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giovedì, Novembre 14, 2024

Luci e ombre sulla versione del governo in merito al Fondo per il Clima dato a Eni

Ha suscitato polemiche la scelta di destinare il primo finanziamento del Fondo Italiano per il Clima a Eni per la filiera dei biocarburanti in Kenya. Alla seduta di question time il governo ne spiega i motivi. Per il sottosegretario al MASE Claudio Barbaro le analisi d’impatto hanno verificato i benefici sull’adattamento

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

“Eni ha perseguito alti utili e alti profitti, quindi che bisogno aveva dei soldi del governo?”. La domanda che il deputato del M5s Antonio Ferrara si è posto nella giornata di ieri è quella che da una decina di giorni si stanno ponendo in tanti. Più precisamente dal 17 maggio, quando il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha diffuso una nota ampia e trionfante sul primo finanziamento del Fondo Italiano per il Clima, vale a dire lo strumento pubblico con il quale l’Italia intende supportare progetti di supporto ai Paesi più colpiti dalla crisi climatica. Manco a dirlo, il contributo economico di 75 milioni di euro è andato a Eni “per sostenere la produzione di biocarburanti e gli agricoltori in Kenya”.

Non proprio un bel segnale. Sia perché Eni resta la più grande azienda fossile del Paese, con la produzione di gas – più climalterante persino dell’anidride carbonica – in aumento nei prossimi anni, sia perché sui biocarburanti, cioè il mezzo principale per proseguire la produzione di auto col motore a combustione, permangono forti dubbi, come abbiamo raccontato a più riprese sul nostro giornale. Per questo motivo c’era molta attesa sulla seduta di question time del 29 maggio, in cui a fornire la versione del governo sui motivi di questa scelta è stato il sottosegretario al MASE Claudio Barbaro.

Prima di analizzare il merito della risposta è opportuno però fare un passo indietro.

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Come funziona il Fondo Italiano per il Clima

Col governo Meloni il Fondo Italiano per il Clima (FIC) è diventato l’architrave principale del Piano Mattei, che intende sviluppare progetti di cooperazione con l’Africa nel nome della sicurezza economica, energetica e dei confini. Istituito con la Legge di Bilancio 2022, a seguito degli impegni assunti alla Cop21 di Parigi (dove i Paesi più ricchi avevano promesso per la prima volta lo stanziamento di 100 miliardi di euro all’anno per contrastare gli effetti della crisi climatica), il FIC fino al 2026 avrà una dotazione complessiva pari a 4,4 miliardi di euro, oltre a 40 milioni di euro annui dal 2027 per contributi a fondo perduto e spese di gestione. Il Fondo supporta progetti in grado di ridurre le emissioni di gas serra (mitigazione) e di migliorare la capacità di assorbimento degli impatti dei cambiamenti climatici (adattamento), nonché progetti di tutela della biodiversità e di contrasto alla desertificazione.

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Foto: Valeria Gorni Silvestrini

A decidere l’entità del contributo e la selezione dei progetti è il comitato direttivo del FIC, composto da esponenti di spicco dei ministeri dell’Ambiente, dell’Economia e degli Affari internazionali. Sul sito ad hoc dedicato al Fondo Italiano per il Clima si apprende che la decisione risale addirittura al 22 marzo. In cui si riporta che il comitato ha “approvato i seguenti interventi destinati a iniziative di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico localizzate in Africa, per un valore complessivo di quasi 100 milioni di euro:

– Investimento di 25 milioni di dollari nel fondo di debito Africa Go Green Fund for Renewable Energy and Energy Efficiency S.C.S. (“AGGF”), a supporto di iniziative di efficienza energetica ed energia rinnovabile nel continente africano;

– Finanziamento del valore complessivo di 75 milioni di dollari a Eni Kenya BV o altra società controllata direttamente o indirettamente da ENI Spa – che resta comunque garante per l’intero importo del finanziamento – per la produzione di bio-carburanti”.

