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domenica, Ottobre 6, 2024

L’Italia punta al sovranismo delle estrazioni in mare? Musumeci: “Se compatibile coi fondali”

Si fa accesa la ricerca delle materie prime critiche. Dopo il decreto legge sulle estrazioni minerarie nel sottosuolo il governo punta sul mare. Con una legge quadro in arrivo sulla blue economy. Per Greenpeace “l’avvio delle attività in un bacino semichiuso come il Mediterraneo potrebbe avere effetti catastrofici"

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

Qual è la posizione dell’Italia sul deep sea mining (l’estrazione di minerali e metalli dal mare)? “Favorevole, se compatibile coi fondali marini”. A dirlo è Nello Musumeci, ministro per le Politiche del mare ed esponente di spicco del governo Meloni. La dichiarazione è stata rilasciata ai nostri microfoni a fine aprile durante la convention di Fratelli d’Italia a Pescara. Il ministro ha poi spiegato che il deep sea mining “rientra nella legge quadro sulla dimensione subacquea. In Asia questo tipo di lavoro produce enorme danno perché viene prodotto senza la sufficiente responsabilità. Invece in Italia – ha aggiunto Musumeci – crediamo di poter utilizzare i nostri minerali senza compromettere l’equilibrio del mare e dell’ambiente“.

Si tratta di una presa di posizione importante. È noto che il governo Meloni spinge da tempo per un ritorno delle estrazioni minerarie. Entro questo mese il ministero dell’Ambiente e il ministero delle Imprese e del Made in Italy porteranno al Consiglio dei Ministri un decreto legge che intende disciplinare e incentivare le estrazioni minerarie nel sottosuolo. A partire, come suggerito da enti pubblici come ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione Ambientale), o dalla ripresa delle vecchie miniere – quelle cioè che hanno caratterizzato la prima parte del Novecento, dalle miniere di zolfo in Sicilia a quelle di piombo, argento e zinco in Sardegna – o da nuove ricerche su zone promettenti, come i vulcani sabatini, vicino a Roma, che potrebbero contenere notevoli quantità di litio, o Punta Corna, in Piemonte, che registra elevate presenze di cobalto e nickel.

Sul mare, però, la questione è più complessa. Principalmente perché, banalmente, il mare in teoria è di tutti. E dunque ogni attività che si intende realizzare su di esso, specie se prevede un’intensa attività industriale come l’estrazione di minerali e metalli dai fondali marini, potenzialmente riguarda più Stati. Ma intanto, mentre la regolamentazione del deep sea mining è ancora in corso (ci torneremo tra poco), non sarebbe possibile per l’Italia provare a legiferare sulle acque territoriali, cioè quella porzione di mare adiacente alla costa degli Stati e su cui il diritto internazionale prevede una sovranità territoriale che è pressoché analoga rispetto alla terraferma?

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 Le materie prime critiche? In terra, in mare e nello spazio

Delle materie prime critiche, cioè minerali e i metalli necessari per la transizione ecologica e digitale (litio, cobalto e terre rare sono gli elementi più noti), su questo giornale abbiamo scritto spesso. E spesso ci siamo ritrovati a dover ripetere concetti già noti da anni: l’intera filiera in mano alla Cina, i tentativi europei di una maggiore indipendenza, la necessità di rafforzare il ricorso all’urban mining (le miniere urbane, cioè fare affidamento sul riciclo e sull’economia circolare). Argomenti che finalmente sono usciti dalla nicchia e sono diventati mainstream. Li ha fatti propri anche il governo Meloni che alla già citata convention di Pescara ha dedicato un convegno ad hoc, intitolato Sovranità hi-tech, autonomia strategica e materie prime: costruire una competitività europea. Il protagonista dell’incontro è stato il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, certamente l’esponente di governo che più spinge per il ritorno delle estrazioni minerarie. In terra, in mare e anche nello spazio. A lui abbiamo chiesto qualche aggiornamento sui provvedimenti del governo.

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“Nel decreto legge che uscirà a breve sulle materie prime critiche ci sarà l’attuazione di quello che è già previsto nel regolamento europeo, il Critical Raw Materials Act, calandolo nella realtà italiana – ha detto Urso – E nel contempo stiamo preparando una legge quadro sulla blue economy e una legge quadro sulla space economy. Sono leggi già previste nella manovra economica approvata a dicembre, lì ci sono i fondi per i primi due anni, cioè 320 milioni di euro. La legge sulla blue economy riguarderà tutte quelle imprese che lavorano dal mare e con il mare, e certamente anche l’estrazione dal mare di quello che è possibile realizzare, così come la cantieristica, la nautica, la logistica e quant’altro. La legge sulla space economy consentirà invece all’Italia di essere una delle grandi potenze nella colonizzazione dello spazio. Queste due leggi quadro verranno portate in consiglio dei ministri, con gli altri ministeri competenti, entro l’estate“.

