Il 12 novembre 2025 è stato trasmesso alle Camere per l’espressione del parere da parte delle Commissioni competenti, lo schema di decreto legislativo che recepisce la cosiddetta direttiva “Empowering Consumers” (direttiva (UE) 2024/825), che modifica le direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE per dare potere ai consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione.
La direttiva 2024/825, approvata il 28 febbraio 2024 e con un termine di recepimento fissato al 27 marzo 2026 (con applicazione delle disposizioni a partire dal 27 settembre successivi), si pone l’obiettivo di favorire decisioni d’acquisto consapevoli e promuovere la transizione verde attraverso un mercato più trasparente e leale, aggiornando la disciplina delle pratiche commerciali sleali (precedentemente regolata dalla direttiva 2005/29/CE) e rafforzando i diritti dei consumatori sanciti dalla direttiva 2011/83/UE.
Per l’Italia il recepimento della direttiva – tramite lo schema di decreto legislativo all’esame del Parlamento (Atto del Governo n. 345) – comporta l’introduzione di nuove definizioni normative (come “asserzione ambientale”, “durabilità”, “riparabilità”, “riciclabilità” ecc.) e l’ampliamento del perimetro delle pratiche che possono essere considerate sleali o ingannevoli. Lo schema di decreto legislativo, che si compone di tre articoli e di un allegato, interviene infatti principalmente sul cd. codice del consumo (decreto legislativo n. 206/2005).
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Introduzione di nuove definizioni
Con l’entrata in vigore del decreto, le affermazioni ambientali divulgate dalle aziende – i cosiddetti “green claims” – non potranno più essere solo slogan evocativi, ma dovranno poggiare su dati concreti, verificabili e trasparenti.
Per raggiungere l’obiettivo, lo schema di decreto introduce nel Codice del consumo nuove definizioni, nell’art. 18, comma 1, coerenti con quanto previsto dalla direttiva.
Fra le definizioni più rilevanti:
- «Beni»: qualsiasi bene mobile materiale anche da assemblare; acqua, gas, energia elettrica confezionati per la vendita in quantità determinata; bene mobile materiale che incorpora o è interconnesso con contenuto o servizio digitale tale che la mancanza di questi impedirebbe la funzione del bene (“beni con elementi digitali”); animali vivi.
- «Asserzione ambientale» e «asserzione ambientale generica».
- «Marchio di sostenibilità», «sistema di certificazione», «eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali».
- «Durabilità», «aggiornamento del software», «materiali di consumo», «funzionalità». La scelta di riprodurre integralmente alcune definizioni dalla normativa UE è motivata – come chiarisce la relazione illustrativa – dalla volontà di garantire coerenza e facilità di consultazione.
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Espansione della portata delle pratiche commerciali ingannevoli
Una delle novità di rilievo riguarda l’ampliamento degli elementi che possono costituire una pratica sleale, ingannevole o aggressiva. In particolare, al comma 1 dell’art. 21, lett. b) del Codice del consumo viene riscritta: fra le caratteristiche che possono essere fuorvianti per il consumatore medio rientrano ora anche quelle ambientali o sociali del prodotto, e gli aspetti relativi alla circolarità (durabilità, riparabilità, riciclabilità), l’assistenza post-vendita, il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, l’uso, la quantità, l’origine geografica o commerciale, i risultati attesi dall’uso, i controlli effettuati sul prodotto.
Inoltre al comma 2 dell’art. 21 sono introdotte nuove lettere finalizzate a contrastare il greenwashing:
- Lettera b-ter): qualifica come pratica ingannevole la formulazione di un’asserzione ambientale relativa a prestazioni ambientali future priva di impegni chiari, oggettivi, pubblicamente disponibili e verificabili, con piano dettagliato, obiettivi misurabili, scadenze precise, risorse assegnate, verifica da terzo indipendente.
- Lettera b-quater): qualifica come ingannevole la pubblicizzazione come “vantaggio per i consumatori” di elementi che in realtà non costituiscono un reale beneficio ambientale o sociale significativo.
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Rafforzati obblighi informativi e tutela dei consumatori
Lo schema interviene anche sul titolo dedicato ai diritti dei consumatori nei contratti (parte III del Codice del consumo) modificando, ad esempio, l’art. 45 (definizioni), l’art. 48 e 49 (obblighi di informazione nei contratti) e l’art. 51 (requisiti formali contratti a distanza).
Con queste modifiche si punta a garantire che il consumatore sia in grado di compiere scelte più informate anche in termini di sostenibilità ambientale e sociale del bene o servizio acquistato, ad esempio tenendo conto della durabilità, della riparabilità, del ciclo di vita, della presenza di elementi digitali.
