mercoledì, Novembre 5, 2025

Giornata mondiale della conservazione della natura: riconoscere il valore inestimabile della fauna selvatica per il nostro benessere

In occasione della Giornata mondiale della conservazione della natura, che si tiene ogni 28 luglio, è fondamentale interrogarsi su cosa intendiamo per conservazione. Troppo spesso, poi, vegono sottovalutate le funzioni vitali degil animali. Ma cosa stanno facendo l’UE e l’Italia per proteggere il più prezioso dei patrimoni?

Letizia Palmisano
Letizia Palmisanohttps://www.letiziapalmisano.it/
Giornalista ambientale 2.0, spazia dal giornalismo alla consulenza nella comunicazione social. Vincitrice nel 2018 ai Macchianera Internet Awards del Premio Speciale ENEL per l'impegno nella divulgazione dei temi legati all’economia circolare. Co-ideatrice, con Pressplay e Triboo-GreenStyle del premio Top Green Influencer. Co-fondatrice della FIMA, è nel comitato del Green Drop Award, premio collaterale della Mostra del cinema di Venezia. Moderatrice e speaker in molteplici eventi, svolge, inoltre, attività di formazione sulle materie legate al web 2.0 e sulla comunicazione ambientale.

Il 28 luglio viene celebrata la Giornata Mondiale della Conservazione della Natura, un appuntamento fondamentale per riflettere sullo stato di salute del nostro Pianeta e sull’urgenza di proteggerlo. L’immagine che ne abbiamo corrisponde realmente a ciò che è davvero fondamentale fare?

Spesso, quando pensiamo alla conservazione, la nostra mente molto probabilmente corre ad immagini di foreste lussureggianti, barriere coralline colorate o vaste praterie. Tendiamo a concentrarci sulla protezione degli habitat ovverosia della “scatola” che contiene la vita. Tutto ciò non è sbagliato, ma potrebbe essere una visione parziale. Una nuova prospettiva, supportata da ricerche scientifiche sempre più dettagliate, ci impone, infatti, di guardare con più attenzione al “contenuto”: la fauna selvatica.

Gli animali non sono semplici abitanti passivi dei loro ecosistemi, ma ne sono gli architetti, gli ingegneri e i manutentori. Il loro contributo, spesso invisibile, è essenziale per la nostra stessa sopravvivenza e per il funzionamento di quei servizi ecosistemici che diamo per scontati. Una recente analisi, pubblicata su Nature Reviews Biodiversity, sta mappando in modo sistematico questi “Contributi della Fauna Selvatica alle Persone” (WCPs), dimostrando che la tutela della biodiversità animale sia una delle strategie più efficaci per garantire un futuro sostenibile e, in ultima analisi, circolare.

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Oltre la copertura forestale: perché gli animali sono i veri ingegneri degli ecosistemi

Per decenni, la valutazione della salute di un ecosistema si è basata in gran parte su dati di telerilevamento. I satelliti ci mostrano quanta copertura forestale abbiamo, quanto è verde una determinata area, ma non possono rivelarci cosa vive al suo interno.

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Questo approccio, pur essendo utile, rischia di fornirci un’immagine incompleta e pericolosamente ottimistica. Come sottolinea Rebecca Chaplin-Kramer, scienziata capo della biodiversità globale del WWF e autrice principale della nuova ricerca, rischiamo di finire con foreste vuote: paesaggi esteticamente intatti, ma privi di quella vita animale che ne garantisce la funzionalità e la resilienza.

L’esempio della reintroduzione del bisonte nella riserve di Rosebud

L’esempio della reintroduzione del bisonte americano in alcune aree come nella Riserva di Rosebud, in South Dakota, è emblematico. Dopo oltre un secolo di assenza, il ritorno di questi maestosi erbivori non ha avuto solo un profondo valore culturale e spirituale per la nazione indigena Sicangu Lakota Oyate, ma ha innescato una cascata di benefici ecologici. I loro zoccoli arieggiano il terreno, favorendo la crescita di erbe che sequestrano carbonio dall’atmosfera. Le loro abitudini alimentari e la tendenza a rotolarsi nel fango consentono la creazione di micro-habitat diversificati, ideali per uccelli e insetti. Le loro deiezioni, ricche di nutrienti e semi, fertilizzano il suolo in modo naturale. Questo è un perfetto esempio di ingegneria ecosistemica: senza il bisonte, la prateria sarebbe solo un’area protetta mentre, grazie ad esso, diventa un sistema vivo, dinamico e molto più produttivo in termini di servizi ecosistemici.

