Che il nucleare potesse diventare materia da campagna elettorale, in fondo, ce lo si poteva aspettare; meno atteso era certamente il suo sbarco a uno dei più prestigiosi festival cinematografici al mondo.
In una Venezia che anche quest’anno ai propri accreditati chiedeva di compilare il modulo relativo alla neutralità carbonica ponendosi per il secondo anno consecutivo quest’obiettivo, il tema del cambiamento climatico sembra essersi imposto anche nella micro-bolla del festival cinematografico della città lagunare.
Se giorno 10 settembre il Lido è stato attraversato dalla Climate March, momento clou della terza edizione del Venice Climate Camp – cinque giorni di “campeggio climatico” organizzato da Rise Up 4 Climate Justice e Fridays For Future Venezia/Mestre – già dalla presentazione del programma ad attirare l’attenzione del pubblico e degli addetti era stato l’annuncio del passaggio fuori concorso del documentario “Nuclear“, scritto e diretto da Oliver Stone.
Leggi anche: Siccità: ecco perché il film di Virzì ha molto da insegnare
Più che un documentario una propaganda pro-nucleare?
Come dichiarato sulla propria pagina Facebook a luglio dallo stesso regista statunitense, questo suo ultimo lavoro avrebbe preso una decisa posizione a favore dell’impiego dell’energia atomica facendo in modo che l’opera “in un’ora e quarantacinque, scende nei dettagli, ma non scivola mai nelle argomentazioni futili rilanciate dalla folla dell’anti-nucleare“.
Una dichiarazione d’intenti così programmatica da attirarsi da subito l’altrettanto pregiudiziale simpatia del leader della Lega Matteo Salvini che a stretto giro in un tweet aveva cinguettato entusiasta di poter a breve essere “felice di vedere questo film“. Ma al di là della convenienza politica, cosa resta dopo la visione di Nuclear, passato con poca partecipazione della stampa al primo passaggio nella prestigiosa Sala Darsena alle 22 di giorno 8 settembre?
Un lavoro in linea col propagandistico The Putin Interview, fluviale intervista di 4 ore girata nel 2017 o, come si poteva leggere nella motivazione del Premio Fondazione Mimmo Rotella assegnatogli il 9 settembre, dopo la sua visione dobbiamo ringraziare Oliver Stone “per aver aggiunto alla sua già ricca filmografia un altro tassello dell’intenso connubio tra ricerca artistica e osservazione della realtà“? Nuclear è basato sul libro di Joshua Goldstein A Bright Future, saggio che ha rapito Stone, come dichiarato da lui stesso nella conferenza stampa successiva, perché è un “libro tecnico e molto positivo, propone soluzioni e illustra gli esempi virtuosi dei Paesi che hanno adottato l’energia atomica“.
Il lungometraggio si apre con la citazione della scienziata polacca Marie Curie, “Nella vita niente va temuto ma soltanto compreso“, a indicare senza mezzi termini la funzione divulgativa che l’opera si propone. Un’invocazione all’ascolto attivo che però viene in un certo senso rinnegata dalla presenza continua della voce narrante di Stone che non lascerà mai un attimo lo spettatore: tra doverosa esposizione, interviste e sopralluoghi nelle centrali la strabordante presenza del filmmaker denota la volontà di mettere la propria iconicità a tutela dell’energia nucleare qui raccontata. Ecco allora che la fascinazione dell’autore di Snowden per il controcanto della Storia esplode con la tesi che “ci hanno insegnato ad avere paura del nucleare” (esatto, senza specificare quale sia stato il soggetto di questa imposizione).
Leggi anche: “Il nucleare? Solo un’arma di distrazione”. Intervista a Giuseppe Onufrio di Greenpeace
La paura del nucleare? Colpa dei Simpson!
Qui Nuclear espone la cronologia degli avvenimenti che hanno portato il mondo a questo irrazionale timore, tesi rilanciata e rafforzata nella sopraccitata conferenza stampa di giorno 9: “La grande confusione è tra energia nucleare e le armi nucleari“. Il lungometraggio in questi venti minuti di inquadramento temporale sembra toccare tutti i nervi scoperti di quest’energia: il Progetto Manhattan, Robert Oppenheimer, Hiroshima e Nagasaki, la crisi dei missili di Cuba, l’incidente di Three Miles Island, la corsa alle armi, la nascita dell’Earth Day – incredibilmente ascritta alla lobby delle fossili che l’hanno finanziata! – e infine i due disastri maggiori, Chernobyl e Fukushima.
Se della centrale ucraina Stone si limita a riportare ciò che da decenni è pacificamente chiaro dell’incidente, per quanto riguarda Fukushima rilancia la teoria degli zero morti e della sicurezza comunque dimostrata nonostante la scossa di terremoto più violenta dell’intera storia del Giappone. La parte più interessante di questa disamina è piuttosto il bel lavoro di montaggio fatto su film, serie e pubblicità televisive degli anni 50/60 che spettacolarizzavano le paure indubbiamente avvertite dalla popolazione. Da Godzilla al Dottor Stranamore fino ad arrivare alla serie tv HBO Chernobyl e al film Pandora – che per il cineasta, col suo iper-catastrofismo immaginativo è stato in gran parte responsabile dell’abbandono del nucleare da parte della Corea del Sud – il documentario prende come segno dell’immotivata angoscia delle persone la rappresentazione del pesce con tre occhi di una celebre puntata dei Simpsons.
La liquidazione definitiva delle opinioni anti-nucleariste avviene subito dopo quando il documentario riporta, senza nessuna fonte, che “gran parte degli ambientalisti inizialmente erano favorevoli al nucleare”. Poi, fuorviati dalla mistificazione collettiva, essi hanno cominciato ad attaccarlo preferendo concentrarsi sulle energie rinnovabili, anch’esse comunque finanziati dalle industrie petrolifere che si sentivano meno minacciati da quest’ultime piuttosto che dal potenzialmente rivoluzionario nucleare.
Ecco che quando passa ai vantaggi di questa energia su eolico, solare e biomasse la voce di Stone magnifica la sua maggiore potenza, la superiore economia di scala che genera e il minor consumo di suolo che richiede risolvendo le sue due maggiori criticità in pochi passaggi. Le scorie infatti, per il documentario, sono apparentabili a normali rifiuti industriali che possono essere smaltiti senza problemi e per quanto riguarda i lunghi tempi del ciclo nucleare, beh, i reattori di uso domestico – che anche nel film comunque appaiono allo stato di prototipo quale ancora sono – necessitano di due anni invece dei dieci delle centrali.
Di fronte all’assenza di un qualsiasi contraddittorio l’unica voce che esce da questo reticolato di informazioni apodittiche è quella dell’esperta di un laboratorio dell’Idaho: “Di fronte al cambiamento climatico in atto prima bisognerebbe rivolgersi al solare e all’eolico e poi dopo dieci anni, quando l’emergenza si è stabilizzata, si dovrebbe puntare al nucleare”.
Leggi anche: La tassonomia europea, l’influenza della guerra e le prospettive per il gas e il nucleare
© Riproduzione riservata