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Il ruolo dell’ISA e la doppia posizione dell’Italia

La posizione di Musumeci e Urso sul deep sea mining è inedita nella sua netta formulazione. Fino a poco tempo, infatti, il governo aveva mantenuto un atteggiamento ambiguo, consapevole che il tema è particolarmente spinoso. Poi, a settembre 2023, intervenendo al Forum Risorsa Mare di Trieste, la premier Giorgia Meloni aveva segnato il primo cambio di passo. “Una delle tante sfide che ci attendono è la corsa al mondo subacqueo e alle risorse geologiche dei fondali, un dominio nuovo nel quale l’Italia intende giocare un ruolo di primo piano” disse in quell’occasione la presidente del Consiglio. Pur senza nominarla esplicitamente, dunque, si intravedeva una prima parziale apertura all’estrazione mineraria dai fondali marini.

D’altra parte si accennava prima che i tentativi italiani devono fare i conti con la discussione in atto sul deep sea mining a livello internazionale. Dal 1994 l’autorità preposta ad affrontare il tema è l’ISA (International Seabed Authority), un organo indipendente istituito ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (UNCLOS).

L’ente internazionale, che ha sede a Kingston (Giamaica), ha lo scopo di coordinare e controllare tutte le attività connesse ai minerali presenti nei fondali marini oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali, considerati patrimonio dell’umanità. Per questo dal 2011 l’ISA è impegnata in un complesso negoziato per adottare un regolamento globale. Si tratta di una delle questioni più cruciali per il futuro del pianeta, specie se si considera che mari e oceani occupano il 71% della Terra, corrispondente a circa 362 milioni di chilometri quadrati della superficie totale del nostro pianeta, ma solo una piccola frazione dei fondali marini, appena il 25%, è stata mappata mediante osservazioni e misurazioni dirette.

È quel che riporta il Consiglio Nazionale delle Ricerche, che recentemente ha fondato un gruppo di lavoro dedicato esclusivamente ai fondali marini. “Dato che l’oceano rimane in gran parte sconosciuto – scrive il CNR – gli scienziati e la società civile hanno chiesto una moratoria su alcune di queste attività per consentire alla comunità internazionale di raggiungere una comprensione scientifica completa delle profondità marine prima che lo sfruttamento dei suoi fondali raggiunga livelli simili a quelli del suolo e sottosuolo terrestre. Infatti, man mano che cresce la capacità di industrializzare gli oceani, gli ecosistemi dei fondali marini si trovano ad affrontare pressioni crescenti e cumulative da parte delle attività umane che si sommano agli effetti del cambiamento climatico, dell’acidificazione degli oceani, dell’inquinamento da plastiche, dell’interruzione della connettività ecologica dovuta alla presenza e attività di infrastrutture offshore e al verificarsi di disastri naturali come eruzioni e frane sottomarine”.

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Victor, a Greenpeace International activist from Fiji displays a banner in front of the Maersk Launcher, a ship chartered by DeepGreen, during a protest against deep sea mining in the Pacific, April 5, 2021. Marten Van Dijl/Greenpeace/Handout via REUTERS

Sul deep sea mining, perciò, il confronto all’ISA resta aperto. Una delle voci protagoniste del dibattito è Greenpeace, la storica ong ambientalista, che da tempo denuncia i rischi di “una nuova corsa all’oro che minaccia mari e oceani”. Tra clamorose iniziative di protestapetizioni online e report dettagliati. “L’ISA ha la possibilità di fare la storia e fermare sul nascere un nuovo pericolo per i mari del pianeta come il deep sea mining (DSM)” dice Valentina Di Miccoli, campaigner Mare di Greenpeace Italia. “Numerose nazioni, scienziati, aziende (automobilistiche e elettronica) rappresentanti della società civile e il settore della pesca da tempo chiedono a gran voce una moratoria o pausa precauzionale per le estrazioni negli abissi: questo tema sarà parte dell’agenda durante la prossima riunione dell’ISA in programma il prossimo luglio” .

Un appuntamento al quale il governo appare particolarmente interessato. Anche perché il nostro Paese si trova in una posizione estremamente rilevante. L’Italia sta nel gruppo A dell’ISA, insieme a Cina, Giappone e Russia, all’interno del Consiglio che dovrà poi varare il regolamento, che all’ISA viene definito “codice per l’estrazione dei minerali”. Se nel frattempo, come affermato dai ministri Urso e Musumeci, l’Italia sta preparando una legge quadro per consentire le estrazioni minerarie nelle acque territoriali, ciò potrebbe influire sulla posizione da assumere in merito alle acque internazionali?

