“Il comunicato che è uscito fuori dal programma è particolarmente ambizioso e riflette proprio il taglio che ho voluto dare alla presidenza italiana. Non è il programma di due notti ma frutto di mesi di trattative, da febbraio a oggi, e 17 incontri. È la stessa visione che abbiamo messo nel Pnrr, condivisa non solo dai Paesi europei. Difficile mettere insieme Paesi che hanno storie completamente diverse”. Appare davvero provato Roberto Cingolani, ministro alla Transizione ecologica del governo Draghi, quando il 23 luglio si presenta alla conferenza stampa, dopo l’estenuante due giorni di trattative del G20 Ambiente a Napoli.
L’incontro che mette insieme i cosiddetti grandi della Terra, ovvero i 20 Paesi che producono l’80% del Pil mondiale e l’85% delle emissioni di anidride carbonica, è stato un banco di prova fondamentale per il nostro Paese, che detiene la presidenza del G20 dall’1 dicembre 2020. E allo stesso tempo una dimostrazione plastica della reale volontà delle potenze mondiali, al di là degli annunci, di assumere scelte nette e radicali per fronteggiare adeguatamente la crisi climatica in corso e, più in generale, la tutela ambientale. Per Cingolani era anche l’occasione per mostrare cosa significhi esattamente la transizione ecologica, visto che finora il suo ministero si è contraddistinto per ambiguità, polemiche e assist ai settori energivori. “Si tratta di un accordo storico – ha detto il ministro -: sui 60 articoli del documento finale, infatti, sono 58 quelli approvati“. Peccato che i due articoli rimasti fuori siano i più importanti.
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Nessun miglioramento dell’Accordo di Parigi
È lo stesso Cingolani a dichiarare che l’accordo di Napoli sostanzialmente consolida l’accordo di Parigi del 2015, senza tentare degli obiettivi più ambiziosi. Ne sono prova proprio i due articoli rimasti fuori dal documento 2021. Il primo riguarda l’aumento medio della temperatura mondiale al di sotto degli 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali: Russia, Cina e India e altri due Paesi di cui il ministro ammette candidamente di “non ricordarsi” si sarebbero opposti, promettendo però di rispettare l’Accordo di Parigi che chiede, invece, una riduzione di 2°C. Il secondo punto riguarda il phase out, l’uscita graduale dal carbone entro il 2025, che non è stato approvato da “alcuni Paesi” come Cina, Russia e India con l’aggiunta di un quarto, anche questo “dimenticato” dal ministro.
Una delusione vera e propria, se si considera che i tavoli erano specificatamente dedicati ai temi “Ambiente, Clima ed Energia”. La palla torna al prossimo G20 dei Capi di Stato, che dovranno riconfrontarsi ed eventualmente prendere una decisione più ambiziosa.
L’unicità dell’accordo annunciata da Cingolani riguarderebbe sostanzialmente il riconoscimento del “rapporto non scontato tra clima, politiche energetiche e industriali”, ma in realtà anche questo tema rientra nel primo punto rimasto in sospeso. Non si è riusciti, infatti, a prendere una decisione sullo stop agli incentivi alle fonti fossili: carbone e gas potranno continuare ad essere finanziati.
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Non può bastare il raddoppio del riciclo
Già la prima giornata del G20 del 22 luglio, in teoria “la più facile” perché evitava la divisiva questione della decarbonizzazione, aveva fatto temere la potenza dei veti incrociati. Tanto che il cosiddetto “communiqué” emanato ruota attorno a tre macrotemi – biodiversità, economia circolare e finanza sostenibile – ed è pieno di principi condivisibili (dal ripristino dei suolo degradato alla gestione sostenibile dell’acqua fino alla protezione rafforzata di oceani e mari) ma, sostanzialmente, è una lista di buone intenzioni o poco più. Nessun impegno vincolante, dunque. Di questo atteggiamento poco ambizioso una delle principali vittime è proprio l’economia circolare, insieme all’efficienza delle risorse, che sono “importanti strumenti disponibili per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile e che possono contribuire in modo significativo al consumo e alla produzione sostenibili, nonché ad affrontare il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, il degrado del suolo e l’inquinamento”. Insomma, nella visione dei potenti del Pianeta l’economia circolare coincide con l’aggiunta dell’aggettivo “sostenibile” al solito andazzo.
