mercoledì, Dicembre 3, 2025

Black Friday 2025: il carrello low-cost oltre i limiti del pianeta

Quella che era nata come un’unica giornata di sconti è ormai un sistema di promozioni che si estende per settimane: il Black Friday è un sistema che divora il nostro potere cognitivo e supera incessantamente i confini planetari. Ma fermarlo si può. Anche con un ausilio ragionato dell'intelligenza artificiale

Vittoria Moccagatta
Vittoria Moccagatta
Classe 1998. Laureata in filosofia all'Università degli Studi di Torino, è dottoranda in Design for Social Change presso l'ISIA Roma Design. È stata ricercatrice per il progetto "Torino città solidale e sostenibile"

Vetrine accese a giorno, insegne e schermi lampeggianti e, in sottofondo, un brusio di click: così inizia il Black Friday 2025 nel mezzo di una stagione di spesa festiva che, negli Stati Uniti, è attesa oltrepassare la soglia dei mille miliardi di dollari. Quella che era nata come un’unica giornata di sconti è ormai un sistema di promozioni che si estende per settimane, tra negozi fisici, social network, piattaforme di e-commerce, notifiche push e newsletter personalizzate. Lo smartphone è diventato il telecomando di questo mondo: solo nel 2024 i telefoni hanno generato oltre la metà del fatturato dell’e-commerce del Black Friday negli Stati Uniti, arrivando a concentrare il 57% delle vendite online, circa l’80% del traffico verso i retailer e il 73% degli ordini.

Il risultato è che la partita del Black Friday non si gioca più soltanto sui prezzi, ma sull’architettura cognitiva del percorso d’acquisto. In pochi secondi, le sequenze di banner, di timer che attivano la FOMO (fear of missing out) e di suggerimenti “per te” trasformano uno scroll distratto in una decisione di spesa, spesso con un solo tocco su un wallet digitale. Anche meccanismi come ruote della fortuna, punti da riscattare quotidianamente, sfide per sbloccare coupon aggiuntivi sono diventati parte integrante dell’esperienza, al punto che alcune autorità europee, come la European Consumer Organization, hanno cominciato a interrogarsi sull’uso di “dark patterns”, cioè di interfacce progettate per spingere l’utente a cliccare, restare, comprare più di quanto avrebbe scelto in condizioni di pieno controllo.

L’introduzione rapida di assistenti basati su intelligenza artificiale rende questo fenomeno ancora più semplice: nel 2024, durante il periodo delle festività invernali, si stima che quasi un quinto degli ordini digitali globali sia stato influenzato da strumenti di IA, dai motori di raccomandazione ai chatbot integrati nei siti dei retailer. Nel 2025 questo uso non è più un fenomeno di nicchia. Un’indagine internazionale mostra che quasi quattro consumatori su cinque nel mondo hanno intenzione di fare almeno un acquisto approfittando delle grandi campagne promozionali di fine anno, e che circa il 48% dichiara di aver già utilizzato o di voler utilizzare strumenti di intelligenza artificiale generativa per lo shopping, con un 44% che li userà specificamente per trovare offerte e confrontare i prezzi.

Non si tratta più solo di ricevere un elenco di prodotti, ma di affidare a un assistente algoritmico il compito di scandagliare il mare delle promozioni, costruire carrelli “ottimizzati”, combinare coupon, suggerire il momento giusto per cliccare “acquista ora”. Nel 2024, infatti, alcuni retailer che hanno integrato chatbot generativi hanno registrato un aumento del traffico dai canali IA nell’ordine di quasi venti volte rispetto all’anno precedente e un incremento delle conversioni prossime al 9%.

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Shopping, resi e rifiuti: qual è l’impatto ambientale?

Quando si passa dall’immaginario del consumo al piano dei flussi materiali, il Black Friday appare come un picco dentro un sistema che ha già superato i limiti di sicurezza nell’uso delle risorse. La “material footprint” dell’Unione europea nel 2024, cioè la quantità di materie prime estratte per produrre i beni e i servizi che consumiamo, è stata di circa 14 tonnellate per persona. Nello stesso anno solo il 12,2% dei materiali utilizzati nell’UE proveniva da riciclo, il che significa che quasi nove decimi dei flussi materiali dipendono ancora da nuove estrazioni e da un modello in larga parte lineare di estrazione, uso e scarto.

