Ci sono app che hanno un servizio base gratuito e uno a pagamento. Chi le scarica ha due possibilità: tenere ostinatamente il punto e non pagare o pagare e usufruire di un servizio premium. Chi non paga si sorbisce dai 30 ai 60 secondi di pubblicità prima dello sblocco che consente di usufruire di fantastici servizi. Spesso la pubblicità in questione è quella di un colosso globale che fattura miliardi di euro annui.
Video urlati, tradotti grossolanamente con l’intelligenza artificiale che promettono prodotti a costi ridicoli. Si vedono persone disperate che hanno perso un’occasione perché non si sono fidate di una promozione. In ginocchio chiedono pietà perché hanno perso il treno, non hanno colto l’attimo. Poi si redimono e in un baleno entrano in un magico mondo di consegne rapide, estetiche accattivanti e prove di qualità ridicole. Questi video sono l’evoluzione social (e quindi più aggressiva) delle vecchie televendite che per anni hanno invaso le piccole e grandi tv private.
Leggi anche: Cosa c’è da sapere sulla vendita alla cieca di pacchi smarriti e sul blind sale di Roma
Ognuno ha l’app che si merita
Queste app pubblicizzano altre app, in un gioco di scatole cinesi ubriacante. Partono da un assunto semplice: tutti gli utenti sono un target commerciale. Chiunque, quindi, ha una “inclinazione” al consumo. Uno dei mercati che registra il maggior numero di transazioni online è quello dell’abbigliamento. Se si visitano siti di sneakers, cappelli, giacche ovviamente si è profilati come potenziali consumatori di questi prodotti. E spesso questi prodotti arrivano dal cosiddetto mondo del fast fashion, quel modello produttivo rapido e a basso costo di capi, che segue gli spunti creativi delle passerelle di alta moda. Ed è qui che entrano in gioco le app che adottano dinamiche di aggancio aggressive.
Il fast fashion online è il non luogo in cui decine di piattaforme seguono le tendenze del momento (e le creano) e “coccolano” il consumatore, ma che nascondono (spesso) un sistema opaco, se non torbido, fatto di sfruttamento e danni ambientali che sta riscrivendo velocemente le regole del mercato globale. Quindi la regola aurea è: prima di cliccare fai un lungo respiro e fermati. Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso.
Leggi anche: Ago e filo per l’economia circolare e per il buon umore
Facciamo un po’ di nomi: Temu e Shein
Parliamo di Temu e Shein, due piattaforme sviluppate in Cina che, grazie a un mix di marketing incessante, algoritmi predittivi e una filiera produttiva spinta al massimo, sono riuscite a conquistare milioni di acquirenti.
Ogni giorno vengono caricate nuove collezioni di abiti a prezzi stracciati lanciate su TikTok e Instagram. Si compra un vestito con un click, come se fosse un “like”.
Stipendi da fame e diritti negati
Dietro a questo successo c’è però un sistema che si basa sulla negazione sistematica dei diritti sul lavoro, turni massacranti, salari bassi, condizioni insalubri. Molte delle multinazionali del fast fashion fanno rifornimento in Cina, Bangladesh, Vietnam e Cambogia dove i controlli sono inesistenti e dove si lavora nella catena produttiva anche 14 ore al giorno, senza dispositivi di sicurezza e con scarso o nullo accesso a tutele di tipo sanitario.
Parliamo in alcuni casi di lavoro forzato, in particolare nella regione dello Xinjiang, in cui la minoranza uigura è stata oggetto di gravi violazioni dei diritti umani. Eppure, nonostante le numerose denunce, queste piattaforme continuano a crescere. E continuano a crescere perché non solo in Cina e nel sud Est Asiatico, ma soprattutto in Europa, negli Stati Uniti e in Australia milioni di persone ne fanno uso.
Ingiustizia sociale e impatto ambientale devastante
Non si parla solo di diritti negati, ma anche di inquinamento. Il fast fashion è uno dei settori più impattanti al mondo:
- circa il 10% delle emissioni globali di gas serra deriva dall’industria della moda;
- ogni anno si consumano 93 miliardi di metri cubi d’acqua per la produzione tessile;
- ogni anno vengono prodotti 40 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, la maggior parte dei quali finisce in discarica o viene incenerita.
