giovedì, Novembre 6, 2025

Il mondo dice davvero addio ai sussidi pubblici alla pesca per il bene dell’ambiente?

Il 15 settembre 2025 è entrato in vigore il trattato WTO per eliminare i sussidi pubblici che finanziano la pesca intensiva e dannosa. Un importante passo avanti, ma le lacune e le criticità non mancano

Lorenzo Bertolesi
Lorenzo Bertolesi
Autore e attivista con base a Milano. Ha una laurea in filosofia con una tesi (vincitrice di una borsa di studio) nell'ambito "Human-animals studies". Lavora nella comunicazione digitale da anni, principalmente per diverse ONG come ufficio stampa, copywriter e occupandosi della gestione dei social. Ora è un freelance che, insieme al collettivo Biquette, si occupa di comunicazione digitale per progetti ad impatto sociale. Addicted di Guinness e concerti (soprattutto punk), nel tempo libero viaggia con il suo furgoncino hippie camperizzato insieme alla cagnolina Polly

Quando si parla di sostenibilità ambientale sembra che gli ambienti marini passino un po’ in secondo piano – e questo nonostante mari ed oceani ricoprano gran parte della superficie del nostro pianeta. Forse perché è un ambiente che non abitiamo noi esseri umani e quindi non ci viene subito in mente? Una sorta di antropocentrismo abitativo, non lo so.

Fortunatamente però negli ultimi anni le cose stanno cambiando. E una delle attività che più hanno un impatto diretto sulla vita degli ambienti marini è la pesca intensiva – per la serie, ci dimentichiamo del mare ma comunque lo deprediamo. Certo, anche nel caso della pesca gioca un immaginario molto romanticizzato: piccole barchette, tramonti bellissimi sul mare. Ebbene, sono ormai decenni che la pesca è diventata una vera e propria macchina industriale di notevole livello, che è cresciuta sia grazie alle scoperte tecnologie sia grazie a sovvenzioni pubbliche che governi e paesi hanno dato a questa industria.

Però qualcosa sta per cambiare, perché il 15 settembre 2025 scorso è entrato in vigore il primo accordo globale del WTO (Fisheries Subsidies Agreement) che taglia i sussidi più dannosi alla pesca – qualcosa di cui ancora non si sta parlando molto purtroppo.
Prima di vedere questo accordo, vale la pena spiegare perché la pesca intensiva è così problematica.

La pesca intensiva: perché è un problema

Quando parliamo di “pesca intensiva” definiamo tutta un’industria che nasce nel secondo dopoguerra in poi. Grazie a una serie di innovazioni tecnologiche, tra cui la motorizzazione delle barche, il potenziamento delle flotte e diversi strumenti di navigazione che permettevano alle navi di navigare più a lungo, la pesca è diventata un’attività sempre più impattante sul sistema marino.

Altri fattori sono stati la trasformazione degli attrezzi di pesca – reti lunghe chilometri, reti a strascico che raccolgono milioni di pesci e palangari – senza considerare i sistemi di refrigerazione a bordo delle navi, che oggi permettono agli equipaggi di pescare, lavorare e stoccare il pescato. Insomma, sono delle vere e proprie fabbriche che galleggiano. (Per chi volesse approfondire questo tema il libro The Unnatural History of the Sea di Callum Roberts racconta proprio questa trasformazione).

La pressione della pesca intensiva ha iniziato a sovrasfruttare l’ambiente marino, turbandone gli equilibri in modo radicale. L’overfishing – come viene chiamato – sta facendo scomparire o ridurre tantissime specie in mare. E questo ha un effetto a cascata su tutto l’ambiente marino, come dimostrano diversi studi scientifici che parlano di “catastrofi” dovute alla pesca eccessiva. Secondo stime della FAO ormai 90% degli stock ittici mondiali è sovrasfruttato oppure sono sfruttati al massimo livello sostenibile  – quindi non si può aumentare ulteriormente la pesca.

Ma non è tutto. Con la creazione di strumenti così grandi come le reti della pesca intensiva, si è sviluppato il bycatch, cioè la cattura accidentale di pesci non destinati al consumo umano. Enormi reti pescano di tutto – anche uccelli – e solo poi viene fatta una selezione a bordo degli esemplari che possono anche essere ributtati in mare, oppure inseriti illegalmente come prodotti da consumare.

Oltre che ai pesci e alle creature marine, alcune delle reti usate stanno distruggendo i fondali – un’ulteriore mossa a discapito delle forme di vita. Immaginate delle enormi rete pesanti trainante da una nave gigantesca che, appoggiandosi grazie a delle zavorre, di fatto spianano il fondale come potrebbe fare un bulldozer. Ecco, queste sono le reti a strascico, che oltre a uccidere diverse creature marine, hanno un effetto devastante sui fondali, sulla loro composizione e sui loro equilibri, proprio come continuare ad arare eccessivamente un terreno agricolo con un trattore.

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Foto: Canva

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Smettere di sovvenzionare la pesca: vent’anni per trovare un accordo

Come spesso accade, la crescita incredibile di un settore è resa possibile anche dal sostegno pubblico da parte dei singoli paesi. È successo anche con la pesca infatti – per anni i governi l’hanno sostenuta economicamente. Parliamo di oltre 35 miliardi di dollari l’anno, di cui circa 22 miliardi (quindi quasi la metà) sono considerati dannosi perché insostenibili.

