mercoledì, Novembre 5, 2025

Trump autorizza il deep sea mining, per Greenpeace USA è un attacco all’ONU

Dando seguito alla richiesta dell’azienda The Metals Company, il presidente statunitense Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per avviare l’estrazione mineraria dai fondali marini. Arlo Hemphill, capo progetto di Greenpeace Usa, ha dichiarato che la scelta del governo è “un insulto al multilateralismo”

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista glocal, ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane per poi specializzarsi su ambiente, energia ed economia circolare. Redattore di EconomiaCircolare.com. Per l'associazione A Sud cura l'Osservatorio Eni

Era solo questione di tempo, prima che Donald Trump si cimentasse col deep sea mining. L’ok statunitense all’estrazione mineraria dai fondali marini, la contestata pratica che intende ottenere dagli abissi le materie prime critiche necessarie per il futuro prossimo del pianeta, è arrivato con il solito ordine esecutivo dopo le pressioni aziendali di un settore, quello minerario, che sta provando a livello globale a forzare il dibattito in corso all’ISA, l’International Seabed Authority, cioè l’autorità internazionale sui fondali marini, nata da un’iniziativa dell’ONU, che da anni sta provando a redigere un regolamento a livello globale. 

Entro il 2025 l’ISA dovrebbe emanare un regolamento sullo sfruttamento delle risorse minerarie presenti nei fondali oceanici oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali, considerati patrimonio dell’umanità. Una discussione complessa, che va avanti dal 1994, e che riguarda uno degli ecosistemi più fragili, complessi e sconosciuti del pianeta. 

Neppure un mese fa avevamo scritto di come la prova di forza di The Metals Company, l’azienda canadese che aveva comunicato che richiederà un permesso di estrazione in acque profonde in base alle normative nazionali degli Stati Uniti risalenti agli anni Ottanta, era stata respinta dalla 30esima sessione dell’ISA in corso a Kingston, in Giamaica, anche con parole inusualmente dirette.

Lo scorso 24 aprile, come è prassi dell’amministrazione statunitense retta da Trump, è arrivata invece la clamorosa accelerazione che rischia di essere un colpo mortale al multilateralismo ambientale. E che però, va detto, non sorprende. Uno dei motti della campagna elettorale che ha portato alla vittoria elettorale di Trump, infatti, era “drill, baby, drill”. Ed estrarre a più non posso è l’obiettivo che, in barba a ogni impatto ambientale e a ogni conseguenza climatica, è ciò che gli USA intendono fare.

Leggi anche: Respinta la prova di forza sul deep sea mining. Greenpeace: “Il multilateralismo resiste”

Cosa prevede l’ordine esecutivo USA sul deep sea mining

Leggere gli ordini esecutivi della Casa Bianca ai tempi di Trump è molto istruttivo. Non solo perché sono la modalità normativa preferita dall’ex imprenditore statunitense – immediati e accentratori come la sua figura – ma anche perché sono un mix di propaganda e faciloneria a cui ormai abbiamo imparato ad abituarci. E, soprattutto, considerano gli Stati Uniti come un “mondo a parte”, dove non valgono le regole internazionali, le strategie cooperative e gli interessi globali: dunque anche nell’ordine esecutivo non c’è alcun riferimento all’ISA né tantomeno alle Nazioni Unite.

L’ordine esecutivo del 24 aprile 2025, firmato personalmente da Donald Trump e intitolato “Unleashing America’s offshore critical minerals and resources”, ribadisce la sete statunitense dei cosiddetti noduli polimetallici, contenuti nei fondali marini, e più in generale di ciò che gli abissi oceanici possono contenere, vale a dire minerali e metalli fondamentali come nichel, cobalto, rame, manganese, titanio e terre rare.

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Una giovane pinna (Pinna nobilis) nei pressi di un relitto su fondali bassi, ricoperti da una prateria sottomarina.  
Foto – Marco Colombo/Triton

Nella parte relativa allo sfondo si legge che gli USA devono “agire immediatamente per accelerare lo sviluppo responsabile delle risorse minerarie dei fondali marini, quantificare la dotazione della nazione di minerali dei fondali marini, rinvigorire la leadership americana nelle tecnologie di estrazione e lavorazione associate e garantire catene di approvvigionamento sicure per i nostri settori della difesa, delle infrastrutture e dell’energia”.