Scarne righe che non spiegano i motivi di tale scelta né riportano alcuna valutazione degli impatti del progetto finanziato o, ancora, un’analisi LCA. Tanto da spingere il deputato del M5s Antonio Ferrara a presentare un’immediata interrogazione a risposta scritta. Uno dei primi atti per l’esponente pentastellato che è riuscito a entrare alla Camera dei deputati – dopo una militanza “grillina” lunga più di 10 anni – a metà aprile, a seguito delle dimissioni dell’ex collega Alessandra Todde, diventata nel frattempo presidente della Regione Sardegna.

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Quello che non convince sulla filiera di Eni e sul Fondo per il Clima

Al netto di qualche imprecisione nei dati, forse dettata da un’eccessiva fretta nella lettura della risposta, il sottosegretario del MASE Claudio Barbaro segnala che il progetto di Eni finanziato dal Fondo Italiano per il Clima con 75 milioni di euro è destinato alla lavorazione e alla produzione di biocarburanti avanzati in Kenya, con un incremento previsto fino a 500mila tonnellate l’anno di olio di ricino. Questi però sono dati noti, diffusi da Eni da anni e sul quale a quanto pare il governo si limita a fare da megafono.

“L’iniziativa, fortemente voluta dal governo keniano, si inquadra nell’ambito del memorandum d’intesa siglato da Eni e il governo del Kenya nel luglio 2021 – spiega Barbaro – allo scopo di promuovere il processo di decarbonizzazione dell’economia del Paese e contribuirà agli obiettivi fissati dallo stesso Kenya in termini di decarbonizzazione del sistema dei trasporti, di valorizzazione delle aree degradate e di resilienza climatica del settore agricolo”. Qui sorgono i primi veri dubbi, perché in realtà, come spiega la stessa Eni, in Kenya si coltiva il ricino – al 2023 i dati dell’azienda riportano che la coltivazione si è estesa su oltre 50mila ettari, coinvolgendo 80mila agricoltori – e poi si produce l’olio vegetale che diventa biocarburante soltanto nelle bioraffinerie di Gela e Porto Marghera. Per cui non si comprende come il progetto contribuisce alla decarbonizzazione dei trasporti del Kenya quando invece i biocarburanti a sei zampe sono pensati soprattutto per il mercato europeo e statunitense. E infatti poco dopo è lo stesso Barbaro a sottolineare che “il progetto sosterrà la decarbonizzazione del settore dei trasporti a livello internazionale”.

Il sottosegretario al MASE ha poi aggiunto che il progetto di Eni sosterrà oltre 200mila piccoli agricoltori per i prossimi 5 anni. “In particolare – ha aggiunto – il progetto è stato valutato ex ante e sarà monitorato ex post sulla base di indicatori in ambito di adattamento climatico previsti dal quadro regolamentare di riferimento, tra i quali la resa agricola media per tipologia di prodotto”. Tuttavia, anche perchè non indicati precisamente, restano forti dubbi sulla reale efficacia delle azioni di adattamento che in fondo fanno riferimento a una coltivazione estesa di ricino, pianta notoriamente resiliente al cambiamento climatico ma che in Kenya sta riscontrando già difficoltà proprio nella resa, come denunciano da tempo gli agricoltori locali.

Per saperne di più è utile perciò rivolgersi alle domande poste all’assemblea degli azionisti di Eni a metà maggio. Sollecitata dagli azionisti critici come l’associazione A Sud proprio in merito alle criticità della filiera dei biocarburanti in Kenya (e raccontate in questo dossier), Eni ha invece negato qualsiasi difficoltà, affermando che nel 2023 lo Stato africano “ha prodotto 15 mila tonnellate, di cui 7 mila tonnellate di ricino, in linea con le attese” e che “nel 2024 si prevede una produzione significativamente superiore a quella registrata nell’anno precedente”, anche se poi implicitamente ammette i rallentamenti quando aggiunge che “l’introduzione di sementi migliorate, che Eni metterà a disposizione, e l’adozione di buone pratiche agricole permetterà agli agricoltori di migliorare ulteriormente le rese”.

