mercoledì, Dicembre 3, 2025

Dalla buccia di mela alla borsa di lusso: la moda circolare che riscrive le regole

Le pelli vegetali da scarti agricoli sono il futuro della moda sostenibile? Tra ricerche, dati e casi di studio, ecco cosa c'è da sapere

Letizia Palmisano
Letizia Palmisanohttps://www.letiziapalmisano.it/
Giornalista ambientale 2.0, spazia dal giornalismo alla consulenza nella comunicazione social. Vincitrice nel 2018 ai Macchianera Internet Awards del Premio Speciale ENEL per l'impegno nella divulgazione dei temi legati all’economia circolare. Co-ideatrice, con Pressplay e Triboo-GreenStyle del premio Top Green Influencer. Co-fondatrice della FIMA, è nel comitato del Green Drop Award, premio collaterale della Mostra del cinema di Venezia. Moderatrice e speaker in molteplici eventi, svolge, inoltre, attività di formazione sulle materie legate al web 2.0 e sulla comunicazione ambientale.

Un tempo considerati cascami senza valore, oggi sono la materia prima per una rivoluzione sostenibile che sta scuotendo l’industria della moda. Parliamo degli scarti dell’agricoltura e della trasformazione alimentare: bucce di mela, foglie d’ananas e vinacce d’uva. Materiali che, grazie a ricerca ed innovazione, possono perfino essere trasformati in pelli vegetali.

Questa transizione, però, è davvero la chiave per un guardaroba ad impatto zero? Nonostante, in molti casi, le informazioni siano frammentarie e contraddittorie, abbiamo provato ad analizzare i dati raccolti dai ricercatori, tentando di confrontare numeri e processi produttivi per capire dove si nasconde la vera sostenibilità. Alcune domande rimangono aperte (quindi si accettano volentieri commenti e integrazioni utili al dibattito sotto i post social relativi a questo articolo).

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L’impronta della pelle tradizionale e le controversie sui dati

Prima di esplorare le alternative, è fondamentale comprendere il punto di partenza. La produzione di pelle animale può essere un processo ad alta intensità di risorse, con un’impronta ecologica significativa. Il problema inizia molto prima della conceria. Quando si parla di impatto ambientale, infatti, il dibattito sulla pelle bovina è sempre stato acceso. Per anni, uno degli strumenti di riferimento per l’industria della moda, l’Higg Materials Sustainability Index (MSI), ha attribuito alla pelle un’impronta ecologica molto elevata, portando anche a paragoni spesso sfavorevoli con i materiali sintetici derivati dal petrolio. Questi dati, tuttavia, sono stati al centro di una lunga e accesa controversia. Già nel 2020, la filiera della pelle, rappresentata da associazioni come ICT (International Council of Tanners) e UNIC – Concerie Italiane), aveva contestato formalmente l’indice, denunciando l’uso di dati obsoleti, metodologie inappropriate e una scarsa trasparenza che penalizzava un materiale naturale e durevole.

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Questa battaglia, combattuta a colpi di dati, ha recentemente raggiunto un punto di svolta. In risposta alle critiche, l’industria della pelle ha promosso un nuovo ed imponente studio LCA (Life Cycle Assessment). La società di consulenza Spin 360 ha raccolto ed analizzato i dati di 92 prodotti in pelle bovina provenienti da 45 concerie in 18 Paesi, fornendo una base scientifica solida ed aggiornata. I risultati di questo report – divulgati nell’ottobre 2024 – sono molto interessanti. In base a quanto riportato nello studio, l’impatto ambientale complessivo della pelle bovina è stato ridotto tra il 55% e il 67%, mentre il suo punteggio relativo al potenziale di riscaldamento globale (Global Warming Potential) è crollato di circa il 60%, passando da 36,8 a 14,6 punti.

Passiamo ad un altro aspetto critico del processo produttivo: la fase di concia. Indipendentemente dai nuovi calcoli sull’impronta carbonica, rimane il fatto che la maggior parte delle pelli viene trattata con agenti chimici che ne garantiscono stabilità e resistenza nel tempo. La gestione di questo processo è cruciale: se i fanghi e le acque reflue delle concerie non vengono trattati secondo rigidi protocolli, esiste il rischio concreto di contaminazione del suolo e delle falde acquifere. La sostenibilità, quindi, non si misura solo con un singolo indice, ma con la gestione responsabile dell’intero ciclo produttivo, dalla materia prima al trattamento chimico, fino al fine vita del prodotto.

A chiusura di ciò è importante ricordare che, nel 2024, l’ONU, attraverso la sua agenzia per lo sviluppo industriale (UNIDO), ha scelto la SPIN360 – che, come abbiamo visto, ha condotto lo studio approfondito sull’LCA della pelle – per definire le linee guida globali per il calcolo della carbon footprint nel settore. L’obiettivo è armonizzare le metodologie LCA (Life Cycle Assessment) e superare la frammentazione dei dati. Il progetto – secondo le previsioni – svilupperà anche uno strumento pratico per permettere alle concerie di misurare la propria impronta di carbonio in modo standardizzato e scientifico.

Da scarto a risorsa: la nuova generazione di pelli vegetali

È in questo scenario che si inserisce l’innovazione circolare. L’idea non è semplicemente sostituire un materiale con un altro, ma di farlo valorizzando sottoprodotti che, altrimenti, diventerebbero un rifiuto da smaltire. Nascono così le bio-pelli, materiali che imitano l’estetica e la funzionalità della pelle partendo da matrici vegetali.

