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giovedì, Dicembre 26, 2024

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Nico Piro: “La guerra è merda, morte, dolore, e distruzione. Non esiste una guerra etica”

A colloquio col giornalista e blogger Nico Piro sulla guerra in Ucraina e sulla “narrazione mediatica senza alcun elemento critico”. Con qualche parallelismo con i temi ecologici

Emanuele Profumi
Emanuele Profumi
Emanuele Profumi, è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista free lance. Collabora con diverse università italiane ed europee. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le "Inchieste politiche") sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012). È professore di "Storia della pace in Epoca Contemporanea" presso l'Università di Pisa e "Scienza della politica" presso l'Università della Tuscia (Viterbo), e scrive e pubblica saggi filosofici. L'ultimo libro di filosofia è una curatela realizzata insieme all'importante filosofo italiano Alfonso Maurizio Iacono (Ripensare la politica. Immagini del possibile e dell'alterità. Ets 2019).

“La guerra è stata trasformata in un idolo, con la conseguenza di divenire blasfemo, se non ci si piega davanti a quest’idolo”. Nico Piro, giornalista (TG3) e blogger, ci aiuta a muoverci nella ‘comunicazione di guerra’ nella quale siamo immersi da quando il 24 febbraio è iniziata l’invasione dell’Ucraina.

  

Nel suo ultimo libro “Maledetti Pacifisti. Come difendersi dal marketing della guerra” (People, 2022), lei scrive: “Si ignora che la guerra è fatta di reciproca propaganda, di bugie propinate alla propria opinione pubblica per garantirsene il supporto, di verità omesse pur di non informare il nemico, di esagerazioni vendute agli alleati per ottenerne un maggior sostegno militare”. Questa frase mi sembra riassuma la denuncia articolata che fa alla comunicazione di guerra (“infowar”). La disinformazione sistemica della quale lei parla nel libro, che porta a creare delle fake news condivise, perché vengono ritenute delle informazioni valide, anche contro l’evidenza a volte. Mi sembra che si possa interpretare come il prodotto del “complesso militare industriale” a cui i mass media si piegano in maniera acritica. Lei può condividere questa interpretazione? E, più in generale, a cosa potrebbe essere dovuta questa “servitù volontaria” dei media?

Nel libro dico due cose diverse. Per la prima volta, dal conflitto del Vietnam, da un lato, una guerra viene assorbita nella narrazione mediatica senza alcun elemento critico. La guerra è stata trasformata in un idolo, con la conseguenza di divenire blasfemo, se non ci si piega davanti a quest’idolo. È stato desertificato il dibattito. Perché chiunque avanzasse o avanzi un dubbio, o provi ad articolare un pensiero critico, viene tacciato di essere filoputiniano. Ossia amico del nemico, traditore della Patria. È ciò che ho chiamato “Pensiero Unico Bellicista” (PUB, ndr), un atteggiamento per cui o sei con la guerra, o non hai dignità. E non solo questo. Sei una persona che non pensa all’Ucraina, non pensa alle vittime, non pensa alla difesa dell’Europa. Questa è la cosa che mi fa più paura. La disinformazione è, invece, su un altro piano. Ed è quella della Russia che con la Brexit e l’elezione di Donald Trump ha chiaramente dimostrato di saperci fare. Ma vedo anche che è in atto una disinformazione che mira a manipolare l’informazione pubblica e a mettere all’angolo i pacifisti. Tuttavia, secondo me, sono due temi da tenere assolutamente separati. La disinformazione è una manipolazione occulta, mentre il PUB è il frutto malato di una confusione politica e culturale, che sovrappone il fatto di far parte di un’alleanza con il fatto di condividere un sistema di valori. Facciamo parte dell’Alleanza Atlantica (NATO, ndr), ma l’atlantismo non è a fondamento della nostra Repubblica, che si basa sulla costituzione, dove troviamo i nostri valori. Tra questi valori c’è il ripudio della guerra. A questo ci dobbiamo rifare. Che poi esistano degli interessi di vario livello, è chiaro, ma non li attribuirei solo all’industria bellica. A volte sono interessi meramente di bottega. A volte si crea un “beauty contest”: una specie di concorso di bellezza tra chi è più guerrafondaio. Ma questo tutto sommato fa parte anche delle miserie umane. La cosa che mi preoccupa, ripeto, è il togliere dignità al pensiero critico. Perché se questo oggi vale per la guerra, domani per cos’altro varrà? Secondo me il PUB corrode la democrazia, e fa anche da arma di distrazione di massa. Ti faccio un esempio. Il sottoscritto e anche altri hanno dato un giudizio su Putin il 7 Ottobre 2006, quando veniva uccisa Anna Politkovskaja. Dopo quella data, i rapporti con la Russia sono andati avanti con il motto “business as usual”. In Italia il nostro presidente del consiglio sosteneva Putin. C’era chi lo considerava un “sincero democratico”. C’era, e c’è, un partito che ha firmato un accordo con il partito “Russia unita”. C’era un giornale che prendeva soldi per pubblicare inserti sulla Russia. Mi sembra curioso che queste responsabilità politiche oggi siano sottaciute, e invece il problema è chi chiede Pace.

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Anche in relazione agli aggettivi che lei usa per definire questo fenomeno, mi sembra che siamo in presenza di una specie di costruzione della realtà che va oltre la verità. Una narrazione che, per riprendere una metafora che lei usa, è una specie di “film” interessato a sostenerla, piuttosto che a cercare la verità nella situazione di guerra, che è sempre molto difficile da identificare. Con questa narrazione falsa, e con il PUB, non si sta snaturando la ragione stessa del giornalismo?