Il Black Friday concentra in pochi giorni grandi volumi di acquisti in settori ad alto impatto come elettronica, tessili, giocattoli e articoli per la casa e alimenta una iperproduzione di rifiuti: studi sul Regno Unito stimano che le sole consegne legate al Black Friday generino ogni anno circa 400.000 tonnellate di CO₂, mentre fino all’80% dei prodotti e degli imballaggi acquistati in quel periodo finisce in discarica, in inceneritore o in forme di riciclo di bassa qualità.

A questa prima ondata si aggiunge poi quella dei resi: le stime per il mercato europeo suggeriscono che tra il 30 e il 40% degli acquisti online venga restituito, con picchi ancora più alti per abbigliamento e calzature, dove è ormai normale ordinare più taglie e colori per provarli a casa. Spesso, quindi, il Black Friday non si limita a redistribuire nel tempo acquisti che avremmo fatto comunque, ma accelera la sostituzione rapida di oggetti ancora funzionanti, incentiva l’accumulo ridondante e accorcia la vita utile di ciò che compriamo. La domanda decisiva, dal punto di vista ambientale, non riguarda quindi solo il fatto che il capo scontato sia in cotone biologico o che il gadget sia “riciclabile”, bensì se quel prodotto fosse davvero necessario e per quanto tempo verrà effettivamente utilizzato prima di trasformarsi nell’ennesima frazione di tonnellata in un sistema di rifiuti già saturo.

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Amazon, Shein e Labubu: tralittle treat cultureed espansione consumistica

Se il Black Friday è il picco visibile di un’onda, l’onda stessa si costruisce durante tutto l’anno. Il 2025 ha segnato una svolta nell’offerta di ultra-low-cost all’interno delle grandi piattaforme. Amazon ha spinto verso il fondo del prezzo creando una sezione separata della propria piattaforma, cioè “Haul” (per Italia e Stati Uniti, mentre “Bazaar”, come app autonoma, per altri Paesi), interamente dedicata ai prodotti a basso costo e costruita su un catalogo che raramente supera la soglia dei dieci euro, con un tetto formale di venti nel mercato italiano.

black friday amazon

Non è soltanto una risposta alla pressione di Temu e Shein, ma un’operazione di architettura del marketplace che affianca all’Amazon tradizionale una “seconda città” dello shopping capace di intercettare la domanda di iper-convenienza e, insieme, di alimentare una certa cecità al vero prezzo delle cose, in un contesto di erosione del potere d’acquisto, di “caccia all’affare” e di meccaniche promozionali sempre più ludiche. Lasciapassare per entrare in questa seconda città è la logica della piccola ricompensa, che lungo il 2025 ha preso forza sotto il nome di “little treat culture”, cioè la tendenza a concedersi piccoli acquisti frequenti come gratificazione immediata: l’idea è che in un contesto di stress economico sia psicologicamente più facile concedersi molti piccoli acquisti da pochi euro, presentati come “treats” o “piccoli vizi”, invece di uno sporadico oggetto costoso.

L’espansione del polo ultra-low-cost non si è fermata qui. Shein ha scelto il movimento inverso e portato l’e-commerce nel tessuto urbano parigino con un punto vendita permanente al BHV Marais, trasformando lo shopping digitale in una presenza tangibile, fatta di code all’interno e proteste all’esterno. L’apertura è diventata una lente d’ingrandimento sul modello del fast fashion, che continua a fondarsi su cicli di vita brevissimi, micro-lotti e una logistica globale a elevato impatto ambientale.

Fattori tipici anche delle nuove forme di micro-manie di collezionismo che, tra shopping fisico e digitale, sono esplose tra il 2024 e il 2025, con i Labubu di Pop Mart divenuti icona indiscussa: piccoli pupazzi collezionabili, nati come art toy di nicchia e divenuti popolari a livello internazionale dopo essere apparsi in mano a celebrità e influencer, venduti in “blind box”  – scatole chiuse che non rivelano quale personaggio si sta acquistando fino all’apertura – e capaci, a ogni nuova uscita, di generare code infinite, addirittura aste, scambi, video di unboxing, imitazioni e falsi, fino a movimentare un mercato a sei zeri (l’ultimo record l’ha raggiunto un Labubu dal colore “mint green”, battuto all’asta per 150.000 dollari), con un indotto parallelo perfino per i soli accessori e personalizzazioni.

