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Continuano le interviste costruttive di EconomiaCircolare.com. Dopo aver dedicato le passate riflessioni ai processi partecipativi e alle teorie democratiche messe a confronto con l’attuale, e irripetibile, era pandemica, passiamo a un altro argomento (senza dimenticare i precedenti e anzi dandogli nuova luce e nuove prospettive) che a nostro parere ben si amalgama con la circolarità, da intendere nel senso più ampio possibile. Parliamo cioè dell’ascolto, una capacità che specie di tempi va perdendosi. Se l’ascolto è davvero un’arte, Marianella Sclavi figura tra le esponenti di punta del genere. Perché all’arte di ascoltare ha dedicato più libri e più in generale tutta la sua vita ruota attorno a ciò. Di formazione sociologa, Sclavi è una scrittrice e una studiosa attiva anche nell’altrettanto difficile gestione creativa dei conflitti. Ha vissuto a New York dal 1984 al 1992, dove ha scritto due libri: “A una spanna da terra” e “La Signora va nel Bronx”, nei quali ha sperimentato e proposto una narrazione etnografica guidata da “una metodologia umoristica”. Ha insegnato Etnografia Urbana al Politecnico di Milano dal 1993 al 2008. Ha operato come consulente in diversi processi partecipativi e situazioni conflittuali e ha scritto vari libri, fra i quali “Arte di Ascoltare e Mondi Possibili” (2000 e ed successive ) e “La scuola e l’arte di ascoltare.Gli ingredienti delle scuole felici” (2015, con Gabriella Giornelli).
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Una transizione ecologica partecipata
Qual è la tua opinione rispetto alla transizione ecologica e all’economia verde presenti nel Pnrr, dove c’è anche un riferimento all’economia circolare?
Il fatto che si parli di circolarità non è sufficiente. Dove passa il circolo? Passa attraverso la società civile oppure è tutta dentro il ciclo produttivo e tecnico? Il governo Draghi nel formulare i piani del Pnrr ha avuto presente la esperienza della “Convention citoyenne sur le climat” francese, che ha segnato la consapevolezza diffusa che i problemi della partecipazione e quelli dell’ambiente sono strettamente connessi, oppure ha pensato che si può procedere ignorando questo salto di governance e di civiltà? Nell’Ottocento potevi pensare che solo nell’istituzione avevi il sapere e che fuori c’erano gli ignoranti e gli incompetenti allo sbaraglio, da un lato avevi gli esperti, i politici, e dall’altra parte il volgo, il pubblico, fondamentalmente ignorante e incapace di dare un contributo fondamentale. Oggi non è più così, tutto questo è saltato completamente.
Non solo Wikipedia e il crowdsourcing dimostrano costantemente che la società civile è ricca di saperi e competenze preziose per la diagnosi e risoluzione dei problemi, ma è ormai chiaro che non si governa senza ricorrere alla epistemologia e teoria dei sistemi complessi. E questa epistemologia e teoria stabilisce che non è possibile fare un progetto che funzioni in una società complessa se non si ricorre a questa pluralità di conoscenze, specialmente delle conoscenze locali, che per l’ambiente sono assolutamente fondamentali. In altre parole un progetto funziona se si riesce a cogliere e valorizzare l’unicità e la particolarità di ogni contesto, che non è ricostruibile in assenza di coloro che ci vivono. E tra coloro che ci vivono ci sono gli appassionati di ambiente che non di rado sanno descrivere la situazione contingente meglio di quanto facciano degli esperti negli uffici ministeriali. Poi hai il problema del monitoraggio. Come fai il monitoraggio? Di nuovo, per farlo, hai bisogno di avere l’occhio dell’abitante. Questa è l’impostazione che nel Pnrr manca. L’economia circolare è anche la sostenibilità circolare delle opere. Nessuno pretende che il governo italiano si converta alla democrazia deliberativa , ma che incominci in alcuni campi e settori a mettere insieme le competenze per farlo, questo sarebbe assolutamnte necessario. E non lo vedo.
Sulla partecipazione nei progetti del Pnrr
Dunque pensando al Pnrr, la tua idea è che la dimensione territoriale, locale, sia prioritaria rispetto alle altre (regionale, statale, etc), per svolgere dei processi partecipativi legati all’implementazione dei progetti specifici?
