A luglio di quest’anno la Francia ha fatto parlare di sé per l’ambiziosa legge che vorrebbe mettere un freno ai colossi dell’ultra fast fashion, in particolare la cinese SHEIN. Nei mesi successivi il rapporto con l’azienda è risultato più ondivago: se da una parte il governo francese ha sancito una sospensione di tre mesi del marketplace cinese – a seguito della scoperta del commercio di bambole sessuali e giocattoli a forma di armi destinati ai minori – dall’altra, lo scorso novembre, SHEIN ha aperto il suo primo negozio fisico all’interno di un grande magazzino parigino, con annesse polemiche.
Adesso, da due fronti differenti, arrivano richiami al “modello francese” nel rapporto con SHEIN e affini. Lo si fa innanzitutto per via della pervasività raggiunta nell’e-commerce dall’azienda cinese. Come fa notare Greenpeace, “con 363 milioni di visite mensili, Shein.com è il sito di moda più visitato al mondo, con un traffico superiore a quello di Nike, Myntra e H&M messi insieme. In qualsiasi momento, la piattaforma offre oltre mezzo milione di modelli, venti volte la gamma di H&M. Il colosso cinese continua a crescere, con un fatturato passato da 23 miliardi di dollari nel 2022 a 38 miliardi nel 2024. Parallelamente, le sue emissioni sono quadruplicate negli ultimi tre anni, e il poliestere – una plastica derivante dai combustibili fossili – rappresenta l’82% delle fibre utilizzate da SHEIN”.
Dopo le ripetute multe da milioni di euro, anche da parte dell’Italia, l’azienda ha provato a correre ai ripari. Affidandosi tuttavia a scappatoie e sotterfugi che hanno lasciato inalterato il modello aziendale. Da qui il richiamo alla Francia, che potrebbe essere un modello da estendere nel resto d’Europa. Vediamo come e perché.
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La denuncia di Greenpeace: gli abiti di SHEIN contengono sostanze pericolose
Un nuovo rapporto diffuso da Greenpeace Germania rivela che gli abiti diffusi da SHEIN contengono ancora sostanze chimiche pericolose che violano i limiti imposti dall’Unione Europea. Tre anni dopo la sua ultima indagine, l’organizzazione ambientalista è tornata ad analizzare 56 capi venduti dal colosso cinese del fast fashion con l’inchiesta “Shame on you, Shein!”, scoprendo che circa un terzo degli indumenti testati (18 su 56) contiene sostanze pericolose oltre i limiti stabiliti dal Regolamento europeo per le sostanze chimiche (REACH), inclusi vestiti per bambini.

Greenpeace ha rilevato plastificanti ftalati e PFAS, i cosiddetti “inquinanti eterni” dalle proprietà idrorepellenti e antimacchia, noti per la loro correlazione con cancro, disturbi riproduttivi e della crescita, indebolimento del sistema immunitario. Sono esposti al rischio i lavoratori e l’ambiente nei Paesi di produzione, ma anche i consumatori finali attraverso il contatto con la pelle, il sudore o l’inalazione delle fibre degli indumenti che, una volta lavati o gettati via, possono inoltre contaminare il suolo e i fiumi ed entrare nella catena alimentare. Già nel 2022 Greenpeace aveva trovato sostanze chimiche pericolose oltre i limiti legali stabiliti dall’UE nei prodotti SHEIN: l’azienda, dopo l’indagine, aveva ritirato gli articoli, impegnandosi a migliorare la gestione delle sostanze chimiche. Ma le nuove analisi dimostrano che il problema permane.
“SHEIN rappresenta un sistema guasto di sovrapproduzione, avidità e inquinamento. Il gigante del fast fashion inonda il pianeta di abiti di bassa qualità che, nonostante le promesse, continuano a risultare contaminati da sostanze chimiche pericolose” ha dichiarato Moritz Jäger-Roschko, esperto di Greenpeace sull’economia circolare. “L’azienda sembra disposta ad accettare danni alle persone e all’ambiente: i prodotti segnalati nei test precedenti riappaiono in forma quasi identica, con le stesse sostanze pericolose. Questi risultati dimostrano chiaramente che l’autoregolamentazione volontaria è inutile: per responsabilizzare davvero i produttori, abbiamo bisogno di leggi anti-fast fashion vincolanti”.
Da questi risultati, dunque, l’ong ambientalista segnala la necessità di “una legge ispirata alla normativa entrata in vigore in Francia – che ha recentemente introdotto una tassa sul fast fashion, promosso l’economia tessile circolare e vietato la pubblicità della moda ultraveloce (compresa quella sui social)”, che “potrebbe frenare questa sovrapproduzione e mitigare gli impatti dannosi dell’industria”. Greenpeace chiede inoltre di applicare la legislazione europea sulle sostanze chimiche a tutti i prodotti venduti nell’UE, compresi quelli online, di rendere le piattaforme legalmente responsabili di eventuali violazioni e di consentire alle autorità la loro sospensione in caso di ripetute inosservanze: soltanto una regolamentazione vincolante può proteggere la salute dei consumatori e gli ecosistemi di tutto il mondo.
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Anche il Parlamento UE contro SHEIN
Lo scorso mercoledì anche il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che affronta la questione urgente dei prodotti illegali e non sicuri venduti ai consumatori dell’UE attraverso piattaforme di e-commerce, in particolare mercati extra-UE come SHEIN, Temu, AliExpress e Wish. Anche in questo caso, a ispirare l’azione delle parlamentari e parlamentari europei è stato lo scandalo francese che, nella nota stampa diffusa dal Parlamento UE, “mette in evidenza i fallimenti sistemici nella supervisione della piattaforma e meccanismi preventivi insufficienti”.

Nella risoluzione adottata le deputate e i deputati deplorano “il lento progresso delle indagini della Commissione sulle piattaforme online non comunitarie, che durano mesi o addirittura anni”, e “insistono sul fatto che le operazioni dei mercati online dovrebbero essere temporaneamente sospese in casi di ripetute, gravi o sistemiche violazioni del diritto dell’UE, come nel caso di SHEIN in Francia”.
A preoccupare, in particolare, sono alcuni fattori:
- l’enorme numero di pacchi diffusi da SHEIN, spesso neppure conformi alle normative europee;
- il lavoro sottopagato;
- l’imitazione illegale di prodotti europei e statunitensi;
- l’accumulo di rifiuti tessili dietro i prezzi artificialmente bassi.
La risoluzione del Parlamento europeo, quindi, “chiede un aumento significativo del sostegno finanziario e operativo alle autorità doganali e di vigilanza del mercato, anche attraverso un aumento delle assegnazioni nell’ambito del prossimo quadro finanziario pluriennale”. Il testo sottolinea infine “la necessità di sanzioni più dissuasive, anticipando la tempistica di attuazione del codice doganale dell’Unione rivista e per l’esame delle nuove riforme normative e degli obblighi per i mercati online di chiudere le scappatoie e garantire che tali piattaforme siano ritenute responsabili dei beni non conformi che entrano nel mercato dell’UE”.
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