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Lo strappo della Norvegia 

L’Italia non è però l’unico Paese che, mentre è in discussione all’ISA il regolamento sul deep sea mining, tenta di fare un passo in avanti, legiferando sulle estrazioni minerarie nelle acque territoriali. Lo scorso 9 gennaio il Parlamento norvegese, su proposta del governo, ha infatti votato per consentire l’esplorazione dei fondali che ricadono sotto la giurisdizione nazionale. Esplorazione però non vuol dire automaticamente estrazione: dovranno essere sia il Parlamento che il Governo della Norvegia ad approvare eventuali piani di estrazioni. “Un’apertura significa inizialmente che agli operatori industriali possono essere concesse licenze per mappare ed esplorare minerali in un’area limitata, non per estrarli. È necessario raccogliere maggiori conoscenze e verificare se sia possibile procedere con l’estrazione in modo responsabile e sostenibile”, ha affermato il ministro dell’Energia, Terje Aasland.

Tuttavia a preoccupare è anche l’area individuata per l’esplorazione. Si tratta di un’area molto vasta, che si estende per circa 280mila chilometri quadrati (quasi quanto l’intera superficie dell’Italia, che ammonta a poco più di 300mila chilometri quadrati), nella zona dell’Artico di competenza norvegese, più precisamente tra le Svalbard, la Groenlandia, l’Islanda e l’isola di Jan Mayen. Pare infatti che questa potrebbe essere una zona ricca di rame, zinco, manganese, cobalto, litio e terre rare. Ed è significativo che le prime indicazioni siano arrivate dalla Norwegian Offshore Directorate, cioè la ricchissima agenzia governativa norvegese che grazie al petrolio e al gas è diventata una vera e propria potenza economica. Non solo una conferma che l’Artico, anche per via dell’aumento delle temperature di questi anni, sta per diventare un crocevia fondamentale di nuove estrazioni e nuove rotte, ma anche che la ricerca mineraria potrebbe diventare appannaggio delle industrie fossili in cerca di una riconversione che ne mantenga in realtà gli asset produttivi.

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Le aperture sovraniste dell’Italia sul deep sea mining

Lo strappo della Norvegia conferma, se mai ce ne fosse bisogno, il ritorno dei nazionalismi europei anche in ambito energetico, nonostante gli impegni promessi con atti come il Critical Raw Materials Act e il REPower Eu. Quella della sovranità estrattiva è una via a cui l’Italia sembra guardare con favore, dato che già nel discorso di insediamento alla Camera, nell’ottobre 2022, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni parlò di indipendenza energetica. In ogni caso pochi giorni dopo la decisione del Parlamento norvegese il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui critica la posizione dello Stato scandinavo. Suggerendo tra le altre cose che “gran parte della domanda di materie prime può e dovrebbe essere soddisfatta attraverso l’uso di misure di riciclaggio e di economia circolare, lo sviluppo di materiali sostitutivi e politiche di riduzione della domanda”.

Ma al momento la Norvegia sembra voler tirar dritto. “Capisco la preoccupazione per la mancanza di conoscenza del mare e dei fondali. Sul fondo del mare c’è una natura preziosa e acquisiremo maggiori conoscenze a riguardo quando esploreremo e mapperemo in modo più approfondito – ha affermato ancora il ministro Aasland – L’apertura di un’area non significa che l’estrazione abbia inizio. Piuttosto rappresenta il primo di molti passi lungo il percorso, in cui tutte le parti del processo si basano su un approccio precauzionale. Abbiamo una solida esperienza derivante da operazioni offshore prudenti e tecnologicamente leader a livello mondiale. Ciò rende la Norvegia ben posizionata per avere successo. La Norvegia garantirà in ogni momento che l’attività mineraria dei fondali marini sia in linea con i nostri obblighi internazionali, tra cui la Convenzione sul diritto del mare e la Convenzione sulla diversità biologica”.

Parole molto simili a quelle già pronunciate dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin alla testata Open nell’ottobre 2023. E che, unendosi a quelle più nette dei ministri Urso e Musumeci, delineano un interesse dell’Italia verso il deep sea mining. Uno scenario al quale Greenpeace guarda con timore. “Ci auguriamo che l’Italia non segua lo sciagurato esempio della Norvegia e si schieri insieme a tante altre nazioni che chiedono una moratoria” afferma ancora Valentina Di Miccoli, campaigner Mare di Greenpeace l’Italia. “L’avvio delle attività estrattive in un bacino semichiuso come il mar Mediterraneo potrebbe avere effetti ancora più catastrofici”.

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