La ricerca ha dimostrato che i vertebrati selvatici, terrestri e acquatici, partecipano attivamente ad almeno 12 delle 18 categorie di “contributi della natura alle persone” (NCPs) definite dalla Piattaforma Intergovernativa Scienza-Politica sulla Biodiversità e i Servizi Ecosistemici (IPBES) dell’ONU. Ignorare questo ruolo attivo significa perdere una parte fondamentale del valore della natura.

Il valore nascosto: quantificare i contributi della fauna al benessere umano

Molti dei benefici che riceviamo dalla fauna selvatica sono evidenti: il pesce che mangiamo, l’impollinazione delle colture da parte di insetti e uccelli. Altri, però, sebbene non meno cruciali, sono molto più difficili da riconoscere e quantificare. Pensiamo al valore culturale ed identitario che un animale come l‘orso bruno marsicano rappresenta per l’Appennino Centrale, un simbolo del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise la cui conservazione è parte integrante del patrimonio del territorio. Oppure al ruolo del lupo appenninico che non è solo una figura centrale nel nostro immaginario collettivo, ma anche – potremmo dire – un ingegnere ecosistemico fondamentale. La sua presenza, infatti, come predatore al vertice della catena alimentare, contribuisce a regolare le popolazioni di ungulati come cinghiali e caprioli, limitando i danni alle colture e favorendo la naturale rigenerazione delle foreste.

Un altro contributo essenziale, spesso invisibile, è quello di uccelli come la ghiandaia che, nascondendo le ghiande delle quali si nutre, agisce come il più efficiente seminatore di querce, garantendo la diffusione e la salute dei nostri boschi. Lo studio, guidato da Chaplin-Kramer, mira proprio a rendere visibili questi contributi indiretti.

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Mappare e proiettare i contributi della natura alle persone senza considerare esplicitamente la fauna selvatica può quindi portare a valutazioni troppo ottimistiche e, di conseguenza, a politiche di conservazione e sviluppo sostenibile inefficaci. Comprendere a fondo questa rete di interconnessioni è fondamentale per sviluppare politiche che raggiungano davvero gli obiettivi di conservazione e benessere umano.

Un pianeta in silenzio: l’allarme degli scienziati sul declino della fauna

Questa nuova consapevolezza sul ruolo cruciale della fauna selvatica arriva in un momento drammatico. Gli scienziati concordano sul fatto che stiamo vivendo la sesta estinzione di massa, questa volta causata dalle attività umane. I numeri sono allarmanti: il rapporto “Living Planet” del WWF del 2024 ha registrato un calo medio del 73% nelle popolazioni di fauna selvatica a livello globale. Una gran parte delle specie di vertebrati sta subendo un declino della popolazione. Una recentissima ricerca pubblicata su Nature all’inizio del 2025 ha rivelato che circa un quarto degli animali d’acqua dolce potrebbe estinguersi, compresi pesci da cui intere comunità dipendono per il cibo. La vera minaccia, come sottolinea Chaplin-Kramer, non è solo l’estinzione definitiva di una specie che, già di per sè, rappresenta una tragedia irreparabile.

Il problema inizia molto prima, con la semplice diminuzione della loro abbondanza. È quando le popolazioni animali iniziano a ridursi che cominciamo a vedere un calo delle loro funzioni ecosistemiche. Una foresta con il 90% in meno dei suoi uccelli non è più in grado di controllare i parassiti o disperdere i semi con la stessa efficienza. Un oceano con popolazioni di pesci ridotte all’osso non può più sostenere le catene alimentari e, quindi, regolare i cicli dei nutrienti (e ricordiamo che si stima che nel 2050 nei mari ci sarà più plastica che pesci). Questo declino funzionale è una minaccia silenziosa, ma profonda, alla stabilità dei nostri sistemi naturali e, di conseguenza, al nostro modello di sviluppo. La buona notizia, però, è che, a differenza dell’estinzione, il declino delle popolazioni è un processo che possiamo ancora invertire.