Resta il fatto che gli studi sull’efficacia dei biocarburanti in Kenya al momento non sono noti. Le uniche informazioni in questo senso è possibile ricavarle ancora una volta dal verbale di Eni relativo all’assemblea degli azionisti 2024. “Nel periodo luglio-dicembre 2022 è stato condotto uno studio per valutare gli impatti socioeconomici del progetto agri-feedstock in Kenya – scrive l’azienda – Lo studio ha coinvolto gli agricoltori di 10 contee, intervistando inoltre 5 aggregatori e circa 50 Ward Agricultural Officers. La metodologia di valutazione è stata definita in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano ed è stata costruita sulla base di modelli d’impatto già proposti da organismi internazionali del settore (es. Global Bioenergy Partnership di FAO). L’analisi svolta ha consentito di definire una baseline di dati che sarà utile nel corso del tempo per monitorare i risultati del progetto. Inoltre, gli accordi raggiunti con istituzioni internazionali confermano l’elevato standard e la sostenibilità dell’iniziativa dal punto di vista ambientale, economico e sociale”.

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Il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti e le esigenze del Kenya

Fa specie che le poche informazioni relative al progetto finanziato dal Fondo Italiano per il Clima arrivano dalla stessa azienda e non dal governo, che in teoria dovrebbe indicare per cui ha preferito questo progetto invece di un altro. “In questo senso il progetto – ricorda ancora Barbaro -, a seguito di un’approfondita analisi istruttoria da parte del soggetto istruttore del Fondo Italiano per il Clima, cioè Cassa Depositi e Prestiti, secondo i criteri dell’OCSE e in linea con le migliori pratiche internazionali, è risultato in linea con gli obiettivi fissati dalla Cop28 di Dubai”. Anche qui però si conferma una criticità evidente: Cassa Depositi e Prestiti è in contemporanea l’ente che gestisce il FIC e allo stesso tempo è l’azionista maggiore di Eni, con una quota del 28.5%. Non esattamente un ente super-partes.

“Le analisi d’impatto condotte in fase istruttoria da CDP hanno quindi benefici di adattamento al cambiamento climatico derivanti dalla coltivazione di colture oleaginose in Kenya – ha affermato ancora il sottosegretario al MASE – Più in particolare è risultato che tali pratiche agricole, a bassa intensità carbonica e climaticamente resilienti, non sono in competizione con la filiera alimentare ma anzi promuoverebbero una diversificazione della produzione agricola in grado di ridurre l’esposizione ai rischi climatici. Inoltre il gestore ha valutato l’impatto positivo del progetto sul reddito degli agricoltori interessati che, si segnala, hanno visto diminuire nel tempo le entrate economiche riconducibili a coltivazioni colpite dal cambiamento climatico”.

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foto: Riccardo Bonacina

Per il ministero dell’Ambiente, infine, “l’analisi economico finanziaria ha fatto riferimento anche al fatto che Eni supporta economicamente il progetto”. Una chiosa finale che in fondo giustifica la domanda iniziale del deputato Ferrara, e alla quale ne aggiungiamo un’altra: perché non supportare piccoli progetti diffusi su scala locale, portati avanti da realtà che magari hanno maggiori connessioni col territorio, invece di destinare fondi pubblici a un’azienda che soltanto nel 2023 ha conseguito utili per oltre 8 miliardi di euro, quasi tutti dovuti ai prezzi del gas che hanno messo in difficoltà famiglie e imprese italiane?

Ancor di più se si considera che il Kenya è uno Stato che già adesso è uno dei maggiori produttori africani di energie rinnovabili – nel 2023 Epra, l’autorità di regolamentazione del petrolio e dell’energia, nel suo rapporto annuale accertava che il 90% dell’elettricità generata in Kenya proveniva da fonti energetiche rinnovabili – e che proprio nei giorni scorsi il Kenya è stato colpito da alcune devastanti alluvioni che dimostrano, ancor di più, la necessità di reali investimenti sull’adattamento climatico per il continente africano e non a progetti che sembrano invece incentrati sui conteggi occidentali in merito alle emissioni di gas serra.

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