Un impatto più nascosto rispetto a quelli più macroscopici elencati è quello del cosiddetto reso gratuito che è ormai pratica standard di molti marchi online. I prodotti restituiti spesso non vengono rimessi in vendita, ma distrutti o spediti in Ghana o in Cile, che stanno diventando vere e proprie discariche di abiti usati.
Il campo delle intenzioni
In un recente studio dell’Istituto di Management della Scuola Superiore Sant’Anna si dichiara che oltre il 60% degli europei è disposto a pagare di più per prodotti sostenibili. E allora perché l’ultra fast fashion continua a crescere?
La risposta sta nel cosiddetto intention-action gap: la differenza tra ciò che diciamo di voler fare e quello che in realtà facciamo. Le persone di solito acquistano in primis per il prezzo, poi per l’estetica e per la comodità. Ergo: essere equi e buoni costa e quindi le buone intenzioni spesso lasciano il campo alle tentazioni di spendere poco, avere merce in 24 ore e con reso gratuito.

Inoltre c’è il gaming dell’acquisto online che getta il potenziale acquirente in un frullatore di impulsi massimizzati: gli algoritmi di Temu e Shein lanciano in tempo reale pop up sfavillanti, “35 minuti e l’offerta decade”; “occasione imperdibile”; “metà prezzo solo per oggi”. Risultato? Un aumento esponenziale dei consumi: oltre il 30% dei consumatori acquista tra 3 e 5 capi al mese, con il 25% che supera questa soglia.
Leggi anche: L’indagine europea sul commercio dell’usato online
Green fashion: alternativa possibile o roba da ricchi?
Di fronte a questi numeri la moda sostenibile appare come un club per pochi eletti. Meno del 25% dei consumatori dichiara di acquistare prodotti a basso impatto, mentre più del 40% sceglie in base al prezzo.
C’è un altro fattore: la percezione di una scarsa informazione sui marchi realmente etici e quindi, paradossalmente, una sfiducia diffusa: “perché devo pagare di più per un prodotto che si dice equo quando non ho la certezza che lo sia?”, insomma una sorta di complottismo autoindulgente che osteggia questo tipo di mercato.
Eppure…
Eppure esistono alternative concrete e sostenibili al modello dominante dell’industria della moda. Si moltiplicano le proposte di abbigliamento realizzato con materiali organici o riciclati, che garantiscono una minore impronta ambientale, insieme a pratiche produttive trasparenti, localizzate e orientate alla qualità e alla durata dei capi.
Allo stesso tempo, stanno guadagnando terreno – soprattutto tra le nuove generazioni – il mercato del second hand e le piattaforme di noleggio abiti, che promuovono un consumo più responsabile e circolare.
Leggi anche: App e siti di rivendita dell’usato, tutte le novità di un settore in crescita
No greenwashing e potere trasformativo delle scelte
Altro tema centrale è quello della retorica delle imprese sulla sostenibilità come politica di marketing. Molte imprese hanno iniziato a utilizzare la sostenibilità come leva comunicativa per migliorare la propria immagine, attrarre consumatori sensibili a questi temi e posizionarsi come attori “responsabili”.
Tra le pratiche più usate ovviamente c’è quella del greenwashing (dichiarazioni eco-friendly ingannevoli, pubblicità che enfatizzano pratiche green marginali, ecc.). Pratiche che possono essere neutralizzate solo attraverso interventi pubblici coraggiosi (legislazioni nazionali e internazionali), filiere produttive trasparenti e condizioni lavorative dignitose.
Ultimo tassello, ma non meno importante, è quello del ruolo chiave dei consumatori: è necessario il riconoscimento del proprio valore come soggetti attivi del mercato e del potere trasformativo delle scelte di acquisto. Richiede maggiore fatica e investimento, è vero, ma è l’unico modo per riscoprire il valore di un consumo consapevole e informato in un mercato globalizzato e iper inquinante.
Chi guadagna davvero col fast fashion?
Temu, Shein e altri colossi del fast fashion fatturano miliardi. Dietro il miraggio di prezzi stracciati si nasconde un sistema predatorio che scarica i costi reali su comunità vulnerabili e sull’ecosistema globale.
Il costo della convenienza di oggi è quello del conto salato pagato in inquinamento e negazione di diritti sul lavoro.
Non c’è niente di glamour in tutto questo.
Leggi anche: Il greenwashing delle piattaforme di rivendita fast fashion
© Riproduzione riservata