giovedì, Novembre 6, 2025

Che cos’è la società dei consumi? Un glossario per comprenderla

Un glossario di concetti filosofici per gettare luce su alcune criticità del contemporaneo: dalle definizioni di “società dei consumi”, “reincarnazione industriale”, passando per “obsolescenza”, “oscenità della merce” e altre, l’obiettivo è quello di trasmettere la rilevanza pratica della filosofia nella vita quotidiana e incoraggiare la riflessione critica su ciò che spesso, rispetto ai consumi, rimane inosservato o incompreso.

Vittoria Moccagatta
Vittoria Moccagatta
Classe 1998. Laureata in filosofia all'Università degli Studi di Torino, è dottoranda in Design for Social Change presso l'ISIA Roma Design. È stata ricercatrice per il progetto "Torino città solidale e sostenibile"

Nel labirinto intricato della società contemporanea, in cui le dinamiche della tecnologia, dell’economia e della cultura si intrecciano fittamente, emerge la necessità di acquisire una bussola concettuale per orientarsi. Con questo scopo, EconomiaCircolare.com propone un glossario di concetti filosofici che gettano luce su alcune criticità del contemporaneo: dalle definizioni di “società dei consumi”, “reincarnazione industriale”, passando per “obsolescenza”, “oscenità della merce” e altre, l’obiettivo è quello di trasmettere la rilevanza pratica della filosofia nella vita quotidiana e incoraggiare la riflessione critica su ciò che spesso, rispetto ai consumi, rimane inosservato o incompreso. 

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Società dei consumi

L’atto di accumulare oggetti, servizi e marchi è l’elemento distintivo di una società che, come tante altre, ha prodotto oltre il necessario, ma che sola ha trasformato il consumo da mezzo per soddisfare alcuni bisogni a strumento di costruzione identitaria, indicatore di status e vettore di significati culturali. In questo nuovo tipo di società, infatti, l’accumulo è una vera e propria messa in scena del superfluo perché, come scrive il sociologo francese Jean Baudrillard ne La società dei consumi (editore Il Mulino), “nell’accumulo vi è qualcosa di più della semplice somma dei prodotti: e cioè l’evidenza del surplus, la negazione magica e definitiva della penuria, la presunzione lussuosa del Paese di Bengodi. I nostri mercati, le arterie commerciali, i nostri [centri commerciali], mimano così una natura ritrovata, prodigiosamente feconda, sono le nostre vallate di Canaan dove, invece di latte e miele, scorrono le onde del neon sul ketchup e sulla plastica; ma che importa!”. Che importa, dunque? Una domanda provocatoria che è necessario rivolgerci per ridefinire il nostro rapporto con il consumo a partire dalla messa in discussione di un modello iperconsumistico che ha fatto della dissipazione delle risorse il principio regolatore della vita economico-sociale. Il “che importa?” di Baudrillard è un monito: possiamo davvero continuare a vivere come se il ciclo del consumo non avesse costi, come se il neon potesse illuminare per sempre il nostro Bengodi quotidiano?