Ma perché colpire i sussidi? In primo luogo perché molte attività di pesca non sarebbero abbastanza redditizie senza di essi. Inoltre spesso i sistemi di sussidi sfavoriscono le attività di pesca più piccole, di fatto quindi incrementando le flotte industriali più grosse e quindi spesso più insostenibili.

Per questo la World Trade Organization (WTO) nel 2001 ha iniziato un percorso – lungo – proprio per disciplinare e regolamentare proprio i sussidi alla pesca (in particolare quella considerata “dannosa”), anche in continuità con l’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile che chiedeva di eliminare i sussidi alla pesca dannosi entro il 2022 – spoiler, non sono ancora stati eliminati. Perché la WTO, che è l’organizzazione mondiale del Commercio? Beh, ha anche tra le sue funzioni quella di definire gli aiuti degli stati su fattori che riguardano il commercio, e chiedere ai singoli stati di fare dei passi avanti sarebbe stato rischioso per una questione di concorrenza nel mercato della pesca.

Più di vent’anni di trattative, lunghe e complesse, hanno portato alle 12ª Conferenza Ministeriale della WTO tenuta a Ginevra nel 2022, dove è stato siglato l’Agreement on Fisheries Subsidies. L’accordo, che aveva trovato il consenso di tutti i 164 membri della WTO, è entrato ufficialmente in vigore il 15 settembre 2025, dopo la ratifica di oltre i due terzi dei Paesi che l’avevano siglato. Questo significa che questi Paesi sono vincolati giuridicamente ai vari divieti e limiti sui finanziamenti alla pesca, integrando nella propria legislazione proprio quello che stabilisce l’accordo.

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Cosa prevede l’accordo e cosa succederà da ora?

Di base vengono finalmente stabilite delle regole vincolanti sui sussidi alla pesca. Nello specifico, vengono vietati sussidi – nuovi o già attivi – nel caso in cui i fondi vadano a sostenere attività di pesca:

  • illegale, non dichiarata e non regolamentata
  • in stock ittici sovrasfruttati
  • in acque internazionali in cui non ci sono regimi di gestioni di pesca

Un altro aspetto interessante riguarda la trasparenza riguardo ai sussidi alla pesca, così da rendere più semplici le operazioni di controllo e monitoraggio dei sussidi – ed eventuali irregolarità.

Ci sono ovviamente alcune lacune in questo trattato. In primis su alcune pratiche non ci sono divieti espliciti, ma solo dei principi di cautela. Per esempio viene suggerita “cautela” nel dare sussidi in zone in cui gli stock di pesci non vengono valutati scientificamente – dato che potrebbero essere già in uno stato di sovrasfruttamento.

Ancora più grave è però il fatto che il trattato non affronta ancora in modo definitivo tutte le tipologie di sussidi per attività considerate “potenzialmente dannose”. Per farci capire, non sono vietati esplicitamente quelli che potenziano le flotte o quelle sui carburanti, considerati di fatto quelli che spingono nel concreto la pesca oltre il limite.

Un’altra criticità riguarda poi il divieto sui sussidi sulla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata: per quanto vietata, non c’è obbligo per i paesi ad avviare indagini per scoprire quali attività effettivamente svolgono pesca illegale. Di conseguenza, alcuni Paesi potrebbero non fare gli adeguati controlli e saremo punto a capo.

Per tutte queste ragioni sono arrivate molte critiche a questo accordo, nonostante il riconoscimento del portato importante che ha. C’è però una nota positiva. Proprio per affrontare le questioni aperte, è già partita una seconda fase dei trattati (“Fish 2”) che dovrà, almeno in teoria, sciogliere questi nodi. Per questo fra quattro anni ci sarà una fase di revisione dell’accordo anche in base a questa seconda fase dei negoziati e a come ha funzionato il trattato.

Un’altra nota positiva è che questo accordo si integra esplicitamente con alcune azioni  e iniziative globali per la tutela degli oceani – sia già esistenti che nuovi. Alcuni di questi – come l’accordo ONU “BBNJ – Biodiversity Beyond National Jurisdiction” – hanno già colmato alcune lacune di governance del trattato. Insomma, staremo quindi a vedere cosa succederà.

L’eliminazione dei sussidi infine non è ovviamente l’unica cosa che si può fare per fermare la devastazione degli oceani e della vita marina che causa la pesca intensiva – è lo stesso accordo del WTO a metterlo in chiaro. È bene però prendere atto come un passo del genere, con tutte le lacune del caso, è un segnale importante, politico ed economico.

Partiamo da quest’ultimo punto. Economico perché, come dicevamo prima, molte delle attività di pesca intensiva vengono tenute in piedi proprio grazie a questi sussidi. Inoltre, pescare stock ittici già sovrasfruttati diventerà quindi meno redditizio, proprio perché smetteranno i finanziamenti e questo potrebbe – sempre per ragioni economiche – fungere come un segnale di allarme per chi pesca quegli stock. Ciò causerà una diminuzione della pesca intensiva? La speranza è questa – ovviamente, non se questa verrà sostituita dall’acquacoltura, ma questo è un altro tema, per quanto connesso.

Questo accordo rimane comunque un fondamentale segnale politico, perché si tratta del primo regolamento commerciale mondiale in cui viene posto al centro la tutela dei mari – quindi con un obiettivo di tutela ambientale. C’è cioè una presa di coscienza di come i soldi dei sussidi, che provengono quindi anche dalle nostre tasse, non debbano essere usati per attività “dannose” per l’ambiente. Potrebbe costituire un primo passo per ripensare a come la nostra società sostiene le attività della nostra filiera alimentare, bloccando quelle dannose e privilegiando quelli più sostenibili.

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