Stiamo sbagliando nel calcolare i green jobs presenti nelle economie nazionali, e questo errore rischia di portare gli Stati a prendere decisioni fuorvianti nelle politiche occupazionali durante la transizione ecologica. Se a dirlo è il Joint Research Center, il centro studi della Commissione europea, il tutto assume una dimensione ancora più preoccupante, perché significa che le istituzioni europee finora hanno esaminato un mercato del lavoro che non corrisponde alla realtà.
Nella ricerca “A critique of the occupational approach to measure the employment implications of the green transition” gli studiosi del JRC hanno messo in discussione l’approccio statistico utilizzato finora, giudicato inadeguato per misurare l’impatto della transizione ecologica sull’occupazione. Non solo, questo sistema di stima presenta gravissimi limiti perché include lavori non realmente legati alla sostenibilità ed esclude figure professionali che invece lo sono. Così emerge una realtà distorta in cui i paesi con una maggiore quota di green jobs non coincidono con quelli che hanno migliori performance ambientali.
Infatti, stando ai dati, nonostante le politiche e gli investimenti su ambiente e sostenibilità, negli ultimi anni non ci sarebbe stata nessuna creazione netta di green jobs. Una notizia che metterebbe in discussione le potenzialità occupazionali della transizione ecologica come è stata intesa finora, ma anche l’efficacia delle politiche pubbliche adottate per favorirla. Fornendo argomenti a chi è impegnato a contrastare la stessa transizione ecologica. Fortunatamente, però, non è questa la realtà, ma siamo davanti a una distorsione statistica. Che però è meglio correggere al più presto.
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Dove sta il problema: una metodologia di classificazione obsoleta
A essere oggetto della critica del JRC è il sistema attualmente utilizzato, O*NET Green Jobs, che presenterebbe vari limiti concettuali, metodologici ed empirici. Una delle mancanze più gravi, come anticipato, sono gli errori di classificazione, ovvero i falsi positivi e falsi negativi. Anche occupazioni che in O*NET non rientrano nella classificazione delle professioni “verdi”, come ad esempio i contabili o gli addetti alla manipolazione dei pesticidi, possono, infatti, avere un ruolo significativo nella transizione ecologica: le fabbriche di pannelli solari hanno bisogno di contabili per gestire i loro bilanci, e un tecnico specializzato nei pesticidi può essere assunto da un’azienda impegnata nella riduzione dell’impiego di pesticidi in agricoltura.
Un evidente controsenso, che esclude tantissimi lavoratori che invece contribuiscono alla transizione ecologica. La sostenibilità, infatti, è una caratteristica legata al settore di occupazione più che alla professione in sé. Non solo: un tecnico di robotica in un impianto petrolifero viene calcolato tra i green jobs perché il tecnico di robotica è considerata una professione in linea con la transizione ecologica e digitale. Se O*NET genera falsi positivi, le aziende potrebbero persino inflazionare certi titoli professionali all’interno dell’organizzazione per apparire più sostenibili, in una sorta di greenwashing occupazionale.
Alla base del problema, secondo i ricercatori del JRC, c’è il fatto che il sistema O*NET è stato sviluppato per gli Stati Uniti e non è direttamente applicabile all’Europa a causa delle numerose differenze nelle regolamentazioni ambientali, nel mercato occupazionale e nelle leggi sul lavoro, fino a una vera e propria distanza sulla visione generale delle strategie di decarbonizzazione. A questo si aggiunge che il sistema O*NET si basa su definizioni dei green jobs che risalgono al 2009 e non sono state più aggiornate, nonostante i rapidi cambiamenti del mercato del lavoro in questi settori, e perciò presenta una certa rigidità metodologica, errori di misurazione e arbitrarietà nelle definizioni.
La scomoda realtà sui green jobs nell’Unione Europea
Lo studio ha applicato il metodo occupazionale ai dati di 24 paesi europei tra il 2011 e il 2022, analizzando la presenza di green jobs con tre diverse metodologie. I risultati mostrano che, indipendentemente dal metodo utilizzato, la quota di lavoratori verdi è rimasta sorprendentemente stabile nel tempo, senza alcun aumento significativo nonostante gli investimenti nella transizione ecologica. La quota di green jobs a seconda dei metodi oscilla tra il 14% della Grecia al 28% dell’Estonia nell’approccio binario completo, tra il il 9% e il 15% nell’approccio binario selettivo, mentre applicando il Greenness Index solo tra il 3% e il 5% dei lavori svolti nell’Unione Europea è green.
Invece, sarebbe ragionevole aspettarsi un aumento significativo nel tempo visti gli investimenti ingenti fatti in questo ambito. “Com’è possibile che negli anni in cui si è assistito al decollo della green economy, la quota di green jobs sia rimasta sostanzialmente invariata? La transizione verde non implica la creazione di posti di lavoro verdi?”, si chiedono i ricercatori del JRC. La risposta è che O*NET non è un metodo affidabile di misurazione. E non si tratta dell’unica incongruenza.
Sarebbe ragionevole aspettarsi che le economie con una percentuale più elevata di green jobs mostrino una migliore performance ambientale, in quanto tali posti di lavoro sono tipicamente allineati con attività che riducono le emissioni di carbonio, migliorano l’efficienza energetica o promuovono l’uso sostenibile delle risorse. Invece, le nazioni con una maggiore quota di green jobs secondo il sistema O*NET non sono necessariamente quelle con le migliori performance ambientali. Per fare un esempio, Svezia e Belgio hanno modelli energetici molto diversi (la Svezia ha il 70% di energia rinnovabile, il Belgio solo il 15%): ma secondo il framework O*NET entrambi hanno una quota di occupazione verde simile.
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I rischi per le politiche pubbliche dell’Unione Europea
La conclusione del JRC è preoccupante: se l’Unione Europea utilizza questi dati per definire le politiche sul lavoro, non è in grado di identificare esattamente la quota di lavoratori green e potrebbe adottare misure sbagliate o insufficienti. Le carenze del sistema O*NET potrebbero incidere negativamente anche sulla formazione e riqualificazione dei lavoratori, con politiche occupazionali poco allineate alle reali esigenze del mercato.
Una situazione davvero delicata che richiede, secondo i ricercatori del JRC, di sviluppare nuovi strumenti di analisi, concentrandosi più sulle competenze richieste per la transizione ecologica, e capaci di fotografare davvero l’evoluzione del mercato del lavoro nella società attuale, affinché le istituzioni europee possano prendere decisioni informate. Sarà il prossimo obiettivo, su cui sta lavorando il centro studi della Commissione europea, che però già evidenzia le potenzialità di un nuovo sistema.
“Ad esempio – conclude il JRC – potrebbe essere utilizzato per mappare il set specifico di competenze richieste in una determinata professione essenziale per la transizione verde (come l’ingegnere solare), contribuendo a garantire che i lavoratori abbiano l’expertise necessaria per supportare il passaggio a un’economia a basse emissioni di carbonio. Ciò potrebbe anche facilitare la creazione di programmi mirati di istruzione e formazione, consentendo un migliore allineamento tra le esigenze del mercato del lavoro e la crescente domanda di competenze green”.
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