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Cultura dello scarto

Visto con le lenti della cultura dello scarto, il mondo è una sorta di istituzione magica capace di elargire, come se fosse una cornucopia, beni di consumo uno dopo l’altro, incessantemente, nel contesto di un’eterna, impossibile autorigenerazione delle fonti di risorse. Tale cultura permette quindi a chiunque di interpretare la propria realtà quotidiana, insieme a tutta la natura, come se essa fosse sempre accattivante, inesauribile e a disposizione, e di vivere di conseguenza: vivere cioè come se ci si ritrovasse – e si avesse il diritto di rimanere per sempre – all’interno del Paese di Bengodi, la dimensione della festa perenne e di ogni facile godimento, il luogo allegorico in cui viene dispensata un’abbondanza gratuita da sfruttare, divorare, scartare o sprecare a proprio piacimento. L’apparenza mitica è dovuta al fatto che la realtà materiale delle merci – che comprende l’estrazione delle risorse, le condizioni di lavoro lungo la filiera, l’impatto ambientale e non solo – viene occultata insieme a qualsiasi limite oltre il quale il consumo diventa insostenibile, rendendo i beni magicamente elargiti al di fuori di qualsiasi processo produttivo.
Questa abbondanza, a vederla da vicino, si rivela finta cioè, paradossalmente, molto più simile al suo contrario, alla miseria: “più si produce – spiega Baudrillard – e più si sottolinea, nel senso stesso della profusione, l’irrimediabile allontanamento dal termine finale, cioè dall’abbondanza. Poiché quel che è soddisfatto in una società della crescita, e sempre più man mano che cresce la produzione, sono i bisogni stessi dell’ordine di produzione, e non i bisogni dell’uomo”.

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Obsolescenza

La cultura dello scarto si traduce in una precisa, doppia, azione: usare e gettare. Questo vezzo estremamente costoso in termini di risorse sprecate è un elemento fondamentale della società dei consumi perché utile a spostare sempre più in su, oltre i limiti planetari, l’asticella della crescita. In questo senso, scrive l’economista e filosofo francese Serge Latouche in Usa e getta, “la crescita economica, per sostenersi, non può limitarsi a produrre ciò che serve: deve produrre anche lo spreco”, uno spreco che quindi è integrato nel sistema economico in quanto chiave di volta che permette al ciclo dei consumi di ricominciare da capo. È un meccanismo perfettamente calibrato per mantenere in moto il ciclo del consumo, garantendo un flusso costante di merci a scapito della loro durabilità, dello sfruttamento insostenibile delle risorse e dei bisogni dei consumatori. In una parola: obsolescenza. Si tratta dell’intenzionale limitazione della vita utile di un prodotto attraverso specifiche scelte progettuali che possono assumere diverse forme:

  • L’obsolescenza funzionale: quando un componente essenziale è progettato per deteriorarsi rapidamente o risultare irreparabile, costringendo il consumatore a sostituire l’intero prodotto. Spesso, la riparazione risulta volutamente antieconomica, poiché “costerebbe più cara del prodotto nuovo, fabbricato a prezzi stracciati nei lager del sud-est asiatico” scrive Latouche;
  • L’obsolescenza tecnologica: quando nuovi standard di compatibilità rendono rapidamente inutilizzabili le versioni precedenti di un dispositivo, spingendo il consumatore a rinnovare costantemente i propri beni, anche se ancora funzionanti;
  • L’obsolescenza digitale, spesso attuata tramite aggiornamenti che degradano le prestazioni dei dispositivi o ne impediscono l’utilizzo con applicazioni più recenti.

Esiste un’ulteriore forma di obsolescenza, molto più raffinata, che è quella psicologica: in questo caso l’obsolescenza non è determinata da limiti tecnici, bensì dalla costruzione di un senso di superamento culturale ed estetico. “Esiste per ciascuno una soglia psicologica a partire dalla quale preferiamo rinunciare al vecchio e comprare il nuovo”, chiarisce Latouche, e il lavoro del marketing consiste proprio nell’abbassare questa soglia il più possibile, favorendo una vera e propria neofilia. La percezione di status sociale associata a determinati prodotti l’uso strategico di materiali e design che evocano un senso di modernità effimera, e il rapido susseguirsi delle mode convergono per indurre un bisogno di sostituzione prematura anche in assenza di reali necessità funzionali: “così, montagne di prodotti, come computer, TV, frigoriferi, lavastoviglie, telefoni finiscono nelle pattumiere e nelle discariche, creando ogni tipo di inquinamento (molti contengono infatti metalli pesanti e tossici). Ma anche solo un cappotto che ancora riscalda bene può trovarsi nella stessa discarica: visto che difficilmente lo si può rendere predeterminatamente difettoso, lo si rende presto socialmente inusabile tramite la moda, che è proprio quel provvedimento di cui si serve l’industria per rendere i suoi prodotti bisognosi di essere sostituiti anche se questi non hanno carenze oggettive. Per questa ragione, l’obsolescenza psicologica è da considerarsi lo stadio supremo dell’obsolescenza programmata”.

