Dall’1 novembre saranno, o dovrebbero essere (sull’uso del condizionale ci torniamo poi) attivi i dazi europei sulle auto elettriche cinesi, in aggiunta a quelli già in vigore da luglio del 10%, con tassazioni molto alte che vanno da un ulteriore 17% a un ulteriore 35% delle importazioni. Ad approvare la scelta, molto discussa da anni e soprattutto nella fase di passaggio tra la vecchia Commissione guidata fino a maggio da Ursula von der Leyen e la nuova Commissione (in fase di approvazione del Parlamento europeo) guidata anch’essa da Ursula von der Leyen, è stato il Comitato di difesa commerciale dell’Unione Europea.
Come ricorda l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis), è stata “determinante la scelta della Commissione di procedere nonostante un alto numero di astensioni: su 27 Paesi membri, 12 non hanno preso posizione, dieci, tra cui l’Italia, hanno votato a favore e cinque, tra cui la Germania, hanno votato contro”.
Una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, di come sul cruciale settore dell’automotive i 27 Stati membri dell’UE continuano ad andare in ordine sparso, preferendo supportare le proprie industrie nazionali in chiave protezionistica piuttosto che favorirne il rilancio in termini competitivi ed ecologici. Sono tante le domande da porsi: quanto sposta questa misura nel mercato europeo dell’auto? Che effetto avrà sul settore dell’auto elettrica e sulle tasche di chi vorrebbe acquistarla? Come collocare questa decisione con l’altra cruciale partita dello stop alla produzione di auto a combustione termica (benzina, diesel, metano, gpl) a partire dal 2035? Si tratta di domande complesse alle quali è difficile, se non impossibile, offrire risposte univoche.
Di certo, come già affermato nella sua relazione sulla competitività europea dall’ex presidente della Bce ed ex premier Mario Draghi, c’è la necessità per il Vecchio Continente di formulare una strategia per l’automotive che metta insieme decarbonizzazione e competitività.
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Sulle auto elettriche manca una voce comune dell’Unione europea
Le misure che in teoria entreranno in vigore a breve hanno (avrebbero) una durata di 5 anni e non interesseranno soltanto le aziende cinesi più note, come Byd e Saic, ma anche quelle di nazioni terze che hanno una base manifatturiera in Cina, come la statunitense Tesla. Se continuiamo a utilizzare il condizionale è perché, nel momento in cui scriviamo, le trattative tra UE e Cina per evitare la scelta dei dazi sono ancora in corso. Come scrive Quattroruote, “le trattative continuano con l’obiettivo di evitare una guerra commerciale, ma i tempi sono sempre più stretti”. L’organo esecutivo dell’UE, infatti, neppure formalmente insediato tra l’altro, dovrà pubblicare la decisione definitiva sulla questione e il relativo regolamento sulla Gazzetta Ufficiale.
Ma la guida affidata sia nel precedente mandato che in questo a Ursula von der Leyen, con l’ulteriore spaccatura emersa lo scorso 4 ottobre nel Comitato di difesa commerciale del Consiglio Ue, ha di fatto tolto dalla partita gli Stati membri affidando la scelta alla Commissione. Con quest’ultima che, d’altra parte, nei giorni scorsi, ha diffuso un comunicato per confermare il proposito di introdurre le nuove tariffe doganali. Un comunicato subdolo, dove si legge che questa scelta “ha ottenuto il sostegno necessario dagli Stati membri dell’UE”, quando invece abbiamo visto come sia emersa una profonda spaccatura tra gli stessi.
Da una parte, infatti, ci sono la Germania – sede di alcune delle più grandi case automobilistiche europee come Volvo, Volkswagen, Porsche, Mercedes e BMW – e la Spagna, seppure in un ruolo più defilato. Dall’altra ci sono Italia e Francia che, già insieme nel marchio Stellantis, hanno scelto di continuare a sostenere un approccio “protezionistico” che in realtà deriva dal fatto che i due Stati sono meno esposti commercialmente nei confronti della Cina rispetto alla Germania e dunque hanno minor timori di ritorsioni commerciali da parte del gigante asiatico. In un interessante articolo pubblicato su Politico si ricorda come i due Stati si contendono da anni la guida dell’intera UE e che sono in disaccordo su molti altri aspetti, a partire dal sostegno al nucleare (sì per la Francia, no per la Germania). Divisioni su singoli settori che però, a ben vedere, derivano da un’analoga strategia, che guarda più agli interessi nazionali che a quelli comuni europei.