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Dalle foglie d’ananas: Piñatex®

Forse tra le più note tra le pelli vegetali, Piñatex® è un materiale non tessuto ottenuto dalle fibre delle foglie di ananas, un sottoprodotto della raccolta del frutto, che divenivano scarti da gestire. L’azienda Ananas Anam ha sviluppato un processo per estrarre le fibre, trasformarle in un feltro e rivestirlo con una resina a base biologica per garantirne resistenza e durabilità.

Dalle vinacce: Vegea

Un’eccellenza tutta italiana che trasforma gli scarti dell’industria vinicola (bucce, semi eraspi d’uva, la cosiddetta “vinaccia”) in un materiale tecnico spalmato su un supporto di tessuto riciclato. Ogni anno l’industria del vino produce milioni di tonnellate di vinaccia. Vegea intercetta questo flusso di scarti e crea un “wine leather” versatile e di alta qualità.

Dalle mele: Apple Skin

Similmente all’uva, anche l’industria dei succhi e delle confetture di mele genera enormi quantità di scarti. Bucce e torsoli vengono essiccati, polverizzati e miscelati con poliuretano per creare un materiale morbido e resistente, utilizzato per calzature, borse e accessori. Tale approccio di simbiosi industriale, dove lo scarto di un’azienda diventa la risorsa per un’altra, è un esempio perfetto di economia circolare applicata.

Dai funghi: il Mycelium Leather

Questa è forse la frontiera più avveniristica. Il micelio, l’apparato radicale dei funghi, può essere coltivato in pochi giorni su substrati di scarti agricoli (come segatura o paglia) in ambienti controllati. Una volta raggiunta la densità desiderata, questa “pelle di fungo” viene trattata e rifinita.

Alcuni studi (Proposal of an environmental performance index to assess leather-manufacturing companies edito su Green Technologies and Sustainability nel 2024 e Leather-like material biofabrication using fungi su Nature Sustainability del 2020) hanno analizzato le pelli a base di micelio, evidenziando come il loro processo produttivo possa essere non solo a bassissimo impatto idrico e territoriale, ma anche completamente biodegradabile a fine vita, a patto di utilizzare agenti di finissaggio ecocompatibili.

Il confronto ambientale: non è tutto oro quel che luccica

Rispetto alla pelle animale, le pelli vegetali da scarti agricoli offrono vantaggi ambientali che emergono in diversi studi: drastica riduzione del consumo di acqua e suolo, nessuna implicazione con l’allevamento intensivo, la deforestazione e la valorizzazione di un rifiuto. Tuttavia, per un’analisi onesta, è necessario guardare l’intero ciclo di vita.

Il punto debole di molte pelli vegetali oggi in commercio risiede negli agenti leganti e nei rivestimenti superficiali. Per garantire performance di resistenza, impermeabilità e durabilità paragonabili alla pelle animale, la matrice vegetale (polvere di mela, fibre di ananas) viene spesso miscelata o rivestita con polimeri di origine fossile. Ciò comporta che il prodotto finale non è quasi mai 100% bio-based né completamente biodegradabile.

Questo le rende meno sostenibili? Non necessariamente. Un’analisi comparativa del ciclo di vita (LCA) pubblicata nella pubblicazione citata per le pelli da micelio – ovvero Proposal of an environmental performance index to assess leather-manufacturing companies – sottolinea che l’impatto complessivo di molte bio-pelli (anche laddove abbiano componenti polimeriche) rimane inferiore a quello della pelle bovina, soprattutto per gli indicatori legati al cambiamento climatico e all’eutrofizzazione

A dire il vero, il medesimo documento sottolinea un ulteriore aspetto utile alla nostra analisi: il calcolo dell’impatto della pelle animale ai fini del confronto dipende fortemente dal “metodo di allocazione”. Se la pelle viene considerata un semplice sottoprodotto dell’industria della carne, le viene attribuita una quota minima dell’impatto dell’allevamento. Se, invece, viene trattata come un co-prodotto di valore (come spesso accade nel mercato del lusso), il suo impatto ambientale risulta molto più elevato. La pelle di micelio risulta vincente in modo schiacciante soprattutto in questo secondo scenario che riflette il valore economico.

Il problema si sposta piuttosto sul fine vita: un materiale composito (ed anche alcuni degli esempi indicati hanno una componente polimerica) può essere più difficile da riciclare e, se non smaltito correttamente, la componente plastica può contribuire all’inquinamento da microplastiche. L’utilizzo della pelle animale come sottoprodotto della filiera alimentare, può ritenersi esso stesso un esempio di economia circolare.

Verso un guardaroba davvero circolare: il futuro è nella ricerca

La vera sfida, quindi, non è demonizzare una soluzione a favore di un’altra, ma spingere l’innovazione verso un obiettivo chiaro: creare materiali che siano resistenti, circolari e che possano garantire di essere compostabili o riciclabili a fine vita.

Sebbene diversi studi siano ancora in corso, possiamo sicuramente dire che le pelli vegetali nate dagli scarti non sono una soluzione magica, ma rispondono sicuramente al cambio di paradigma lineare dello “produci, usa e getta” nella direzione circolare del “da scarto a risorsa”.

La ricerca si sta muovendo rapidamente in questa direzione. Si studiano bioplastiche come il PLA (acido polilattico) derivato dall’amido di mais o resine naturali per sostituire il PU. La pelle di micelio, come già accennato, rappresenta una delle promesse più concrete per un materiale “grown, not made” che può decomporsi naturalmente.

Nel frattempo anche la filiera della pelle di origine animale può continuare a lavorare verso un percorso di circolarità, non solo recuperando sottoprodotti, ma anche ricorrendo a conce che riducano l’impatto ambientale e attuando processi di recupero e rigenerazione delle pelli di capi usati.

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