giovedì, Novembre 6, 2025

L’Italia punta al ribasso sull’ambiente per affrontare i dazi USA

Dagli acquisti del GNL statunitense al possibile utilizzo del Social Climate Fund per supportare le imprese italiane che sono danneggiate dai dazi voluti da Donald Trump: così la premier Meloni, nella visita di oggi al presidente USA, intende ulteriormente sacrificare le scelte ambientali. Ma non è una novità

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista glocal, ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane per poi specializzarsi su ambiente, energia ed economia circolare. Redattore di EconomiaCircolare.com. Per l'associazione A Sud cura l'Osservatorio Eni

Che c’entrano i dazi USA con le politiche ambientali dell’Italia? É la domanda che ci si pone da qualche tempo, da quando cioè prima il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso e poi direttamente la premier Giorgia Meloni hanno chiesto la sospensione del Green Deal, il pacchetto di politiche varato dalla scorsa Commissione europea per raggiungere la neutralità climatica al 2050. Un collegamento che appare poco immediato ma che verrà probabilmente reso evidente dalla visita di Meloni al presidente USA Donald Trump, prevista per oggi.

Sul piatto dell’incontro, infatti, ci saranno le forniture del GNL, il Gas Naturale Liquefatto di cui gli Stati Uniti sono diventati il primo importatore verso il nostro Paese. GNL che, vale la pena ricordarlo, viene ottenuto attraverso la devastante tecnica del fracking e che già ora ha in buona parte sostituito il gas proveniente dalla Russia fino all’avvio della guerra in Ucraina. 

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Come ricorda ECCO, il think tank italiano per il clima, solo per il GNL Trump chiede all’Unione Europea ulteriori acquisti per oltre 350 miliardi di dollari. “In questo senso – spiega ECCO – cedere alla richiesta di vincolare l’Europa (e l’Italia) a nuovi contratti a lungo termine sul GNL americano potrebbe rivelarsi un errore strategico. In primis, perché ridurrebbe la flessibilità delle nostre infrastrutture energetiche, già messe alla prova durante la crisi Russia-Ucraina. A questo si affianca il dato di una drastica riduzione della domanda di gas, pari a -18% in soli tre anni in Europa. In termini di volumi, in Italia siamo passati da circa 76 Mld mc nel 2021 a meno di 62 Mld mc nel 2024.  In questo contesto sarà importante osservare quanto l’Italia sarà capace di difendere gli interessi del Green Deal quale metro dell’autonomia europea e delle politiche climatiche. L’Italia dovrà riconoscere che l’innovazione nella decarbonizzazione può fornire gli strumenti per rilanciare la competitività industriale attraverso nuovi investimenti in processi e prodotti, rafforzare l’autonomia energetica del continente e proteggere cittadini, imprese e spesa pubblica dagli impatti crescenti del cambiamento climatico”.

Tuttavia quella del GNL non è l’unica partita in corso tra Stati Uniti e Italia. E non è l’unica vicenda dove il governo Meloni intende sacrificare gli obiettivi ambientali per far fronte alle tariffe commerciali minacciate dal presidente USA.

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Il Social Climate Fund per attutire i dazi statunitensi?

Già negli scorsi giorni il governo Meloni, questa volta per bocca del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, aveva annunciato un’altra misura, a scapito degli obiettivi ambientali., per supportare le imprese italiane colpite dai dazi statunitensi. Vale a dire l’utilizzo del Social Climate Fund, un fondo che al momento non è anocra disponibile e che verrà finanziato per lo più dai proventi della vendita delle quote di emissioni derivanti dalla combustione di carburanti negli edifici, nel trasporto su strada e in altri settori, il cosiddetto ETS2, con lo scopo di minimizzare l’impatto della transizione verde sulle fasce più povere e vulnerabili della popolazione.

Una scelta, quella annunciata dal governo Meloni, che ha visto la contrarietà di numerose associazioni, ambientaliste e non solo. Secondo WWF, Greenpeace, Legambiente, Kyoto Club, Transport&Environment, CGIL, Forum Diseguaglianze e Diversità, Mira Network, Clean Cities, è assolutamente da escludere che parte dei soldi possano essere reperiti usando tutto il plafond a disposizione, peraltro nell’arco di sei anni. Con quei fondi, in realtà, gli Stati membri dell’Unione europea dovrebbero sostenere misure strutturali e investimenti nell’efficienza energetica nonché nella ristrutturazione di edifici, nel riscaldamento e raffreddamento puliti e nell’integrazione delle energie rinnovabili, fino a soluzioni di mobilità a zero e basse emissioni.

“Usare quei fondi per fini diversi non è possibile – fanno notare le associazioni – tanto più che modalità e destinazioni devono essere preventivamente concordate con la Commissione Europea attraverso un Piano da presentare entro giugno di quest’anno. Del tutto fuori luogo, poi, impiegarli per far fronte a un’emergenza, quindi per interventi immediati. Insomma, al Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) forse non sanno cosa è il Social Climate Fund o fingono di non saperlo. Visto che avevano inserito il Fondo Sociale per il Clima anche nel Decreto Bollette, pur non potendolo usare nemmeno per quello scopo. Insomma, sempre gli stessi soldi (il totale è sempre 7 miliardi) che in realtà non possono usare. Pare quasi che al MEF siano più preoccupati di impedire le misure per garantire la transizione verde anche ai più vulnerabili che di reperire fondi effettivamente esistenti e disponibili”.

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UE e Italia allineate sul ridimensionamento ambientale (ben prima dei dazi)

La nota pungente delle associazioni sul Social Climate Fund, in ogni caso, non sembra tener conto che il ridimensionamento ambientale dell’Italia va di pari passo con quello dell’UE. Come abbiamo raccontato più volte, dal Green Deal (con la sua visione programmatica) si è passati al Clean Industrial Act (dove ci si continua ad affidare alle illusioni del libero mercato, delle innovazioni tecnologiche e della buona volontà e delle imprese) fino al ReArm Europe (continuiamo a chiamarlo così perché più sincero nella denominazione rispetto al Readiness 2030) e al decreto Omnibus, che prevede, con la scusa della semplificazione, un’ulteriore deregolamentazione per le imprese (lo si è già visto con la tassonomia, la duel diligence e altri provvedimenti).

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Sembrano lontani anni luce i tempi in cui, ed eravamo solo a febbraio, in cui 11 Paesi dell’UE chiedevano la piena attuazione del pacchetto Fit for 55 sul clima (la riduzione del 55% delle emissioni al 2030 rispetto ai livelli del 1990), individuando un target specifico per il 2040, che finora non è mai stato indicato e che gli Stati avevano fissato nell’ambiziosa asticella del -90%. Chissà se oggi quegli 11 Stati – Austria, Bulgaria, Germania, Danimarca, Spagna, Finlandia, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi e Portogallo – rifirmerebbero la stessa lettera. Di certo non la firmerebbe l’Italia, che non l’aveva condivisa neanche allora.

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