Alle 9.15 di oggi 27 settembre, Cláudia, Catarina, Martim, Sofia, André e Mariana, sei giovani portoghesi tra gli 11 e i 24 anni, si troveranno di fronte ai giudici della Corte Europea dei Diritti Umani, con addosso i riflettori dei media e l’attenzione di tutti gli attivisti climatici del mondo. Dall’altro lato, le avvocature di 33 Paesi costretti a difendersi dall’accusa di inazione climatica.
Da oggi, il 27 settembre è destinata a divenire una data importante per la storia delle climate litigation: la data in cui si celebra a Strasburgo l’attesa udienza del caso Duarte, dando il via alla più ampia azione legale mai intrapresa in campo climatico.
Avviato esattamente tre anni fa, nel settembre 2020, il caso legale presenta caratteristiche uniche nel panorama del contenzioso climatico. I giovani ricorrenti hanno citato in giudizio di fronte alla CEDU ben 33 Paesi, i 28 Stati membri del Consiglio d’Europa (Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Germania, Grecia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Croazia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Lettonia, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, Repubblica Slovacca, Slovenia, Spagna e Svezia), assieme a Norvegia, Russia, Svizzera, Turchia, Ucraina e Regno Unito.
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Da dove nasce il caso Duarte?
Ma il caso è senza precedenti non solo per il numero di convenuti. L’azione solleva importanti questioni giuridiche: la possibilità di ricorrere alla CEDU prima di aver esaurito i rimedi interni e l’esistenza di una giurisdizione extraterritoriale per i danni al clima. Se la decisione dovesse riconoscere un esito favorevole per i ricorrenti, costituirebbe un precedente giuridico di estrema rilevanza.
I ricorrenti sostengono che i Paesi citati, non avendo adottato azioni efficaci per contrastare i cambiamenti climatici e ridurre le emissioni di gas serra in linea con l’Accordo di Parigi del 2015 hanno violato i loro diritti umani. Pertanto, chiedono alla Corte di condannarli a intraprendere politiche climatiche più ambiziose.
L’idea della causa è sorta dopo i drammatici incendi che nel 2017 hanno funestato il Portogallo causando oltre 60 morti e distruggendo più di 20.000 ettari di boschi: mettendo a rischio la vita e il benessere psico-fisico e producendo impatti sproporzionati sulle giovani generazioni, gli impatti climatici devono essere considerati minacce al godimento di diritti fondamentali come il diritto stesso alla vita, alla privacy e alla non discriminazione. Tutti diritti riconosciuti e tutelati rispettivamente dagli articoli 2, 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Dopo aver ricevuto la denuncia la Corte ha deciso di trattare prioritariamente il caso accelerando la procedura e ha respinto la mozione dei convenuti che chiedevano di annullare la decisione. Le parti hanno dunque avuto tempo fino al maggio 2021 per presentare le proprie argomentazioni circa l’ammissibilità dell’azione.
Sempre più consenso sul tema della giustizia climatica
L’opinione pubblica europea e le organizzazioni ecologiste sostengono con forza il caso dei giovani portoghesi: la causa rappresenta uno strumento importante per fare pressione sui governi europei e spingerli a moltiplicare gli sforzi di riduzione delle emissioni. Oltre all’attenzione riservata dai media sono numerosi gli attori che nel frattempo sono intervenuti nella causa a sostegno delle argomentazioni dei ricorrenti. Tra essi ong internazionali come Amnesty International, CAN Europe, Greenpeace, UCS, CIEL e Save the Children.
La causa Duarte si insedia nel solco delle climate litigation, i conteziosi climatici che in molti Paesi di tutto il mondo stanno portando i decisori politici in tribunale per inazione climatica. Un fenomeno in rapida diffusione: le cause climatiche sono passate dai 884 casi censiti nel 2017 nel primo censimento della UNEP ai 2.341 del 2023 secondo i dati raccolti nel Global trends in climate change litigation, fornendo alla società civile un ulteriore strumento di lotta per la giustizia climatica di fronte all’inadeguatezza delle politiche climatiche nazionali. Oltre all’Emission Gap Report pubblicato dalla UNEP e al Greenhouse Gas Bulletin della WMO sono numerose le organizzazioni non governative e i centri indipendenti impegnati a misurare il gap tra impegni e misure in campo.
Tra esse, l’iniziativa Carbon Action Tracker valuta periodicamente la coerenza delle politiche adottate rispetto all’obiettivo dell’Accordo di Parigi, mostrando (qui l’ultimo aggiornamento) che neppure uno dei Paesi firmatari ha politiche in linea con gli impegni assunti in sede internazionale.
In questa corsa contro il tempo per fermare il collasso climatico, l’Italia non fa eccezione. Avviata nel 2021 a nome di 203 richiedenti, la causa climatica A Sud e altri VS Italia, lanciata nell’ambito della campagna Giudizio Universale, chiede al giudice civile di Roma di riconoscere le responsabilità climatiche del nostro Paese e di condannarlo a moltiplicare gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Dopo l’ultima udienza celebrata il 13 settembre scorso la decisione di primo grado è attesa nei prossimi mesi.
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