“L’antitesi alla sottomissione”. Così il giornalista palestinese Yousef Alhelou ha spiegato sulla rivista The New Arab il significato della parola “sumud”, la resistenza palestinese all’occupazione israeliana attraverso azioni collettive non violente. Quella pratica che ha ispirato la Global sumud flotilla, in rotta verso la Striscia di Gaza in queste ore.
Attorno alla caparbietà della flotta solidale con la Palestina si è creato un movimento globale che è stanco di assistere impotente a un genocidio perpetrato in diretta streaming e con l’impunità da parte di quasi tutte le istituzioni governative occidentali.
Oggi, in Italia, questo dissenso collettivo si allarga: diverse organizzazioni sindacali e solidali con la Palestina hanno proclamato uno sciopero che coinvolgerà le lavoratrici e i lavoratori di molte categorie, fino alle 23 di stasera. Hanno cominciato stamattina presto le studentesse e gli studenti dell’università La Sapienza, con lo striscione “fermiamo la macchina bellica” come barriera fisica all’ingresso principale su piazzale Aldo Moro.
Anche noi giornaliste e giornalisti di EconomiaCircolare.com aderiamo.
Non potremmo fare altrimenti: mentre le nostre colleghe e i nostri colleghi palestinesi a Gaza fanno testamento e si chiedono quanto tempo rimanga loro prima di essere deliberatamente presi di mira e uccisi dall’esercito israeliano (oltre 220 giornalisti uccisi secondo Reporter Senza Frontiere), noi ci chiediamo in che cosa si sia trasformata la vita, in cosa ci siamo trasformati noi in questi ultimi 23 mesi.
E ce lo chiediamo unendoci alla “flotta di terra” che “continua a crescere ed è ormai inarrestabile”, come ha dichiarato Benedetta Scuderi (Avs) prima di unirsi alla flotta di mare.
Mai avremmo pensato di vedere il mondo in queste condizioni, e ogni giorno la nostra redazione si interroga sui perché e su come fare per viverci dentro. È questo l’approccio dell’ecologia politica: analizzare il rapporto tra sistemi produttivi e crisi climatica, cioè il rapporto strutturale che il capitalismo intrattiene con la crisi ecologica. Il capitalismo non è una profezia che si autoavvera, non è una necessità naturale, è sempre alimentato da processi politici e sociali. Le sue fondamenta non sono strettamente economiche, poggiano anche sul consenso.
Quello che succede a Gaza è la più terribile deriva del capitalismo, la dimostrazione che un intero popolo e un’intera terra sono sacrificabili sull’altare del profitto. Lo dimostrano i progetti di espulsione forzata della popolazione, costruzione di grandi opere edilizie ed estrazione delle risorse da parte degli Stati Uniti e di Israele nei Territori palestinesi occupati, che risalgono a ben prima del 7 ottobre 2023. E forse è proprio questo l’effetto che la questione palestinese sta avendo sulle nostre vite: mette in crisi quel consenso (e quell’indifferenza) su cui il capitalismo fa leva, mostrandoci che cosa non va nel modo in cui abbiamo costruito il mondo e come potremmo cambiarlo. La domanda per il momento rimane aperta, ma abbiamo finalmente iniziato a porcela collettivamente.
Se il dovere del giornalismo è il racconto, “essere testimoni della Storia” malgrado i nostri limiti e le nostre “umane imperfezioni”, come ha scritto Robert Fisk, allora oggi tutti gli occhi, le orecchie e le mani saranno tese verso Gaza. Le parole le lasciamo a chi si occupa ogni giorno e con competenza di scrivere di Palestina. Per questo, oggi e tutte le volte che ci sarà bisogno, anche noi scioperiamo.
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