Reincarnazione industriale

Nei due volumi de L’uomo è antiquato del filosofo e scrittore Günther Anders, editi da Bollati Boringhieri, la reincarnazione industriale definisce il fine vita delle merci. Risultando presto obsolete, esse vengono usate e presto gettate con lo scopo di ricominciare da capo il ciclo del consumo: proprio perché si tratta di un ciclo, ogni nuova versione di un prodotto rappresenta in realtà, secondo Anders, una sorta di “reincarnazione” del precedente, poiché porta con sé una novità soltanto chimerica e l’illusione di poter finalmente durare per sempre. Infatti, spesso queste “reincarnazioni” non rappresentano un vero salto qualitativo ma aggiornamenti minori, superficiali o addirittura inutili dell’esistente, che nonostante ciò convince chi consuma dell’indispensabilità, dal momento che si ammanta di un’aura di novità che sembra poter evitare il destino di qualsiasi forma di obsolescenza – salvo poi rientrarvi a sua volta poco dopo. Così, a servire da riferimento per l’eternità – spiega Anders – non sono “il cielo stellato, le idee o il genere umano […], ma il mondo delle pesche sciroppate e degli articoli di marca, immortali per reincarnazione”.

Oscenità della merce

Nel saggio Il sogno della merce, Jean Baudrillard sostiene che la pubblicità impatti significativamente la cultura sociale tramite l’intensificazione e l’eccesso della comunicazione. Quest’ultima, quando descrive le merci, tende infatti ad assumere una forma “oscena” di un’oscenità intesa come straordinaria visibilità: nella società contemporanea ciò che si presenta ai nostri oggi – spiega Baudrillard – “non è più l’oscenità di ciò che è nascosto, rimosso, oscuro, ma quella del visibile, del troppo visibile, del più visibile del visibile: è l’oscenità di ciò che non ha più segreto, di ciò che è interamente solubile nell’informazione e nella comunicazione” (L’altro visto da sé, Jean Baudrillard). Si pensi, nelle rispettive pubblicità, ai pancakes su quali viene versato l’olio motore affinché li renda umidi ma non flaccidi, alla carne degli hamburger lucidata come si farebbe con una scarpa per renderla ambrata in modo uniforme, ai cereali versati sullo shampoo al posto del latte e alle scaglie di formaggio guarnite con della colla liquida per filare perfettamente. Si tratta, cioè, dell’oscenità di tutte quelle merci che sembrano non possedere più imperfezioni e segreti perché estremamente chiare e distinte, nonché semplici e comprensibili tramite le poche parole di uno slogan. Proposte con questa comunicazione “oscena”, le merci risultano nettamente più accomodanti e rotonde di senso: per le strade e sugli edifici, sui muri, nei corridoi della metropolitana e sugli altri mezzi di trasporto, sui vestiti e in casa nello schermo della TV, la profusione pubblicitaria rende così la merce ubiqua in senso confortante, dal momento che dovunque ci si volti si può ritrovare nella sollecitudine che sempre l’accompagna il conforto della riduzione della complessità e della cancellazione di ogni traccia di provenienza (la realtà di produzione) e di conseguenza (l’impatto ambientale post-consumo).