Seppur non esplicitato, come abbiamo già raccontato, le mire di The Metals Company sono rivolte alla zona di Clarion-Clipperton, una vasta area dell’oceano Pacifico compresa tra il Messico centrale e le Hawaii. E che l’atto sia un favore a The Metals Company lo dimostra il fatto che il riferimento normativo al quale gli USA si appigliano è una vecchia norma del 1986, il Deep Seabed Hard Mineral Resources Act

Si prevede poi “un piano per mappare le aree prioritarie dei fondali marini”, dando priorità al continente americano. Si promette inoltre un generico impegno verso  “i principali partner e alleati per offrire sostegno all’esplorazione, all’estrazione, alla lavorazione e al monitoraggio ambientale delle risorse minerali in aree all’interno delle giurisdizioni nazionali di tali partner e alleati, anche cercando opportunità di collaborazione scientifica e di sviluppo commerciale per le società statunitensi e sviluppando un elenco prioritario di Paesi”.

Insomma: nulla di trascendentale – non sono indicate ad esempio le risorse stanziate né una definizione precisa dei compiti e delle prerogative – che però indicano un’attenzione da parte degli Usa al deep sea mining che potrebbe diventare, alla maniera del Gas Naturale Liquefatto che negli Stati Uniti si ottiene con la devastante tecnica del fracking, la prossima “moneta di scambio” di Donald Trump.

Leggi anche: Riparte il confronto per un regolamento sul deep sea mining entro il 2025

“Un’azione unilaterale che mina la cooperazione”

Molto attenta al tema del deep sea mining è Greenpeace, una delle più note e storiche ong ambientali. Se in Italia Greenpeace promuove da tempo una moratoria a livello globale c’era molto attesa di un commento da parte delle sede statunitense. Commento che è arrivato a poche ore di distanza dall’ordine esecutivo di Trump, segno che la decisione non ha sorpreso l’organizzazione ambientale.

deep sea mining greenpeace
Copyright: © Marten van Dijl / Greenpeace

“Questa azione unilaterale da parte del governo degli Stati Uniti mina fondamentalmente la cooperazione multilaterale e le Nazioni Unite – scrive Greenpeace Usa – The Metals Company,  una società mineraria in acque profonde, ha recentemente dichiarato la sua intenzione di lavorare con l’amministrazione Trump al di fuori del quadro normativo stabilito dalle Nazioni Unite per cercare di iniziare l’estrazione mineraria nella zona di Clarion Clipperton nel Pacifico – una regione che si trova al di fuori della giurisdizione degli Stati Uniti. Questo è stato accolto con un rapido e forte rimprovero internazionale”.

Arlo Hemphill, capo progetto di Greenpeace Usa sul deep sea mining, ha dichiarato che la scelta dell’amministrazione statunitense è “un insulto al multilateralismo e uno schiaffo in faccia a tutti i Paesi e a milioni di persone in tutto il mondo che si oppongono a questa pericolosa industria”. Tuttavia è la stessa ong a ricordare poco dopo che quest’ordine esecutivo non costituisce certamente l’inizio del deep sea mining. “Ovunque i governi hanno cercato di iniziare l’estrazione mineraria in acque profonde, hanno fallito. Questo non sarà diverso” ammonisce Greenpeace Usa.

Da parte propria The Metals Company ha affermato che intende presentare i permessi per l’estrazione nelle acque del Pacifico entro il secondo trimestre di quest’anno. L’azienda canadese potrà avvalersi così dell’ordine esecutivo di Donald Trump. Mentre resta da capire se questa accelerazione spingerà i governi presenti alle discussioni dell’autorità internazionale sui fondali marini a dotarsi prima possibile del tanto atteso “codice minerario”, che dovrebbe definire le regole internazionali. Regole alle quali poi bisognerà capire se gli Usa vorranno adeguarsi o se, invece, come è avvenuto con le Cop del clima, preferiranno ignorare. Sempre, ben inteso, che il secondo e sulfureo (è proprio il caso di dirlo) mandato di Donald Trump arrivi a termine. All’orizzonte, infatti, si stagliano nubi minacciose per l’arrogante presidente statunitense, tra la guerra commerciale già persa con la Cina, la guerra in Ucraina che si protrae ancora e i continui scossoni finanziari.

Leggi anche: Se le guerre e le tensioni geopolitiche seguono la via delle terre rare

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