, a causa di un sistema di leggi migratorie in cui se non hai i documenti non puoi accedere a un lavoro formale, che garantirebbe il salario minimo legale e una serie di altre protezioni sociali e lavorative. Al contempo, se non hai un lavoro regolare o una promessa di lavoro non puoi accedere ai documenti.

Come racconta un waste picker di origine senegalese di 29 anni: “Se avessi i documenti non farei questo lavoro, è troppo faticoso, c’è sempre il rischio di farsi male e i guadagni dipendono dalla fortuna di ogni giorno. Senza i documenti però, non ci sono molte altre alternative. Ogni tanto attraverso alcuni amici sono riuscito a lavorare nella raccolta di frutta e verdura, soprattutto d’estate: in Senegal facevo l’agricoltore e si viene pagati un po’ meglio, ma c’è sempre il rischio di controlli della polizia contro i lavoratori senza documenti”.

Inoltre, come ricordato, la municipalità diventa automaticamente proprietaria dei rifiuti lasciati nei cassonetti oppure per strada, configurando una possibile fattispecie di reato di “furto tecnologico” nei confronti dei riciclatori informali che si impossessano indebitamente dei materiali scartati per rivenderli in mercati secondari. Tuttavia, questa ipotesi viene smentita da alcuni riciclatori intervistati e anche Vico conferma che ”di solito la polizia interviene in maniera funzionale: i riciclatori non vengono disturbati per la raccolta dei rifiuti, ma piuttosto per determinati comportamenti che possono interrompere il normale fluire delle attività cittadine, come per esempio occupare la pista ciclabile con il carrelli, lasciare parte dei rifiuti estratti dai bidoni fuori dagli stessi, oppure, in tema di intersezionalità, per la loro condizione di senzatetto”.

Una somma di rischi

Il lavoro del riciclatore informale presenta un grosso rischio di reddito. Questo è calcolato alla giornata e, come è facile da capire, la paga dipende principalmente dalla fortuna, che varia con il tipo e la quantità di materiale recuperato. Nelle parole del waste picker intervistato: “il carrello di oggi pesa molto ma è stato un giorno sfortunato. Lunedì ho fatto 30 euro, martedì 20, oggi probabilmente ne farò 10. Dipende da quello che si trova nel proprio giro”.  Racconta che gli è capitato di ricevere richieste dai balconi delle case: persone che lo vedevano passare con il carrello gli chiedevano di aiutarli a disfarsi di rifiuti ingombranti, donandogli a volte anche qualche euro o del cibo.

Alla fortuna si aggiungono i rischi fisici per il lavoratore, che molto raramente indossa protezioni oltre a dei guanti e maneggia degli oggetti che si presentano in modi imprevedibili (impuri, rotti, scheggiati, sformati, di composizione chimica variabile e a volte pericolosa). La natura di questo lavoro, al livello del chatarrero “di strada”, può generare uno stress fisico non indifferente, in quanto a seconda dell’opportunità i carrelli possono venire più o meno riempiti, arrivando ad ospitare lavatrici, forni, vasche da bagno e assi metalliche.

Infine, e forse in maniera più sottile, il rischio più grande per i waste pickers è l’invisibilizzazione nel dibattito pubblico. Nonostante intrattengano dei buoni rapporti con i cittadini, il fatto di lavorare generalmente da soli sfavorisce la creazione di legami orizzontali al di fuori di quelli della comune nazionalità, inibendo la possibilità di includere una voce unita nel dibattito pubblico cittadino. Le dichiarazioni e le misure di policy, nonostante Barcellona negli anni si sia distinta come “refuge city” e abbia accolto decine di migliaia di migranti, sono prese seguendo una narrativa inclinata verso il settore del riciclo formale.

Questa tende ad agire sui sintomi o ad allargare il campo d’azione del recupero formale: si agisce per ammonire contro la sporcizia lasciata accanto ai bidoni dei chatarreros o il disturbo dell’ordinato susseguirsi delle attività cittadine, oppure ancora si riduce l’accessibilità ai rifiuti con dei bidoni che si possono aprire solo con delle chiavi magnetiche, senza però stabilire alcuna azione a sostegno e protezione del lavoro informale. Unica esperienza positiva è stata quella di Alencop, progetto finanziato dalla città, che dal 2015 al 2020 ha sostenuto alcuni chatarreros nella formazione di una cooperativa, che non è però riuscita a diventare finanziariamente autosufficiente e ha cessato le sue attività poco dopo l’inizio della pandemia da Covid-19.