Sono dei piani paralleli. L’innovazione ormai si fa nel locale. Non credo a un’innovazione che parta dal centro, dal nazionale. Il coraggio di provare a cimentarsi con delle cose nuove è a livello delle amministrazioni locali. Nel fare questo, ti si presentano una serie di livelli e di problemi di coordinamento, etc, che rimandano ai livelli superiori i quali devono non impedire, ma favorire l’espandersi del dialogo e del protagonismo nella società civile. Quindi queste cose devono esser fatte insieme. Non è che puoi dire “o questo o quello”, ma sempre “e questo, e quello”. Per fare delle opere partecipate sul territorio cominci con il rendere protagoniste e partecipi tutta una serie di persone che sono già interessate al territorio o al problema di cui si sta parlando, e in più cerchi di coinvolgere tutti gli altri. Non è che una progettazione ambientale la fai semplicemente a livello tecnico. Intanto hai bisogno di una vision: una visione del rapporto tra l’uomo e la natura, generale, che deve essere precisa e vissuta dalle persone. E poi hai bisogno dell’orgoglio, della fierezza, della passione di trasformare qualcosa di abbandonato in qualcosa che può diventare un pezzo di una qualità della vita superiore. Quindi la gente partecipa se gli dai in cambio questa cosa qua: l’orgoglio di essere cittadini che danno un contributo alla convivenza sia attuale, ma specialmente a quella delle generazioni future. Ho appena scritto su questo tema una postfazione ad un libro molto bello su Roma, di Enrico Cerioni, che sostenzialmente è una camminata per Tor di Valle, l’ansa del Tevere dove volevano costruire lo stadio della Roma, progetto per fortuna saltato, ma ci ha messo otto anni .. dalla quale passeggiata nessun abitante di buon senso avrebbe individuato quel luogo come adatto a uno stadio, mentre è un posto stupendo per recuperare una fetta di agro romano dentro la città. La progettazione partecipata richiede amore, passione per l’ambiente, richiede un contesto e organizzazione capace di suscitare le emozioni positive della gente.
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Ripensare la politica e la democrazia
Pensi che il modo in cui i governi stanno rispondendo alla Pandemia possa fare dei danni dal punto di vista della partecipazione e del coinvolgimento dei cittadini? Li si stanno rendendo più passivi di prima?
In Francia hanno fatto delle Convention citoyennes anche sul tema del governo della pandemia. Si tratta di chiedere a dei campioni rappresentativi di cittadini di località di definire nelle città un quartiere, altrove un villaggio, ecc. Non cosa pensano di questo o quel provvedimento ma di approfondire le tematiche e suggerire delle tattiche e strategie per garantire la sicurezza e tenere le attività commerciali e di lavoro più aperte possibile. Si tratta di elaborare in modo partecipato i regolamenti, le regole di comportamento che poi vanno fatte rispettare. In Italia sono prevalse le raccomandazioni universali: tutti con la mascherina, distanziamento , tamponi, vaccini, ecc.. Solo da pochi giorni si sta discutendo, sull’esempio francese , di chiedere il certificato di vaccinazione a chi entra nei bar e ristoranti, per esempio, che è uno dei suggerimenti nati dalla consultazione informata dei cittadini. Sull’approccio partecipativo siamo indietro perché rimaniamo legati, compresi i 5 stelle, a una idea di partito come cinghia di trasmissisone della volontà popolare , mentre oggi abbiamo bisogno di partiti che promuovono il dialogo e attivismo della società civile. Da questo punto di vista unico passo avanti importantissimo sono stati i “Patti di collaborazione” promossi da Labsus, i quali hanno avuto successo proprio perché hanno bypassato la politica nazionale e sono stati approvati un consiglio comunale alla volta. A livello nazionale non sarebbero mai stati approvati.
Il fatto che non ci sia stato un Pnrr democratico può essere dovuto al deficit epistemologico di cui parli, ossia una profonda mancanza di comprensione, un paradigma ancora molto vecchio e in questo senso legato soltanto alla democrazia rappresentativa che impedisce di ripensare la politica?