“Basandoci sulle iniziative esistenti – continua il comunicato congiunto dei ministri dell’Ambiente – e coinvolgendo i giovani come potenti agenti di cambiamento, incoraggeremo l’attuazione di pratiche e approcci di economia circolare promuovendo il dialogo, la cooperazione, i partenariati, l’apprendimento congiunto, compresa la condivisione di informazioni sui regimi nazionali di responsabilità estesa del produttore, sulla prevenzione dello spreco alimentare e sulle catene del valore della moda e del tessile, comprese le industrie tessili, conformemente alle politiche e alle priorità nazionali. Ringraziamo la presidenza italiana del G20 per aver fornito spazio di confronto organizzando workshop su questi temi. Rafforzeremo le collaborazioni con l’industria, le organizzazioni internazionali e le parti interessate pertinenti per stimolare la progettazione di alta qualità di prodotti durevoli e riciclabili e per costruire le competenze, le innovazioni e le infrastrutture necessarie”. Davvero ci si può accontentare di un maggiore scambio di informazioni e pratiche (tra l’altro solo annunciato, senza nulla dire sulle modalità con le quali questi scambi dovrebbero avvenire)?.
Uno dei pochi target specifici è quello del raddoppio del tasso di circolarità dei materiali al 2030, da conseguire soprattutto attraverso il riciclo dei rifiuti e l’utilizzo di materiali riciclati. Peccato, però, che l’impegno sia riconosciuto su “base volontaria”, mentre vale la pena far notare che l’economia circolare non si esaurisce certamente nel riciclo, che nel aradigma delle 4 R è appena prima del recupero ma dopo il riutilizzo e la riduzione. Concetti evidentemente più scomodi, perché insieme all’ecoprogettazione, alla riparazione e alla prevenzione in generale, impongono un rovesciamento del modello di produzione di cui non c’è traccia nei documenti ufficiali.
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G20, fallito l’accordo: la lettera della società civile
Tutto cambia e nulla si trasforma, nonostante le forti richieste da parte delle organizzazioni della società civile di tutta Europa impegnate nelle cause contro gli Stati per inazione climatica. Gli attivisti e le attiviste hanno inviato ai ministri dell’Ambiente del G20 una lettera per chiedere che si agisca subito.
“Tutti i membri del G20 sono firmatari dell’Accordo di Parigi – è l’esordio della missiva – Si sono dunque impegnati a contenere l’aumento della temperatura globale “ben al di sotto dei 2°C” rispetto ai livelli preindustriali, e a fare ogni sforzo per non superare il riscaldamento globale di 1,5°C. Tuttavia, quasi sei anni dopo la firma dell’accordo, i contributi nazionali stabiliti dai singoli paesi continuano a proiettare livelli pericolosi di riscaldamento globale a fine secolo, stimati in circa +3°C. Il G20 rappresenta le economie più industrializzate del mondo, che insieme rappresentano più dell’80% del PIL mondiale, il 60% della popolazione del pianeta e circa l’85% delle emissioni globali di gas serra (GHG). Nonostante sia quindi fondamentale che i paesi membri del G20 prendano l’iniziativa nell’implementare obiettivi ambiziosi e adeguati di riduzione delle emissioni, essi continuano a ritardare colpevolmente l’adozione di azioni climatiche significative” hanno dichiarato le organizzazioni.
In molti Paesi europei, infatti, le organizzazioni della società civile si sono attivate per fare causa allo Stato, ottenendo importanti vittorie. Non ultimo il caso italiano: lo scorso 5 giugno oltre 100 associazioni, il cui primo ricorrente è l’associazione A Sud, hanno fatto causa allo Stato per inazione climatica, lanciando la campagna Giudizio Universale. Adesso si attende l’esito della prima udienza.
“In una estate funestata dai disastri climatici, è sempre più evidente che non possiamo più permetterci di perdere tempo – commenta Marica Di Pierri, portavoce della campagna Giudizio Universale – E invece il documento licenziato alla fine delle negoziazioni del G20 a Napoli, su clima e energia rinuncia a due punti cruciali: il riferimento all’obiettivo degli 1,5°C , da tradurre in un grande sforzo concentrato nel decennio appena iniziato, e la data per il phase out dal carbone, la cui discussione in merito è stata ulteriormente rimandata. Senza questi punti di minima lo sforzo diplomatico assume l’aspetto farsesco di un mero esercizio di stile. Questa cecità non è più perdonabile: una colpevole inazione il cui costo va calcolato in termini di vite umane, diritti e disastri ambientali”.
Forti le reazioni anche da parte della piazza: a Napoli nella prima giornata del summit dei migliaia di attivisti coordinati dalla rete “Bees against G20” hanno sfilato per le strade di Napoli chiedendo ai grandi del Pianeta di fermare i finanziamenti alle industrie fossili. Richieste che sono rimaste inascoltate: l’estenuante discussione di queste giornate consegna all’appuntamento della Cop 26 e al prossimo G20 dei Capi di Stato un documento in cui ci sono strumenti dettagliati, tante buone intenzioni e un sostanziale nulla di fatto sui punti più caldi, è proprio il caso di dirlo, del dossier.
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