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Gli sconti che costano caro al pianeta

L’ultra-discount, la piccola ricompensa trasformata in grammatica d’acquisto e la moda dei collezionabili hanno spostato il baricentro del consumo: ciò che conta sempre meno è l’importo del singolo oggetto e sempre di più la frequenza con cui il carrello viene riempito, svuotato e di nuovo riempito. Il metabolismo del Black Friday e delle sue propaggini durante l’anno si regge su questa ripetizione a “basso costo”, che moltiplica i passaggi di cassa e mette in secondo piano la durata d’uso, la riparabilità, la qualità progettuale e, più in generale, tutti quei costi ambientali e sociali che non compaiono nello sconto in homepage. Gli effetti non si leggono solo nello scontrino medio, ma nella struttura stessa delle filiere: vite utili sempre più corte, tassi di reso elevati che fanno viaggiare i prodotti avanti e indietro, circolazione accelerata di materiali che attraversano il sistema economico come un flusso torrentizio, si fermano per poco tempo nelle nostre case e poi si trasformano in rifiuti difficili da gestire.

Se allarghiamo l’inquadratura, il 2025 è anche l’anno in cui la scienza ricorda con chiarezza che viviamo stabilmente oltre i confini di sicurezza del pianeta e che l’uso globale di risorse primarie resta sopra la soglia dei cento miliardi di tonnellate all’anno, con un tasso di circolarità fermo a poco più del sette per cento. In questo contesto, il carrello low-cost non è più interpretabile come una somma di piccoli errori individuali, ma come il sintomo di una questione sistemica: il prezzo unitario si abbassa, mentre il volume complessivo di oggetti e scarti continua a crescere, e con esso la pressione esercitata sugli ecosistemi.

black friday sconti

Un’economia che mobilita ogni anno questa scala di risorse e riesce a reimpiegarne in cicli circolari solo una frazione minima può ancora considerare il record di vendite del Black Friday come un indicatore di successo? Nella narrazione dominante, l’evento viene raccontato quasi esclusivamente come un “termometro” della vitalità dei consumi e valutato quasi solo in base alla spesa totale, al tasso di crescita anno su anno, alla performance delle singole insegne, e il record di vendite viene presentato come prova della buona salute dell’economia reale, della fiducia dei consumatori, della capacità di innovazione del retail. Molto più raramente vediamo porre domande altrettanto quantitative ma di segno diverso, come quanta parte di quella spesa si traduca in prodotti usati a lungo, quanta in sostituzioni non necessarie, quanta in rifiuti generati nel giro di pochi mesi. Da questo punto di vista, la crisi che attraversa il Black Friday non è soltanto ecologica, ma anche metrica. Continuiamo a misurare la salute dell’economia con strumenti sull’equivalenza “aumentare la produzione” uguale “aumentare il benessere”.

Se l’economia vuole prendere sul serio i limiti materiali entro cui opera, il Black Friday non può restare un semplice spettacolo di volumi che salgono. Nella sua spettacolare visibilità, l’evento è una lente che ingrandisce il paradosso di un sistema che festeggia ogni tonnellata di merce in più senza chiedersi da dove arriva quella materia e dove andrà a finire. Ripensare questa giornata non equivale a predicare un’ascetica rinuncia individuale né a ridurre tutto a un “non comprare”, che rischierebbe di non cogliere i vincoli economici e psicologici reali dentro cui si muovono le persone. Il nodo è un altro: un sistema che si regge su flussi materiali così elevati ha bisogno di ridurre il volume assoluto di risorse mobilitate, non soltanto di migliorare un po’ l’efficienza per unità di prodotto.

Il Black Friday, in quanto rituale globale che concentra attenzione mediatica, sperimentazione logistica, innovazione di interfaccia e una quota rilevante del fatturato annuale di molti settori, potrebbe diventare uno dei luoghi in cui questa ridefinizione viene messa alla prova. Invece di limitarsi a funzionare come termometro dello “stato dei consumi”, l’evento potrebbe essere reinterpretato come banco di prova per nuovi criteri di successo, in cui iniziamo a chiederci quanta parte del fatturato sia stata generata con meno materia prima vergine, quale quota delle transazioni abbia riguardato servizi di riparazione e ricondizionamento, di quanto si sia allungata la vita utile media dei prodotti venduti in quella settimana, quanto si siano ridotti i resi e gli sprechi logistici. Anche l’intelligenza artificiale, oggi impiegata soprattutto per moltiplicare le opportunità di acquisto, potrebbe essere reclutata come alleata in senso opposto, aiutando le persone a confrontare la durabilità dei beni, a valutare la reale necessità di un acquisto, a individuare opzioni di riuso o di sharing invece di indirizzare automaticamente verso il nuovo più economico.

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