giovedì, Novembre 6, 2025

Andreas Rasche, la grande contraddizione della sostenibilità aziendale nell’Unione Europea

L'Unione Europea fa marcia indietro sul reporting di sostenibilità e la due diligence. La finanza sostenibile è in pericolo e l'esperto Andreas Rasche non nasconde la preoccupazione. "Spetta anche ai leader aziendali assicurarsi che le organizzazioni comprendano la necessità della regolamentazione"

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

In questi mesi la sostenibilità aziendale si trova a vivere una sorta di “disturbo d’identità“: su certi aspetti si registrano progressi, mentre su altri ci sono stati fortissimi contraccolpi e marce indietro. Che addirittura rischiano di andare oltre le direttive CSRD sul reporting di sostenibilità e CSDDD sulla due diligence. Andreas Rasche è un attento osservatore della finanza sostenibile e non nasconde la preoccupazione per questa fase storica, dopo il pacchetto Omnibus che ha messo in discussione quanto fatto finora dall’Unione Europea, riducendo in maniera drastica il numero di aziende soggette alle nuove normative di Bruxelles sul reporting di sostenibilità.

Professore di Business in Society alla Copenhagen Business School, dove dirige anche il Centre for Sustainability della stessa università, Andreas Rasche, si occupa di strategie sostenibili, rendicontazione non finanziaria e trasformazione delle imprese in chiave ambientale e sociale, ed è fortemente convinto che la finanza sostenibile sia uno degli strumenti più potenti per guidare la transizione ecologica perché la trasparenza e la qualità dei dati ESG hanno il potere di orientare le decisioni di investimento. Quello che ripete ad ogni occasione, ed è emerso anche dall’intervista con EconomiaCircolare.com, è che strumenti come la CSRD o la tassonomia UE non sono meri adempimenti burocratici, ma leve per una gestione più consapevole delle imprese. 

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Professor Andreas Rasche, qual è lo scopo del reporting di sostenibilità, e perché è importante nella transizione ecologica?

Il reporting di sostenibilità consiste nel raccogliere e analizzare dati sulla sostenibilità. Questo è importante per motivi di trasparenza e quindi di responsabilità, ma è anche fondamentale per gli investitori che usano questi dati per prendere decisioni di investimento. In definitiva, il reporting di sostenibilità riguarda semplicemente una migliore gestione. Per esempio, la CSRD non è solo un quadro normativo di rendicontazione; è uno strumento per prendere decisioni migliori in aziende che riconoscono che le imprese devono affrontare nuovi rischi e opportunità legati ai cambiamenti climatici. Se non misuri le tue emissioni di CO2, non puoi nemmeno gestirli.

Perché c’è stata un’opposizione trasversale al CSRD? Qual è la sua opinione sugli argomenti usati per giustificarla? Le imposizioni sulle imprese sono davvero eccessive?

L’opposizione alla direttiva CSRD proviene principalmente dai partiti di estrema destra, che in sostanza vogliono cancellare tutta la legge, e anche dai conservatori, che vogliono modificare la normativa in modo significativo. Gli argomenti presentati sono piuttosto deboli. È vero che la direttiva CSRD è un quadro normativo complesso, e penso sicuramente che possa e debba essere semplificato. Ma gran parte di questa semplificazione avrebbe potuto avvenire a livello tecnico, per esempio eliminando alcuni punti dati e uniformando le definizioni. Il pacchetto Omnibus, però, va molto oltre perché elimina semplicemente l’obbligo di rendicontazione per l’80% delle aziende. Ma questo non semplifica nulla – significa solo che le aziende non devono più fare reporting.

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Andreas RascheC’è il rischio – oltre a fermare un processo importante già in corso – che l’UE ottenga l’effetto contrario e che il danno economico per le imprese sia maggiore? Gli investitori non sembrano contenti del passo indietro.

Le reazioni degli investitori sono molto varie. La Banca centrale europea ha avvertito che andremo incontro a grandi lacune nei dati e che sarà molto difficile misurare i rischi della transizione climatica. Altre organizzazioni di investitori, come i Principles for Responsible Investment, hanno chiesto di apportare solo modifiche moderate. E sì, è probabile che l’UE causi un danno economico, almeno nel breve termine. Molte imprese avevano già investito nell’implementazione della CSRD e ora si trovano improvvisamente a dover apprendere che i requisiti di rendicontazione sono ritardati e forse anche eliminati del tutto.

Ci sono invece regolamenti UE in attuazione – come il Regolamento Ecodesign – che offrono speranza per il processo di transizione?