Dalla conservazione all’azione: tecnologie e politiche per un futuro ricco di vita

Se la diagnosi è preoccupante, la prognosi non è necessariamente infausta. Viviamo, infatti, un’era di straordinarie opportunità tecnologiche e scientifiche che ci consentono di monitorare e proteggere la fauna selvatica. Tecniche innovative come l’analisi del DNA ambientale (eDNA), il monitoraggio acustico e le fototrappole, ampiamente utilizzate da ISPRA e nell’ambito di progetti europei come il programma LIFE, stanno infatti rivoluzionando la nostra capacità di capire chi vive dove e come, permettendo di seguire le tracce di specie elusive come il lupo e l’orso nei nostri parchi nazionali. A questi strumenti si affianca la visione dall’alto offerta dal programma europeo Copernicus, gestito dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che con i suoi satelliti Sentinel monitora lo stato di salute degli habitat, i cambiamenti nell’uso del suolo e gli effetti della crisi climatica, fornendo dati essenziali per la conservazione.

Questa mole di dati, tuttavia, deve tradursi in politiche efficaci. A livello europeo, la risposta è contenuta nella Strategia dell’UE per la Biodiversità al 2030, un piano ambizioso che mira a proteggere legalmente il 30% delle terre e dei mari dell’Unione e a ripristinare vaste aree di ecosistemi degradati. L’Italia ha recepito questi obiettivi adottando la propria Strategia Nazionale per la Biodiversità al 2030, un passo fondamentale per la tutela del nostro patrimonio naturale. Ciononostante, l’attuazione procede a rilento. Recenti rapporti della Corte dei Conti Europea e dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA) evidenziano un divario preoccupante tra gli obiettivi e la realtà: i finanziamenti sono spesso insufficienti, mal indirizzati, e, al ritmo attuale, con le popolazioni di uccelli comuni e di impollinatori che continuano a diminuire, l’UE difficilmente raggiungerà i traguardi fissati per il 2030.

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Conservazione della natura vuol dire anche sapere come gestire in maniera sostenibile le foreste

Considerando che la giornata mondiale della conservazione della natura cade d’estate, non possiamo non finire questo approfondimento parlando di una delle minacce sempre più gravi degli ultimi anni, ovverosia gli incendi, esacerbati dalla crisi climatica ma non solo. In questo scenario, la conservazione non può essere un’azione passiva, ma richiede una gestione attiva e consapevole del territorio. Una risposta concreta e misurabile arriva dalla Gestione Forestale Sostenibile (GFS) e da schemi di certificazione come il PEFC (Programme for Endorsement of Forest Certification) e FSC (Forest Stewardship Council).

Una recente collaborazione tra PEFC Italia e l’Università di Firenze ha fornito nuove evidenze scientifiche su questo fronte. I dati sono eloquenti: i boschi certificati PEFC hanno una probabilità di essere colpiti da incendi fino a nove volte inferiore rispetto a quelli non gestiti, con una riduzione dei danni del 50%. L’analisi dei dati ISPRA per il 2024, che ha visto 514 km² di vegetazione interessati da incendi in Italia, dimostra come la minaccia sia costante, ma anche che una gestione pianificata può fare la differenza. Il problema, infatti, è spesso legato all’abbandono delle aree rurali che porta all’accumulo di biomassa e legno morto, trasformando i boschi in vere e proprie polveriere. La gestione attiva, invece, prevede interventi mirati, pulizia del sottobosco e creazione di infrastrutture che non solo rendono la foresta più resiliente al fuoco, ma ne facilitano anche la fruizione e il monitoraggio.

Tra l’altro, dal punto di vista economico – rileva PEFC – spegnere un incendio può costare fino a otto volte di più che prevenirlo. La ricerca congiunta che ha analizzato aree in 7 regioni italiane, ha mostrato una tendenza chiara: le superfici percorse dal fuoco sono mediamente più estese nei territori non certificati. Proteggere una foresta dal fuoco significa salvaguardare non solo gli alberi, ma l’intero capitale naturale che essa custodisce: la fauna, il suolo, le riserve d’acqua e, in definitiva, tutti quei servizi ecosistemici che, come abbiamo visto, sono indispensabili per il nostro benessere.

Per azioni efficaci serve una visione olistica

Proteggere una foresta dagli incendi con una gestione attiva e tutelare il lupo che ne regola le popolazioni non sono quindi azioni separate, ma due facce della stessa medaglia. La conservazione della natura, oggi, ci chiede questa visione olistica: capire che il benessere del suolo, degli alberi, degli animali e dell’uomo sono indissolubilmente legati. Il nostro futuro non dipende da un solo anello della catena, ma dalla sua intera, vibrante, ricchezza.

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