A parte l’esperienza di Alencop, né le autorità municipali né le aziende di riciclaggio hanno mostrato interesse a contestare il ruolo dei chatarreros. In fondo, esternalizzare un’attività economica strutturalmente in perdita come quella della gestione dei rifiuti conviene. Tuttavia, le sinergie tra il settore informale e quello formale nella gestione dei rifiuti urbani e industriali sono evidenti. Come rilevano le ipotesi di ricerca di Vico informate dalla letteratura sul tema, se da un lato la persona del chatarrero nella visione dominante è presentata come un problema sociale e un potenziale problema per un ordinato svolgimento del servizio di raccolta dei rifiuti, allo stesso tempo questa persona svolge un servizio a basso costo per la municipalità e il settore formale del riciclo, facendosi carico dei rischi di salute, lavorativi ed economici determinati da questa gestione “di base” ed informale dei rifiuti.

Attraverso i corpi di questi lavoratori, si espandono le capacità della città di raggiungere i propri obiettivi di circolarità, mentre gli effetti negativi, che si manifestano proprio sui loro corpi e sulla loro prolungata condizione di marginalizzazione e di invisibilizzazione, vengono taciuti. Le attività informali dei riciclatori non si adattano ai moderni sistemi di gestione dei rifiuti solidi urbani, ma ne rappresentano una parte nuovamente importante. Tuttavia se l’obiettivo è solamente quello di aumentare il recupero dei materiali, nessun attore formale ha incentivi a cambiare la situazione.

Scene emblematiche della convivenza tra l’economia formale e l’informale nel recupero della chatarra non sono poi così rare, e si osservano dove i chatarreros e i netturbini della municipalizzata svolgono il proprio lavoro fianco a fianco, facendo finta di niente, come se non si vedessero.

L’ambiguità e l’invisibilizzazione sembrano essere la strategia più cauta per l’amministrazione municipale e le aziende formali della filiera del riciclo nel gestire un fenomeno. Le cause della marginalizzazione fanno capo soprattutto ai conflitti tra la legalizzazione di questi lavoratori e le leggi migratorie statali, mettendo dei paletti molto stringenti alle azioni che la municipalità può portare a termine. Questo comporta una maggiore complessità nell’affrontare la questione, e gli interessi di questi minatori urbani non vengono riconosciuti e difesi, mantenendoli in una condizione di sfruttamento che esacerba la povertà e l’esclusione sociale. Alla richiesta di dichiarazioni sul tema e sulla propria posizione, infatti, né l’ufficio stampa della città né quello di una azienda del riciclo, hanno risposto.

Autorganizzazione

Poblenou è un quartiere nella parte est della città, verso il fiume Besos e Badalona, il cui sviluppo è anch’esso un prodotto delle Olimpiadi del ‘92. Il turismo costiero, derivante dallo sgombero delle baraccopoli nelle spiagge e la riqualificazione della costa sta iniziando ad appropriarsi anche dell’entroterra, e Poblenou è un barrio in costruzione. Non è difficile trovare edifici avveniristici abitati solo di giorno da start-up e ristoranti chic. Ci sono anche degli incentivi per far trasferire persone anziane a Poblenou, ma le strade, verso sera, si fanno sempre più vuote.

Le chatarrerías, che popolano alcuni carrers del barrio verso il fiume Besos, sono sempre animate negli orari di apertura, con persone e veicoli che entrano ed escono da un deposito ad un capannone dall’altra parte della strada, dove si intravedono montagne di materiali. Qui è dove si porta la chatarra di buona qualità, ma procedendo tra lotti in costruzione e antiche fabbriche, basse ed enormi, si trovano le chatarrerías informali, dove invece si può portare di tutto.

Queste si trovano di fronte a una grande e silenziosa fabbrica in Carrer de Puigcerdà.  Ironicamente, fino a qualche anno fa, in questa fabbrica esisteva la chatarreria informale più grande di Barcellona, uno dei centri dell’economia della chatarra. Multipli magazzini che davano su un cortile centrale operavano secondo differenti funzioni. Le attività produttive erano incentrate sulla riparazione e sullo stoccaggio di materiali o oggetti riutilizzabili, ma la fabbrica era anche la casa di molti dei lavoratori e conteneva anche un bar e un parrucchiere, operando secondo molteplici tipi di proprietà, solidarietà, cooperazione e gerarchia interna. A seguito di un’ordinanza di sgombero nel luglio 2013, i chatarreros si trasferirono in altri luoghi, disarticolando la comunità e indebolendo le loro rivendicazioni politiche.

Nonostante gli sforzi dell’amministrazione municipale di spostare sempre di più verso le periferie gli strati più poveri della società urbana, riqualificando interi quartieri, Poblenou è ancora un luogo dove le interazioni tra l’informalità e la gentrificazione si mostrano in tutte le loro contraddizioni. Una moltitudine eterogenea ed autorganizzata continua a passare di là, scaricando borse, carrelli e furgoni, attendendo forse il riconoscimento dei benefici economici, sociali ed ambientali del loro lavoro, che potrebbe cambiare la narrazione e migliorare le loro condizioni.

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Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente

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