A me sembra evidente che sia così. I cinque stelle, che erano quelli che avrebbero dovuto portare una ventata partecipativa nella politica, sono rimasti chiusi dentro la piattaforma Rousseau, che è un modo vecchissimo di intendere la politica. Le dinamiche di gruppo della democrazia deliberativa, basate su protocolli che favoriscono l’apprendimento reciproco, la moltiplicazioni delle opzioni,la co-progettazone creativa, sono assenti dalla nostra discussione politica. Di questo non c’è nulla. E il risultato è che soffriamo di un grave deficit di democrazia. La democrazia è la capacità dei cittadini e degli abitanti di mettersi in un rapporto dialogico e di imparare gli uni dagli altri, prima di tutto. Diceva Victor Hugo che “la libertà finisce dove inizia l’ignoranza”. Dobbiamo sapere che tutti noi, in un sistema complesso, abbiamo delle conoscenze limitate, che, per capire di cosa stiamo parlando, hanno bisogno delle conoscenze degli altri. Questa è la base della democrazia. Dove ci si limita a dire: ognuno ha una posizione, la discutiamo e poi la votiamo. Ma questa non è democrazia. È una democrazia rappezzata, che vale solo nelle situazioni realmente semplici, dove le scelte sono abbastanza scontate e non hanno conseguenze importanti. Se ho un problema complesso da risolvere, e la nostra società è ormai complessa, la democrazia deve essere arricchita, basata sulla capacità di dialogo e di progettazione da parte degli abitanti. Ed è proprio quello che la pubblica amministrazione ha continuamente impedito agli abitanti di esercitare questa loro possibilità, e di imparare a farlo.
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Cultura exotopica e democrazia
Possiamo anche dire, riprendendo un termine che tu prendi in prestito da Bachtin (storico e teorico russo della letteratura, ndr), che questo deficit sia dovuto anche ad un deficit culturale rispetto alla nostra capacità “exotopica” (exotopia = dialogo in cui l’altro è riconosciuto come autonomo e diverso da noi, ma non per questo incomprensibile, ndr), ossia non si insegna una cultura effettiva della comprensione della differenza e dell’alterità umana?
L’ ascolto attivo e l’ascolto proattivo sono il carburante di fondo che consente di trasformare la diversità in risorsa. Ed è una mutazione genetica della cultura, in un certo senso. Perché tu passi dall’ “io ho ragione, e tu hai torto”, al “abbiamo ragione tutti e due, cerchiamo di capire come mai” e a partire da questo, inventiamo nuove opzioni che vanno incontro alle preoccupazioni di fondo di entrambi. La nostra società non funziona se non sa trasformare il conflitto e la diversità in risorsa. Il frattale di fondo, l’ingrediente che permette questa operazione è l’ascolto attivo. Nell’ascolto attivo è già implicita la moltiplicazione delle opzioni. Parto con una posizione, poi ne arriva un’altra opposta e invece di chiudere apro: questo è già moltiplicazione delle opzioni. Mi trovo ad avere, anche se in modo paradossale, A e NON A, entrambi veri. Dopodiché devo capire come mai questo regge, e poi trovare altre opzioni, A,B, C, D, E, F, grazie a cui posso costruire un progetto che funzioni meglio per la maggior parte della gente se non per tutti. Questo è il carburante di fondo che dà energia al fatto di fare questa trasformazione. Per cui quando appare la divergenza, invece di metterti sulla difensiva, e immediatamente cercare di capire come fare a spiegare che gli altri sbagliano, cerchi di capire come mai tu non avevi capito quelle cose. Questa è la base fondamentale che vale sia a livello micro, sia a livello di gruppo, sia a livello generale. Come si ripensano i partiti in un’ottica di una democrazia che funziona così? I partiti devono assumere ( come è successo in Francia col Debat Public) che l’elaborazione dei cittadini non è partitica: il modo di elaborare i progetti della democrazia deliberativa è molto diverso da quello partitico in cui prima ti schieri e poi fai il progetto. Oppure dove il progetto è già schierato. Non si chiamano “partiti” per caso, insomma. La critica che già Albert Camus e Simone Weil facevano ai tempi, era questa: state attenti che i partiti rischiano di togliere capacità dialogica, che nasce dal confronto vero con l’altro, col “nemico”. Un confronto sulle cose, non ideologico, sul che fare e come fare e non sulle idee astratte e soporifere.
C’è una relazione intima tra il fatto di sostenere una cultura exotopica e il fatto di superare prospettive nazionaliste e autoritarie?
La logica militare prevale nel caos, quando non riesci a spiegare alla gente che il conflitto lo si può affrontare trasformandolo in un’occasione di crescita e di empowerment. Perché questa è una possibilità vera, e presente. Quando la gente si trova in mezzo al caos e non sa cosa fare ricorre a una cosa antichissima che è quella di avere qualcuno con il pugno forte che “mette tutti in riga”. Un modo di dire che spiega bene qual è la soluzione che viene in mente. Poi, però, con l’insofferenza che si ha per “le righe” si causa un ulteriore caos. Tutto questo non funziona assolutamente, anche se è un’illusione che viene in mente a molta gente. In qualsiasi situazione di cambiamento caotico viene in mente la soluzione autoritaria, purtroppo, ma è una scorciatoia che non solo non funziona ma che è tragica.
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