mercoledì, Dicembre 3, 2025

Ecolabel a geografia variabile: la sostenibilità che non si trova su tutti gli scaffali

Il marchio più noto dell’Unione Europea, che indica prodotti e servizi caratterizzati da un ridotto impatto ambientale, è l’ecolabel. Ma le ricerche indicano che è ancora poco diffuso. Un peccato perché, al contrario di quel che si crede, i marchi green si rivelano meno costosi. A conferma che serve un cambiamento reale

Alessandro Bernardini
Alessandro Bernardini
Nella redazione del progetto di podcasting Sveja, ha scritto per la rivista di letteratura Arti & Mestieri Laspro e per la cooperativa editoriale Carta. Per il quotidiano online Giornalettismo ha tenuto una rubrica settimanale sul conflitto Palestina-Israele. Ha collaborato con Lettera Internazionale e lavorato in Medio Oriente come videomaker. Si occupa di comunicazione, educazione e formazione in ambito formale e non formale per il Terzo Settore. Fa parte dell’area Formazione di A Sud Ecologia e Cooperazione. Autore dei romanzi “La vodka è finita” (Ensemble) e ’“Nonostante febbraio. Morire di lavoro” (Red Star Press)

In un supermercato di Copenaghen è piuttosto probabile trovare prodotti con il marchio EU Ecolabel potrebbe accadere che siano anche più economici di quelli non certificati. Ma che cos’è il marchio EU Ecolabel? Si tratta del riconoscimento dell’Unione Europea che indica prodotti e servizi caratterizzati da un ridotto impatto ambientale durante l’intero ciclo di vita. In un punto vendita di Cipro e di Atene è invece molto più difficile che ciò accada. Lo evidenzia il rapportoSearching for Ecolabels: a mystery‑shopping exercise in supermarkets across Europe.

Lo studio ha coinvolto 13 Stati europei, tra cui Belgio, Cipro, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. Nel documento si sfata il tabù del marchio green più costoso: i prodotti sostenibili non sono necessariamente più cari, anzi, in molti Paesi molti prodotti certificati risultano tra il ‑9 % e il ‑27 % più economici di quelli convenzionali. 

È la disponibilità che è estremamente variabile: in Danimarca fino all’80 % dei prodotti analizzati porta un’etichetta ecolabel, in Grecia e Cipro la quota scende fino al 2 %. Questo dato mette a nudo, quindi, un paradosso: non è tanto il costo a rappresentare la barriera ma la disponibilità nell’offerta, l’effettiva presenza di quel dato marchio all’interno di un mercato nazionale. Chi consuma può voler scegliere “verde”, ma la scelta non è uguale per chiunque. Il mercato, anche quello green, legittima la struttura diseguale della geopolitica: l’accessibilità variabile ai prodotti certificati, non solo per prezzo, ma soprattutto per la presenza sugli scaffali.

Se la scelta “verde” è quindi ancora privilegio di chi vive nei mercati del nord globale, dove l’offerta è elevata, così come l’operatività della distribuzione, la collaborazione tra marchi, retailer e organismi di controllo, la transizione può dirsi ancora a uno stadio primordiale e antidemocratico

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Troppe poche etichette ecolabel

Sul piano della diffusione invece l’etichettatura ambientale presenta limiti strutturali. Come riporta la review “Strengths and weaknesses of food eco‑labelling” su Frontiers – uno dei più grandi e influenti editori scientifici al mondo – non basta il marchio ecolabel per orientare le scelte dei consumatori.

I criteri, l’affidabilità, la sovrapposizione di vari simboli e l’eterogeneità delle condizioni nazionali rendono l’impatto e la diffusione di questi prodotti più debole di quanto ci si aspetti. Inoltre uno studio di CE Delft segnala che gli schemi di eco‑labelling possono avere impatti discriminatori poiché l’accesso alla certificazione non è equo per tutti i produttori o mercati.  

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Greenwashing come segmento di business

Il marchio “green” è diventato una leva di marketing strategica per molte imprese. Si tratta di un vero e proprio asset industriale: budget, loghi, claim, strategie per conquistare un segmento di mercato sempre più in crescita. Secondo la Commissione europea tre prodotti su quattro millantano certificazioni “verdi” ma più della metà non sono conformi, non documentate, inaccurate o addirittura ingannevoli.

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Politica, regolazione e lobbying

La regolazione europea è in ritardo rispetto alle dinamiche di mercato: la Green Claims Directive è in una fase di stallo, l’esito del negoziato è incerto. Questo vuoto normativo alimenta il greenwashing, ma al tempo stesso rivela una contraddizione: le imprese dichiarano spesso “impegni ambientali elevati”, ma la struttura del mercato non sempre richiede o verifica tali impegni. La politica pubblica è chiamata non solo a definire standard, ma a rendere effettiva una corretta comunicazione ambientale e a garantire l’accessibilità reale delle opzioni sostenibili per tutti i consumatori e le consumatrici.

L’European Environmental Bureau e il BEUC (The European Consumer Organisation)  hanno delineato una serie di raccomandazioni operative in vista del Green Deal 2025 ‑ 2029 per l’EU Ecolabel.  Tra le proposte: facilitare la certificazione per produttori piccoli e medi, aumentare la visibilità dei prodotti in punti vendita, incentivare gli appalti pubblici (green public procurement) che privilegino prodotti certificati, e semplificare la comunicazione verso il consumatore.

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La questione è quindi politica: è necessario un intervento non solo sulle normative ma sul sistema del mercato reale, sulla promozione, sulla comunicazione, sugli incentivi, sulla trasparenza per trasformare il marchio green da nicchia a standard.

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