Seria preoccupazione e richiesta di trasparenza: così 22 organizzazioni della società civile si sono espresse in merito al finanziamento della Banca europea per gli investimenti (BEI) su progetti che riguardano le materie prime critiche. Negli ultimi anni la BEI ha annunciato il suo sostegno al piano industriale all’interno del Green Deal dell’Unione Europea e al Critical Raw Materials Act, ampliandone il campo di applicazione per includere l’estrazione, la lavorazione e il riciclaggio delle materie prime critiche.
In sostanza la Banca europea per gli investimenti è diventata in questi anni uno dei principali finanziatori della transizione ecologica voluta dalla scorsa e dall’attuale (forse) Commissione Europea, entrambe guidate dalla tedesca Ursula von der Leyen. Ed è noto che uno dei principali mantra dell’UE è quella di una maggiore autonomia sul fronte delle materie prime critiche, vale a dire quei materiali e quei metalli vitali per l’energia fondata sulle rinnovabili, per il settore della difesa e quello delle tecnologie digitali. Tuttavia, nonostante i proclami, è noto che in materia di estrazioni il Vecchio Continente offre ben poco per poter sostenere la sfida con la Cina o con gli Usa.
Ecco perché la lettera delle 22 organizzazioni della società civile – tra cui ci sono Action Aid, Friends of the Earth Europe, European Environmental Bureau – chiede di fermare immediatamente i nuovi investimenti previsti per le estrazioni nei Paesi del Sud del mondo, in attesa di una maggiore chiarezza. Anche perché i precedenti non lasciano ben sperare.
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Materie prime critiche sì, ma a che prezzo?
La lettera delle 22 ong rivolta alla Banca europea per gli investimenti fa notare che “dopo non aver finanziato progetti minerari negli ultimi 10 anni, il consiglio di amministrazione della BEI ha ampliato l’ambito dei settori ammissibili per includere l’estrazione, la lavorazione e il riciclaggio di materie prime critiche”. Un cambio di strategia che si deve, come già accennato, al cambio di passo dell’Unione Europea. E che però da solo non risolve le criticità riscontrate in precedenza. Le stesse ong fanno notare che “la storia della Banca nel sostenere progetti minerari è altamente problematica”. Esempi notevoli includono la miniera di rame in Zambia e la miniera di nichel in Madagascar, entrambe le quali non sono riuscite a fornire benefici alle comunità locali e hanno creato significative tensioni sociali.
Rischi che si vedono anche nel nuovo approccio, ad esempio nella partnership firmata dalla stessa BEI con lo Stato del Ruanda: si tratta di due accordi che sono stati firmati nonostante il conflitto armato in corso nella Repubblica Democratica del Congo legato alle risorse minerarie, in cui, secondo l’ONU, è coinvolto lo stesso Ruanda.
Già nel 2011 – si legge ancora nella lettera – il Parlamento europeo aveva invitato la BEI a migliorare la valutazione dell’impatto dei suoi progetti minerari sullo sviluppo e oltre 50 eurodeputati avevano messo in dubbio la capacità della BEI di gestire tali investimenti, chiedendo una moratoria sui finanziamenti pubblici dell’UE per i progetti minerari finché non saranno in vigore norme e regolamenti adeguati. Fino a quest’anno, la Banca aveva sospeso il finanziamento diretto delle attività minerarie e aveva riconosciuto che i progetti minerari comportavano notevoli rischi ambientali e sociali, escludendoli dai suoi prestiti intermediati (pur consentendo delle eccezioni)”.
Il problema principale, secondo le ong firmatarie dell’appello, è che mentre in questi anni la sensibilità sugli standard ESG è migliorata notevolmente anche in merito all’estrazione e alla lavorazione delle materie prime critiche, “gli standard della BEI sono ancora ben lungi dall’essere adeguati”.
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Le richieste alla BEI sulle materie prime critiche
Come già aveva suggerito d’altra parte il cosiddetto rapporto Draghi, la Banca europea degli investimenti dovrebbe colmare urgentemente le lacune nei suoi standard prima di procedere con gli investimenti in progetti critici sulle materie prime critiche, relativi d’altra parte alle fasi più problematiche che riguardano appunto l’estrazione e la lavorazione delle stesse.
Le lacune delle BEI sono così sintetizzate nella lettera:
- in ritardo rispetto ad altre banche multilaterali di sviluppo (MDB) in termini di politiche sui diritti umani, senza una due diligence e una strategia chiare ed efficaci sui diritti umani;
- si affida ai promotori del progetto per fornire una valutazione dell’impatto ambientale e sociale e si basa sull’automonitoraggio e sull’autorendicontazione da parte dei clienti della BEI senza alcuna verifica indipendente;
- ha pratiche di trasparenza e divulgazione deboli, criticate dal mediatore europeo;
- non dispone di un meccanismo di reclamo indipendente e funzionante in grado di affrontare e risolvere efficacemente i torti;
- non include una partecipazione pubblica significativa nei suoi processi di pianificazione, valutazione e monitoraggio e non monitora adeguatamente il coinvolgimento delle parti interessate nei progetti che finanzia (incluso il consenso informato preventivo gratuito delle comunità indigene)
- non ha una valutazione adeguata e trasparente dell’addizionalità dello sviluppo dei suoi progetti.
Insomma: ce ne sono da buchi da colmare prima da procedere, eventualmente, col solito business as asual. Anche perché, come fanno notare nel finale della lettera le 22 ong, un istituto fondamentale come la Banca europea degli investimenti dovrebbe sviluppare “una strategia completa per le materie prime critiche incentrata su efficienza, riciclaggio, economia circolare e e sostenibilità. Dati i limiti ecologici e la scarsità di risorse disponibili sul pianeta, è fondamentale che gli investimenti delle più grandi banche pubbliche dell’UE non premino una manciata di grandi aziende e beni di lusso non sostenibili per i ricchi, e diano priorità a progetti con grandi benefici sociali, ambientali e di sviluppo che affrontino le esigenze delle persone”. Come diceva il poeta, “se non del tutto giusto quasi niente sbagliato”.
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