Mettere insieme i benefici della cooperazione e della competizione per migliorare i business legati all’economia circolare: la “coopetizione” è una strategia in cui le aziende collaborano, pur essendo concorrenti. Questo, semplicemente, perché i vantaggi della collaborazione sono superiori a quelli ottenuti surclassando i competitor: la coesione tra le aziende diventa un asset competitivo di inestimabile valore, quando aziende private collaborano tra loro e attivano un circolo virtuoso, capace di generare benefici reciproci. Oltre, naturalmente, a una visione etica che vede il mercato come uno spazio in cui coesistono più soggetti e non un campo di battaglia.
Dei limiti del mercato e del capitalismo si parla spesso e i danni sono sotto gli occhi di tutti, sia a livello ambientale, sia nei diritti: ma è innegabile che un mercato “sano” e non spregiudicato abbia una naturale forza propulsiva verso l’innovazione, il miglioramento e l’efficienza. Al contrario, se le aziende che operano nell’economia circolare non riescono a essere sostenibili sul mercato, non riescono neppure a sortire effetti positivi sull’ambiente, mentre un’azienda di successo avrà la possibilità di incidere realmente. Insomma, c’è bisogno di una quadra e il tema della coopetizione nell’economia circolare è guardato con crescente interesse dagli esperti.
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Coopetizione, quali benefici: lo studio danese
È quello che ha spinto un team di ricercatori provenienti da diverse università danesi ad approfondire la tematica in uno studio intitolato Competition or coopetition? Collaboration strategies for the circular economy e pubblicato sulla rivista Journal of Cleaner Production. La tesi di fondo è che la collaborazione intersettoriale tra aziende “può portare benefici reciproci, inclusi innovazione tecnologica e di prodotto, condivisione della conoscenza e miglioramento delle performance aziendali”, scrivono gli autori. Al contrario “non abbiamo osservato i rischi normalmente associati alla competizione, come l’aumento della rivalità, la fuga di conoscenze e la minore soddisfazione del cliente”.
Non solo: “la coopetizione può favorire una ‘gara al miglioramento’ (race to the top, in inglese), in cui le aziende si impegnano collettivamente per standard circolari più elevati e soluzioni innovative, anziché competere unicamente su costi o quote di mercato”. Infatti, “le aziende coinvolte in collaborazioni strategiche hanno scoperto di poter offrire opzioni migliori ai propri clienti e soddisfare bisogni differenti adottando un approccio coopetitivo per soluzioni circolari”, evidenziano gli studiosi. Per giungere a queste conclusioni i ricercatori hanno esaminato 47 casi studio aziendali di imprese con sede in Danimarca.
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Le principali strategie di collaborazione nell’economia circolare
Ma cosa ha spinto queste aziende a collaborare? Sono sostanzialmente tre i motivi dietro la coopetizione: “aumentare la quota di mercato, garantendo compatibilità e interoperabilità, condividere rischi e costi, e migliorare l’efficienza nell’uso delle risorse integrando risorse supplementari”. Analizzando le iniziative aziendali e le pratiche collaborative, lo studio danese ha identificato quattro modelli di collaborazione: prevenzione dei rifiuti e riciclo, innovazione di prodotto e logistica di ritorno, collaborazione per modelli di business circolari e collaborazione strategica di ecosistema.
La coopetizione vera e propria, secondo gli autori, entra in campo nel quarto modello. Lo studio fatto sulle aziende danesi ha evidenziato un’altra particolarità: le piccole imprese sono più aperte alla collaborazione, spesso per necessità. Tuttavia, “le piccole aziende con economia circolare come core business – specialmente nella produzione – sono meno propense a collaborare con i concorrenti, probabilmente a causa di preoccupazioni competitive. Al contrario, le aziende di servizi sono più aperte alla coopetizione”, hanno notato i ricercatori.
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I settori in cui la coopetizione è più comune
La coopetizione è più comune, inoltre, in particolari settori: turismo, eventi e conferenze, consulenza. Nel turismo, ad esempio, le imprese “si concentrano su come la natura e la cultura possano essere preservate e sviluppate all’interno della destinazione condivisa. In questa collaborazione – spiegano i ricercatori – la destinazione fisica diventa una risorsa di cui sono responsabili congiuntamente, cosa che non sarebbe possibile per le singole organizzazioni da sole”. La coopetizione, dunque, consente da un lato di aumentare le quote di mercato, dall’altro migliora l’efficienza nell’uso delle risorse.
Nel caso di eventi e conferenze, i ricercatori hanno citato il caso dei principali centri congressi danesi che si alleano per scoraggiare pratiche lineari (carpet usa-e-getta, gadget, catering eccessivo) e mettere in atto soluzioni circolari: “Ciò significa che le aziende, attraverso la coopetizione, possono lavorare per offrire ai loro clienti diverse tipologie di prodotti a minor consumo di risorse. In questo caso, il bene comune condiviso è la volontà e il desiderio di definire uno standard di settore diverso”, ad esempio utilizzare meno prodotti monouso e carne nei catering, evitando una corsa al ribasso sui prezzi e aumentando la quota di mercato circolare”.
Infine, nel settore della consulenza è comune per società rivali co-progettare strumenti comuni per la valutazione della circolarità, puntando a creare standard interoperabili. In tutti questi casi, le aziende riconoscono un bene comune condiviso (un “common”) che nessuna può gestire da sola e che rischia di degradarsi se non si agisce collettivamente: “Questi settori collaborano per mantenere o sviluppare risorse condivise: natura e cultura nel turismo, domanda dei clienti negli eventi, e strumenti/metodi nella consulenza”, spiegano gli autori.
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Le aziende che ostacolano la coopetizione: le pratiche anti-commons
Non tutte le aziende, però, scelgono la coesione. Lo studio mette in guardia contro le pratiche anti-commons, dove alcune imprese, pur dichiarandosi “circolari”, mettono in atto soluzioni che ostacolano l’accesso ad altri delle risorse, danneggiando un ecosistema che vuole essere davvero sostenibile. Ad esempio, soluzioni proprietarie che impediscono ad altri di competere, produzione di materiali ibridi circolari al primo utilizzo ma non riciclabili nei cicli successivi (i ricercatori citano il caso di materiali riciclati uniti con colle e cemento). Infine, alcune imprese impongono ai fornitori contenitori riutilizzabili non compatibili con altri sistemi e creano vincoli, costi e sprechi, impedendo la circolazione dei contenitori tra attori diversi.
Al contrario gli autori promuovono la visione delle risorse come commons condivisi: “Affinché l’economia circolare si diffonda ampiamente, gli attori economici non devono ostacolarsi a vicenda, poiché le dipendenze nei flussi circolari di risorse sono maggiori rispetto a un mercato di risorse vergini”, sostengono. Perciò “si incoraggiano i manager a costruire attivamente partnership (potenzialmente anche con concorrenti) per identificare e gestire risorse condivise, abilitando una trasformazione più ampia dell’ecosistema. Identificare i commons e i partner di collaborazione – precisano i ricercatori danesi – è fondamentale per uscire dal modello di produzione e consumo lineare che le singole aziende non possono cambiare da sole”.
Gli anti-commons, invece, possono costituire una barriera alla coopetizione, poiché proprietà o controllo sulle risorse possono impedire alle imprese di impegnarsi in scambi reciprocamente vantaggiosi. Oltre alla collaborazione, dunque, condivisione è l’altro pilastro alla base della coopetizione. Nell’economia circolare questo dovrebbe essere un concetto dato per scontato: ma il greenwashing si annida ovunque e in tutte le forme.
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