Sì, l’UE sta ancora spingendo altre normative sulla sostenibilità come il regolamento Ecodesign o la direttiva sui Green Claims. Molte aziende con cui parlo sono confuse e hanno difficoltà a capire questi segnali contrastanti, dato che la Commissione europea non ha spiegato bene perché sostiene alcune normative e non altre. Questo lascia l’impressione che la “semplificazione” sia soprattutto una questione politica per mostrare agli elettori che si fa qualcosa contro la burocrazia. Quanto tutto ciò renderà davvero le aziende europee più competitive è quantomeno discutibile. La competitività delle aziende dipende da molti fattori, e i costi di conformità sono solo una piccola parte di un puzzle molto più ampio. Ciò che conta di più è l’accesso a manodopera qualificata, l’innovazione e un’infrastruttura davvero buona.

Viceversa, c’è il rischio che il passo indietro dell’UE possa estendersi ad altre aree legate a sostenibilità e ambiente? Se sì, in quale direzione?

Sì, penso ci sia il rischio che il passo indietro lasci il segno anche in altre aree. Per esempio, 11 stati membri hanno appena richiesto nuove “semplificazioni” del Regolamento UE sulla Deforestazione, inclusi ulteriori ritardi nell’applicazione della normativa. Molti si aspettavano questi effetti a catena, perché quei politici che volevano attenuare le normative sulla sostenibilità dell’UE e non ci sono riusciti nell’ultimo mandato parlamentare ora vedono un’opportunità. Probabilmente accadrà anche che gli obiettivi climatici dell’UE saranno adattati secondo “considerazioni pragmatiche”.

Pensa che la sovrapposizione tra alcune normative UE (tassonomia, CSRD, CSDDD) possa aver confuso o spaventato le imprese?

La sovrapposizione diretta è stata limitata. Penso piuttosto che abbia confuso le aziende la complessità delle normative e l’incoerenza delle definizioni tra i diversi documenti legali. Ma non dobbiamo dimenticare una cosa. Stiamo giudicando basandoci sulle esperienze di attuazione avvenute nel primo anno dall’approvazione per la CSRD, mentre non esistono esperienze di implementazione per la CSDDD. Quindi, la confusione intorno alla CSRD era in un certo senso prevedibile. Lo avevamo visto anche con il regolamento GDPR sulla protezione dei dati. È ingenuo pensare che la prima attuazione di nuove normative vada liscia. Quindi, in un certo senso, è normale che non tutto funzioni alla perfezione al primo colpo. Le aziende devono prima stabilire delle routine e questo richiede tempo. Quando le imprese hanno più esperienza e anche gli attori esterni (ad esempio i revisori) ne hanno accumulata, le normative risultano meno confuse.

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Finanza sostenibileSecondo l’opinione personale di Andreas Rasche: quanto è diffuso il greenwashing tra le aziende che sarebbero soggette alle regole di trasparenza UE?

Le regole di rendicontazione in sé possono rendere più difficile il greenwashing perché obbligano le aziende a rendere pubbliche le loro dichiarazioni sulle performance di sostenibilità. Tuttavia per combattere il greenwashing sono molto utili anche le normative che regolano quali affermazioni “verdi” le aziende possono fare, come la nuova direttiva sui Green Claims. Per esempio, le statistiche sul greenwashing di RepRisk per il 2023-2024 mostrano un livello diminuito di greenwashing in Europa, e ciò si può in parte attribuire al fatto che le aziende sanno che la regolamentazione sta arrivando.

Crede che esistano modi alternativi alla regolamentazione prescritta da Bruxelles per ottenere trasparenza? Cosa dovrebbero fare le imprese?

La trasparenza non è solo il risultato della regolamentazione. Le imprese possono fare molto per favorire la trasparenza, soprattutto coinvolgendo gli stakeholder rilevanti e fornendo canali di comunicazione per far emergere le loro preoccupazioni.

Professor Andreas Rasche, secondo lei qual è il ruolo di iniziative come il Global Compact ONU o i Principi guida ONU su imprese e diritti umani per assicurare che le multinazionali si assumano una reale responsabilità delle proprie azioni?

Questi quadri e iniziative restano importanti come lo erano 10 anni fa. Definiscono principi che fungono da bussola morale per le imprese e quindi stabiliscono standard aspirazionali. Non possiamo affidarci solo alla regolamentazione legale, perché ci saranno sempre ambiti che queste norme non coprono pienamente. Ciò che serve è un “mix intelligente” di quadri normativi volontari e regolamentazione legale, e le aziende devono impegnarsi in entrambi. Altrimenti la sostenibilità diventa solo un compito di conformità, ma la conformità è sempre reattiva e non porta automaticamente alla creazione di valore a lungo termine. Quindi, alla fine, spetta anche ai leader aziendali assicurarsi che l’organizzazione comprenda come le regolamentazioni volontarie e legali siano entrambe importanti.

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