Delle mani bianche con le unghie curate riparano dei vestiti rotti, cuciono un bottone, cambiano una cerniera, riparano un jeans strappato. Con queste immagini il marchio di fast fashion Zara promuove il recupero e la rivendita di capi usati tramite la nuova piattaforma Zara Pre-owned. Passando per Zalando, Asos, Shein e H&M, negli ultimi anni sono fiorite innumerevoli piattaforme online di rivendita dell’usato sotto la spinta crescente dell’e-commerce. Secondo il Resale report 2023 di thredUP, un’azienda di rivendita di abiti usati, il mercato globale dell’usato raddoppierà entro il 2027, raggiungendo i 350 miliardi di dollari, superando anche il valore del mercato del fast fashion previsto per 184 miliardi di dollari. Uno slancio positivo verso la tanto attesa transizione sostenibile del mondo della moda.
Ma è davvero possibile riparare dei capi che il più delle volte sono di bassa, se non pessima qualità, realizzati da mani sfruttate dall’altra parte del mondo? E che impatto positivo ha davvero il sistema di rivendita dell’usato dei brand di fast fashion?
Usato per il fast fashion: una contraddizione?
Se da un lato la circolarità dei processi di rivendita implica un risparmio notevole di costi e consumi, – si stima una riduzione del 79% di CO2 rispetto ad un capo nuovo, – dall’altro necessiterebbe di una filiera di produzione volta alla riduzione della quantità, a favore della qualità. La contraddizione celata da queste nuove proposte sostenibili di usato fast fashion sta proprio nella dinamica di sovrapproduzione sottocosto che mantiene la stessa industria tessile, assicurando i veri profitti per pochi.
L’usato nasce al contrario per interrompere il ciclo di produzione intensiva recuperando il valore della durabilità dei capi.
Il rischio è quello di greenlighting: una pratica di greenwashing che cerca di oscurare i comportamenti dannosi applicati lungo la catena di produzione, evidenziando in questo caso la sola rivendita come pratica aziendale sostenibile. Secondo uno studio di Trove, la riduzione delle emissioni di CO2 generata dalla rivendita online di capi usati da parte dei marchi di fast fashion ammonta allo 0,7%. Un impatto irrilevante rispetto all’inquinamento prodotto dal settore, che produce ben il 18% delle emissioni globali di anidride carbonica.
Per un “buon usato” serve l’ecodesign
È dunque necessario parlare dell’importanza della fase di progettazione dei capi come aspetto centrale della transizione socio-ecologica del settore della moda. Ma quali criteri definiscono la durabilità di un abito? Dalla scelta delle fibre alla loro lavorazione, dallo studio del design alla sua effettiva produzione, dal riutilizzo e recupero al fine vita di un capo; ogni passaggio della filiera tessile dovrebbe contribuire a generare, oltre al minor impatto socio-ambientale possibile, una vera e propria rete di imprese innovative capaci di trasformare il settore della moda in uno spazio di ricerca e produzione circolare ed etica. Non basta, dunque, aprire piattaforme di rivendita dell’usato per compensare un intero sistema di produzione fondato sullo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse del Pianeta.
Sono 92 milioni sono le tonnellate di rifiuti tessili che vengono buttati ogni anno e solo il 20% viene riutilizzato o riciclato. La durabilità di un capo è definita principalmente dalle sue modalità di ideazione e progettazione. Oggi più che mai diviene necessario utilizzare l’ecoprogettazione per limitare, a monte della catena produttiva, la creazione di rifiuti. Entro il 31 dicembre 2024, infatti, la Commissione europea dovrà definire i criteri per l’istituzione di un sistema di responsabilità estesa del produttore nel settore tessile su base nazionale. L’obiettivo è aumentare la raccolta differenziata, il riutilizzo e il riciclaggio dei prodotti tessili nell’Unione Europea.
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L’usato che non vogliamo
Una regolamentazione del settore porterebbe a limitare anche l’esportazione di rifiuti tessili al di fuori dell’Unione, che insieme a Stati Uniti e Cina, alimentano l’enorme mercato di abiti usati nel continente africano. Quest’ultimo, nel 2019 ha importato dall’Europa oltre il 60% di abiti usati, per la maggior parte tessili di pessima qualità, che non essendo riutilizzabili o riciclabili finiscono nelle discariche. A Kantamanto nel quartiere di Accra, capitale del Ghana, c’è il più grande mercato di abiti usati dell’Africa Occidentale. Il Paese conta 31 milioni di abitanti e importa ogni settimana circa 15 milioni di abiti usati, raggiungendo una spesa di 4 milioni di dollari l’anno per lo smaltimento dei rifiuti tessili. Solo il 10% degli abiti può essere rivenduto, il restante 90% viene sversato in enormi discariche a cielo aperto.
Anche in questo caso ciò che rende un capo irrecuperabile è la pessima qualità di produzione sostenuta dal fast fashion. Spesso, infatti, il destino migliore a cui un capo low cost può aspirare è il downcylcing, ovvero un riciclo che comporta costi aggiuntivi per la trasformazione del prodotto, quasi mai mirata al mantenimento delle qualità iniziali. L’upcycling al contrario, è un vero e proprio processo di recupero e riuso volto all’aumento del valore del prodotto. Si prendono parti del materiale di scarto, si tagliano e si ri-assemblano, spesso attraverso la tecnica del patchwork. Un esempio di rigenerazione virtuosa delle fibre tessili è il progetto di Rifò, azienda pratese, che ha fatto della rigenerazione tessile la sua missione per una moda etica e di qualità. Oltre a lavorare con fibre rigenerate, realizza accessori proprio con la tecnica dell’upcycling, ottenendo per esempio dei cappelli da un paio di jeans. Questa modalità permette di non togliere valore al prodotto riciclato, limitando al minimo gli scarti di lavorazione e i consumi di risorse per la produzione.
Un ulteriore problema che la rivendita di usato fast fashion potrebbe creare è la possibilità che gli stessi colossi della moda assorbano la crescente domanda di abiti usati senza cambiare il proprio modello di produzione, generando quindi un doppio profitto su prodotti in realtà sottopagati. Inoltre, la percezione di una possibilità di rivendita facile e veloce data ai consumatori potrebbe alimentare l’acquisto compulsivo di sempre nuovi capi, ancora una volta a favore dello stesso ciclo di sovrapproduzione della moda.
Per evitare modelli di business basati sul greenwashing, promuovendo un’economia realmente circolare, dobbiamo dunque imparare ad analizzare in modo trasversale i sistemi di produzione e marketing delle imprese, supportando la richiesta di politiche trasparenti volte alla tutela della collettività.
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Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente
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