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La pronuncia del Tribunale di Milano
In materia di greenwashing, i contenuti del decreto e dunque della direttiva che esso recepisce erano stati in parte anticipati dalla decisione del Tribunale di Milano (RG 25667/2024) che lo scorso luglio ha accolto una domanda inibitoria avanzata da un’associazione di consumatori contro una società che dal proprio sito e dai social diffondeva affermazioni ambientali generiche come “rispettiamo alti standard di impatto ambientale e sociale”, “maglieria IMPATTO ZERO”, “sostenibilità”, “eticità”, “impegno per un futuro più sostenibile”. Per i giudici milanesi si trattava di dichiarazioni ingannevoli perché prive di un riscontro verificabile: non erano accompagnate da dati specifici, metodologie trasparenti, certificazioni pubbliche o elementi oggettivi che dimostrassero l’effettivo raggiungimenti dei risultati positivi dichiarati nella riduzione dell’impatto ambientale.
Inoltre il Tribunale ha evidenziato che i marchi di “sostenibilità” utilizzati dalla società – anche se riferiti a ipotetici sistemi di certificazione – non bastano a garantire concretezza: le certificazioni privatistiche, secondo i giudici, non offrono da sole la prova dell’effettiva sostenibilità o responsabilità ambientale/sociale e non escludono, quindi, la qualifica di pratica ingannevole.
Proprio sulla definizione di “sistema di certificazione”, il considerando n. 7 della direttiva fa un forte richiamo alla necessità di garantire competenza e indipendenza del soggetto che effettua il monitoraggio sulla conformità di un prodotto ai requisiti del sistema. Competenza e indipendenza che vanno garantite sulla base delle norme e delle procedure internazionali, dell’Unione o nazionali: ad esempio, dimostrando la conformità a norme internazionali quali la ISO 17065 «Valutazione della conformità – Requisiti per gli organismi di certificazione di prodotti, processi e servizi» o attraverso i meccanismi di cui al regolamento (CE) n. 765/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, che regola l’accreditamento degli organismi di valutazione della conformità nell’Unione europea.
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La visione europea di “consumatore medio”
La decisione del Tribunale di Milano si radica nelle indicazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), che in casi recenti – come le sentenze C-646/22 (14 novembre 2024) e C-139/22 (21 settembre 2023) – ha ribadito l’importanza della “figura del consumatore medio” quale metro per valutare la correttezza delle pratiche commerciali. Il consumatore medio è inteso non come un esperto, ma come una persona “normalmente informata e ragionevolmente attenta e avveduta”: la sua percezione e reazione alla pubblicità o comunicazione ambientale devono essere il riferimento per stabilire se un messaggio è onesto o ingannevole.
Questa visione coincide con lo spirito della direttiva Empowering Consumers, che mira a dare forza legale a una comunicazione trasparente, responsabile e verificabile: non più spazio per slogan vaghi che evocano sostenibilità, ma obbligo di sostanza.
La pronuncia di luglio, dunque, ha in un certo senso anticipato l’entrata in vigore delle nuove regole europee e questo implica che già oggi, anche prima dell’entrata in vigore formale del decreto nazionale, le imprese che abbiano adottato green claim “inappropriati” rischiano di essere sanzionate o costrette a rivedere le proprie comunicazioni se queste non soddisfano i criteri di chiarezza, trasparenza e verificabilità richiesti dalla giurisprudenza e dal diritto europeo.
Per i consumatori, questo significa una tutela rafforzata: le informazioni ambientali non saranno più lasciate all’arbitrio delle aziende, ma dovranno essere supportate da elementi concreti, facilmente verificabili e comprensibili. Per le imprese, la decisione milanese è un chiaro segnale: la comunicazione ambientale deve essere costruita con rigore, dati oggettivi, trasparenza sui processi e, idealmente, certificazioni credibili e verificabili.
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Cambino le regole del marketing
In un’epoca in cui “sostenibilità” è diventata una parola chiave del marketing e un fattore sempre più rilevante nelle scelte dei consumatori, normative come la direttiva 2024/825 e pronunce come quella del Tribunale di Milano rappresentano una correzione di rotta necessaria. Da un lato, riducono il rischio che la sensibilità ambientale sia sfruttata come strumento di marketing senza reali cambiamenti, dunque come “greenwashing”.
Dall’altro, creano le condizioni per un mercato più credibile, dove chi davvero investe in sostenibilità può esser premiato, e chi si limita a slogan può viene sanzionato. Con il completamento dell’iter di recepimento in Italia, sarà interessante vedere come le autorità competenti – a partire dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – applicheranno le nuove regole, e quante altre sentenze seguiranno quella milanese, contribuendo a chiarire ulteriormente i confini fra comunicazione legittima e ingannevole.
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