Proponiamo di seguito l’intervento che John Beard Jr. della Port Arthur Community Action Network ha tenuto ieri a Ginevra durante la plenaria di apertura del round di negoziati per un Trattato Globale sulla Plastica. Lo proponiamo perché le parole di John Beard Jr. – intervenuto a nome del movimento globale Break Free From Plastic e attorniato in segno di solidarietà dai rappresentanti delle popolazioni indigene – ci mostrano che parlare di plastica non è solo “parlare di plastica”: i polimeri che hanno riempito le nostre vite e che stanno intossicando l’ambiente e i nostri corpi raccontano anche una storia di ingiustizie, di patologie terribili, di zone di sacrificio, di inquinamento e di emergenza climatica.
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Onorevole presidente, stimati delegati.
Mi chiamo John Beard Jr. e parlo a nome del movimento Break Free From Plastic e della United States Environmental Justice Delegation. Mi rivolgo a voi dal ventre della bestia di Port Arthur, in Texas – un “cluster di cancro” grazie all’industria petrolchimica. Port Arthur è in prima linea nella produzione di plastica tossica a causa di una storia di discriminazione nei confronti delle comunità di colore e a basso reddito. Questa ingiustizia dei diritti umani risale agli albori del colonialismo europeo e della tratta transatlantica degli schiavi.
Siamo chiari: questi negoziati sono stati fatti prigionieri dalle industrie dei combustibili fossili e petrolchimiche. La loro produzione incontrollata di plastica sta accelerando una crisi che mette a rischio il clima, la biodiversità, la salute umana e la capacità del pianeta di sostenere la vita. Senza un’azione decisa e una riduzione significativa della produzione di plastica, i danni già sperimentati da innumerevoli comunità come la mia non potranno che intensificarsi.
Un trattato che non limiti la produzione di plastica, non elimini le sostanze chimiche tossiche e non garantisca una giusta transizione per le persone più colpite è un trattato destinato a fallire. Dobbiamo affrontare il razzismo ambientale in corso in comunità come la mia e fermare la piaga del colonialismo dei rifiuti nel Sud del mondo. Dobbiamo rifiutare gli schemi tossici di termovalorizzazione e le tecnologie inquinanti come il cosiddetto riciclo chimico, dando invece priorità allo sviluppo di sistemi di riutilizzo e ricarica sicuri e privi di sostanze tossiche e ai diritti dei raccoglitori di rifiuti, delle popolazioni indigene e delle comunità in prima linea.
Se da un lato dovremmo essere guidati dal consensus (il voto all’unanimità, ndr), quando non è possibile raggiungerlo i Paesi devono avere la possibilità di votare su questioni sostanziali, assicurando che le situazioni di stallo non continuino a far deragliare il progresso.
Mentre la mia comunità è in prima linea nell’ingiustizia ambientale e nell’inquinamento tossico, la micro e la nanoplastica avvelenano le persone, a prescindere dalla distanza dal fronte in cui si vive. Il tempo dei passi graduali è finito.

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