Seduzione pubblicitaria

La pubblicità non trasmette soltanto informazioni utili su prodotti e servizi in vendita ma, attraverso immagini e parole tessute insieme, costruisce scenari possibili di stili di vita migliori, di aspirazioni e soddisfazioni realizzate tramite il consumo. Le vetrine luminose, gli schermi televisivi e le frequenze radiofoniche sono infatti popolate di momenti di gioia condivisa e di storie avvincenti che sembrano essere raggiungibili soltanto attraverso l’acquisto di ciò che viene proposto in modo “osceno”. In tal senso, è proprio nella giunzione di questi scenari desiderabili con le promesse derivanti dall’acquisto che la pubblicità conquista il suo apice di seduzione riuscendo ad “assorbire” completamente chi ne fruisce. Si pensi a quelle estemporanee ma frequenti cantate a mezza voce di catchy jingles – esattamente come li “canta” la pubblicità –, ma anche a quegli acquisti vestiari che esibiscono solamente il logo ingrandito della casa produttrice – precisamente come fa la modella nella réclame televisiva. Chi osserva è in questo senso “assorbito”, cioè diventa egli stesso la voce narrante e il corpo dello spot, in una commistione tra consumatore e pubblicità che sconfina nella partecipazione intima l’uno dell’esistenza dell’altra e a tal punto che “oggi non siamo più spettatori, ma attori della performance, e sempre più integrati nel suo svolgimento” (Il delitto perfetto, Jean Baudrillard).

Mondo a domicilio

Il servizio a domicilio di cui parla il filosofo tedesco Günther Anders è quello che trasporta il mondo, sotto forma di immagine, direttamente nelle case di chiunque. Basta premere un pulsante – un gesto che Anders paragona a un fiat lux divino – per accendere la televisione e ricevere un flusso ininterrotto di eventi trasformati in spettacolo. Così come il gas e l’acqua arrivano attraverso le infrastrutture nelle nostre abitazioni, anche le narrazioni uniformate e semplificate della realtà vengono fornite in serie, preconfezionate per essere immediatamente comprensibili e facilmente assimilabili. La televisione, in questa prospettiva, risulta un distributore automatico di ciò che Anders chiama “preparati per essere visti” e il telespettatore, senza bisogno di analisi o riflessione, non può che aprire gli occhi come bocche da nutrire con tali “preparati”, che svuotano la complessità e la riducono a merce visiva.

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Mistica della sollecitudine

Sottesa alle dinamiche dell’accumulo, è sempre presente quella che Jean Baudrillard chiama “mistica della sollecitudine”, secondo la quale chi consuma riceve in cambio dei suoi soldi molto più che un semplice prodotto. Se è vero che nella società dei consumi gli esseri umani non sono più attorniati, come invece è sempre avvenuto, da altri esseri umani, ma da una panoplia di merci, tuttavia “la società dei consumi non si designa solamente per la profusione di beni […] ma anche per il fatto, più importante, che quel che è dato da consumare non si dà mai come prodotto puro e semplice, bensì come servizio personale, come gratificazione” (La società dei consumi, 1970). Ciò che acquista è infatti un’intera atmosfera di significati, credenze e speranze di sollecitudine. Ne sono esempi i motti “Guinness is good for you”, “I’m lovin’ it”, ma anche il ringraziamento dei distributori automatici delle merendine o sigarette dopo un acquisto e il sorriso di persone, animali e persino oggetti all’interno degli spot pubblicitari, nonché il fatto che anche la più modesta merce viene presentata come il risultato di un’accurata riflessione da parte di uno stuolo di esperti che da sempre rivolge grande attenzione e impegno a individuare un nuovo modo di rendere più comoda la vita. Di “renderti” più comoda la vita, dal momento che il linguaggio generalmente adottato per far trasparire questa dedizione è sempre diretto verso chi consuma, che in questo contesto è meglio definire, insieme a Ivan Illich, un “cliente” (da Energia ed equità) per rimarcare quanto l’uomo della società dei consumi si aspetti di abitare costantemente lo spazio della sollecitudine in cui venir circondato da una formidabile compiacenza e buona volontà, che lo spronano ad accumulare oggetti e servizi, e a dipendere quotidianamente da essi.

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