Perché la sensazione netta che emerge dai dazi UE alle auto elettriche cinesi, al di là di come la si possa pensare a tal proposito, è che manca una visione unitaria a livello europeo. L’UE è favorevole o no all’auto elettrica? È favorevole o no alla possibilità che siano gli Stati a dover indirizzare la transizione energetica – e se sì, perché si scaglia contro gli aiuti di Stato cinesi e nulla dice sugli aiuti di Stato che la Germania ha sempre concesso alle sue case automobilistiche così come l’Italia alla Fiat e poi a Stellantis e la Francia a Peugeot e Renault e ora Stellantis? Perché, dopo decenni di retorica sul costo eccessivo delle auto elettriche, ora che ci sono aziende che offrono prezzi minori rispetto alle auto termiche (ad agosto l’azienda cinese Xpeng ha presentato la Mona M03 che costa, con tutti gli optional, meno di 20mila euro, dazi esclusi ovviamente), l’UE sceglie immediatamente di ostacolare la convenienza economica, il più importante fattore che incentiva gli acquisti nell’automotive?
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Dazi alle auto cinesi? Ne risentirà il PIL degli Stati UE
Come già accennato, a ritardare più possibile la scelta dell’UE, e a renderla così complessa, è la consapevolezza che l’economia dei 27 Stati membri dipende in maniera netta dagli scambi con la Cina, egemone ad esempio nei settori dell’energia rinnovabile e nell’intera filiera che va dalle materie prime critiche a prodotti finiti come batterie e pannelli fotovoltaici. Ad accentuare tali preoccupazioni c’è poi un recente report del Fondo Monetario internazionale, presentato il 24 ottobre dal direttore del dipartimento europeo, Alfred Kammer.
Gli economisti del FMI prevedono un aumento della quota di auto elettriche cinesi di 15 punti percentuali nei prossimi cinque anni. È uno scenario, scrive il Fondo, che ricorda quello che accadde negli Stati Uniti negli anni ‘70 con i produttori giapponesi anche se, nel caso dell’Europa, il percorso è più rapido. Il rapporto dell’FMI esplora due scenari distinti: il primo prevede solo l’incremento della quota di mercato delle auto elettriche cinesi, mentre il secondo considera l’introduzione di dazi al 25% e al 100%. In caso di dazi al 25%, le perdite per Germania, Francia e Italia salirebbero allo 0,18% del PIL, mentre con tariffe al 100%, il colpo sarebbe ben più pesante, con perdite che raggiungerebbero lo 0,46%. Questi dati evidenziano come l’imposizione di tariffe possa non soltanto ostacolare la competitività delle auto cinesi, ma anche compromettere la crescita economica dei Paesi europei.
Nel momento in cui scriviamo, come scrive la newsletter Il Mattinale europeo, siamo al rush finale delle discussioni tra Commissione europea e Cina per cercare di trovare un compromesso sui dazi. “Venerdì – si legge nella newletter – il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, ha avuto una riunione in videoconferenza con il ministro del commercio cinese, Wang Wentao, per fare il punto sui progressi compiuti in otto round tecnici. Secondo un comunicato della Commissione, i due hanno ribadito il loro impegno politico a trovare una soluzione reciprocamente accettabile, che dovrebbe essere efficace nell’affrontare la parità di condizioni nel mercato dell’Ue ed essere compatibile con l’OMC. Ma rimangono ancora delle divergenze che la Commissione ha definito significative. Questa settimana si terranno altri negoziati tecnici. Contrariamente agli auspici di Pechino, la Commissione ha ribadito che è possibile per i singoli produttori cinesi offrire impegni sui prezzi a livello individuali. La scadenza per trovare un accordo è il 31 ottobre, ma un compromesso è possibile anche dopo l’entrata in vigore dei dazi doganali”. In attesa, ovviamente, che la nuova Commissione
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