mercoledì, Novembre 5, 2025

Studio: il greenwashing (purtroppo) funziona anche sugli esperti

La ricerca sul greenwashing condotta su 465 responsabili degli acquisti europei e pubblicata su Scientific Reports ha verificato che “non esiste nessuna differenza statisticamente significativa tra prodotti certificati e prodotti con false dichiarazioni ecologiche”

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, redattore di EconomiaCircolare.com e socio della cooperativa Editrice Circolare

Se avevate dubbi, oggi è certo, è scientificamente provato: il greenwashing funziona. Anche quando a leggere le etichette e le affermazioni ambientali sono degli esperti. Lo ha verificato uno studio condotto due ricercatori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia che ha indagato la vulnerabilità dei responsabili acquisti (purchasing managers) al fenomeno del greenwashing, l’uso di dichiarazioni ambientali ingannevoli.

Lo studio sperimentale, utilizzando tre scenari d’acquisto simulati (laptop, guanti di sicurezza, carta da ufficio), ha analizzato i comportamenti di 465 manager europei. I risultati non confortano (se non le imprese che provano a fare le furbe): non risulta “nessuna differenza statisticamente significativa nella willingness to pay (WTP, disponibilità a pagare di più) tra prodotti certificati e prodotti con false dichiarazioni ecologiche”. Siamo insomma di fronte all’incapacità “anche dei professionisti esperti di distinguere tra sostenibilità autentica e affermazioni ingannevoli”. Fatto che, riflettono gli autori, “solleva dubbi sulla credibilità degli attuali sistemi di certificazione e sulla loro efficacia nelle decisioni d’acquisto sostenibili”.

greenwashing
Foto: Canva

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Greenwashing: un rischio sistemico 

La ricerca (“An experimental study on the susceptibility of purchasing managers to greenwashing”, Scientific Reports, 2025) affronta il greenwashing come uno degli ostacoli principali alla credibilità delle pratiche sostenibili. Le affermazioni ambientali fuorvianti minano la fiducia, generano opacità nelle catene di fornitura e ostacolano gli obiettivi di economia circolare. E colma una lacuna nella letteratura, finora focalizzata sui consumatori, concentrandosi invece su decisori professionali come i responsabili degli acquisti. “Nonostante la loro esperienza, questi professionisti risultano altamente vulnerabili alle affermazioni ambientali ingannevoli, soprattutto in contesti con informazioni sovrabbondanti o certificazioni poco note”.

 L’articolo evidenzia infatti – ma lo sosteneva già la Commissione Europea lavorando alla direttiva Green Claims – come l’uso eccessivo e non regolamentato di eco-labels (oltre 400 nel mondo) comprometta l’efficacia delle certificazioni nel distinguere prodotti realmente sostenibili da quelli greenwashed.

Metodologia

Lo studio ha coinvolto tre categorie di prodotto: laptop, guanti di sicurezza e carta da ufficio. E ha coinvolto 465 responsabili degli acquisti provenienti da Belgio, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia. Alto il loro livello di istruzione (46% post-laurea), consolidata la loro esperienza professionale (un terzo con oltre 10 anni, prevalentemente in organizzazioni di grandi dimensioni). Questi purchasing managers sono stati divisi in due gruppi: gruppo A (232 partecipanti) esposti principalmente a prodotti greenwashed; gruppo B (233 partecipanti) esposti principalmente a prodotti certificati. I ricercatori hanno proceduto per livelli crescenti di sofisticazione: dal greenwashing “blando” alle certificazioni più “stringenti”, e a ciascun partecipante è stato chiesto quanto fosse disposto a pagare di più (WTP) per ciascun prodotto, rispetto a una media di mercato. Le differenze di WTP tra prodotti greenwashed e certificati sono state testate con test statistici.

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Risultati: l’esperienza non protegge dal greenwashing

Come accennato, i risultati mostrano che non vi è una differenza significativa nella WTP tra prodotti greenwashed e certificati. Anzi, in alcuni casi, i manager hanno attribuito valore economico maggiore a prodotti con false affermazioni ambientali.

Nel dettaglio:

Laptop: WTP media leggermente più alta per il prodotto greenwashed (+1,4%), ma non significativa;

Guanti: lieve preferenza per il prodotto certificato, ma differenza trascurabile;

Carta: WTP più alta per il prodotto greenwashed, con differenza “quasi significativa”.

Concludono i due ricercatori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia: ”Le dichiarazioni ambientali ingannevoli possono essere altrettanto persuasive delle credenziali di sostenibilità certificate, sollevando preoccupazioni sull’efficacia degli attuali sistemi di etichettatura ecologica e sulla capacità dei professionisti di orientarsi nel marketing della sostenibilità”.

greenwashing guida moda UK

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Come sfuggire al greenwashing? Le proposte

Come ci mettiamo al riparo dal greenwashing? I ricercatori suggeriscono azioni multilivello per affrontare la vulnerabilità dei responsabili acquisti al greenwashing:

  • Formazione mirata: programmi aziendali di alfabetizzazione alla sostenibilità, con focus sulle tecniche di marketing ingannevoli e sull’analisi critica delle certificazioni;
  • Linee guida interne: strutturazione dei processi di procurement che impongano la verifica delle affermazioni ambientali tramite terze parti;
  • Regolamentazione pubblica: armonizzazione e semplificazione degli eco-label, ispirandosi al modello delle normative sanitarie europee. Si cita la proposta della Green Claims Directive come passo chiave;
  • Tecnologie verificabili: promozione di strumenti come il blockchain per la tracciabilità ambientale o QR code con dati ambientali certificati.

L’obiettivo è ristabilire la fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità e favorire decisioni basate su dati verificabili, trasparenti e comparabili.  

 

Aggiornamento del 2 maggio 2025

 

Tra le soluzioni messe in campo per arginare il fenomeno dilagante del greenwashing, ricordiamo anche l’attività scientifica del Centro comune di ricerca europeo (JRC).

“Sono necessari metodi chiari che permettano alle aziende di dimostrare l’impatto o i benefici ambientali dei loro prodotti o delle loro organizzazioni”, spiega il JRC: “I nostri ricercatori hanno sviluppato il metodo dell’impronta ambientale”. Una metodologia basata sull’analisi LCA e che “consente di contabilizzare gli impatti dei prodotti lungo il loro intero ciclo di vita, misurando tutte le emissioni e le risorse consumate a partire dall’estrazione delle materie prime, passando per la produzione e l’utilizzo, fino alla gestione finale dei rifiuti”.

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