Credo che bisogna fare una grossa differenza tra giornalisti e opinionisti. Mi riferisco alla “disambiguazione” (processo con il quale si precisa il significato di una parola o di una frase che denota significati diversi a seconda dei contesti, per evitare che sia ambigua, ndr). Gli opinionisti sono un genere tipicamente italiano, dove le stesse persone possono tranquillamente passare dal fare i commenti di scienze della costruzione, perché è crollato il ponte Morandi, a come si gestisce l’epidemia, perché c’è il Covid, alla crisi politica nel Regno Unito o a quella presente in Italia, alla ricetta originale della scapece, passando per le varianti di Nouvelle cousine della matriciana, per finire al fantacalcio. Ma l’opinionista non può essere incidentalmente un giornalista, perché non lavora da giornalista. Sta lavorando da “tuttologo”. Voglio dire che il sistema mediatico italiano, come l’Italia tutta, dovrebbe recuperare il valore delle competenze. Uno parla di quello che sa. Ho scritto un libro sul marketing della guerra, perché la conosco. Anche perché ne ho raccontata una per quasi due decenni (la guerra in Afghanistan). Non mi metto a parlare della campagna acquisti della Serie A. Bisognerebbe far parlare chi ha conoscenza, recuperare le competenze. Invece oggi ci troviamo in un paradosso: gente che non ha mai visto un campo di battaglia, nemmeno con il cannocchiale, si prende letteralmente gioco di generali che hanno guidato truppe in combattimento, e di giornalisti che hanno camminato in strade tappezzate di cadaveri. Questa è un’altra faccia di questo curioso e inquietante marketing della guerra, perché nega le competenze in nome della vendita di un prodotto. Il “prodotto guerra”. Sarebbe ora che questo emergesse. Accade un po’ quello che accade con la pubblicità.

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Lei afferma qua e là nel libro che questo marketing sembra sia attraversato da una visione mascherata e inconsapevole di propaganda, come quando scrive: “Nel caso della guerra, c’è bisogno di motivare la base”, oppure “È una spirale di odio, di fanatismo, di spirito da tifoseria che in ultima istanza si rivela essere un danno all’idea stessa e al principio della libertà d’informazione, ma evidentemente in nome della guerra vale tutto”. Una propaganda che serve per sostenere la guerra, sempre e comunque, anche contro le evidenze della sua brutalità o della sua inutilità. Non è così?

Sì, è un convincere, convincerci, convincersi, che la guerra sia un male necessario, e una scelta morale. Invece la guerra è la cosa più immorale che esista, è merda, morte, dolore, e distruzione. E per questo deve essere raccontata per quello che è. Non esiste una guerra etica. Stiamo raccontando la guerra come uno scontro tra bene e male, come uno scontro tra i buoni e i cattivi, senza ragionare sul fatto che questa guerra non ha una soluzione militare, e non avendo una soluzione militare non fa altro che continuare a far correre il contatore delle vittime civili. Questo è il punto.

Certo. Se si sta affermando una visione della guerra come “guerra giusta”, come dovere morale o male indispensabile, mi sembra che si possa affermare che stiamo chiaramente in presenza di una difesa o di una riabilitazione della guerra. Quanto ha appena sostenuto sulla guerra in Jugoslavia forse si potrebbe estendere sino alla fine della seconda guerra mondiale: non c’è mai stata una situazione di questo tipo in Italia. Per la prima volta la guerra sta venendo riabilitata come qualcosa di giusto.

Quello che sta avvenendo è una normalizzazione del concetto di guerra. Stiamo sovvertendo la realtà. Perché l’Italia sta vivendo il più lungo periodo di pace che ha mai vissuto nella sua storia. C’è stato il conflitto risorgimentale, la prima e poi la seconda guerra mondiale. O, prima ancora, c’erano scontri tra Stati, signorie, comuni. Quella dell’Italia è una storia con poca pace. Tranne che negli ultimi 70 o 80 anni, che coincidono con il massimo benessere conosciuto dal nostro Paese. Invece di apprezzare i frutti della pace, nel dibattito pubblico si è normalizzata la guerra. Ormai si parla di guerra come si parlasse di una partita di calcio. Come se fosse un argomento normale. Invece normale è la pace. E ce lo ricordano chiaramente coloro che spesso sono stati chiamati in causa in modo sbagliato: i partigiani. Da loro nasce la costituzione. A differenza di quello che sta accadendo in Ucraina, loro non difendevano un principio nazionale, ma volevano costruire un mondo migliore. Poi ognuno aveva la sua idea. Ma soprattutto combattevano una guerra affinché nessun altro fosse mai costretto a combatterne un’altra. Non a caso l’hanno scritto nella costituzione. Nonostante questi dati di fatto, e questi 80 anni di pace che coincidono con il massimo benessere e ricchezza di questo Paese, al posto di tenerci cara questa pace, e di venerarla, veneriamo l’idolo della guerra. Questo è un fatto drammatico e pericolosissimo.

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Una ridefinizione dei termini di guerra e pace

Mi permetto di insistere. Leggendo “Maledetti pacifisti” si ha l’impressione che sia in atto una ridefinizione dei concetti di guerra e di pace. Guardando a ritroso, e anche rispetto a quello che ha appena affermato, possiamo dire che dalla guerra in Jugoslavia sino ad oggi c’è stata una progressiva normalizzazione della guerra sino a farla di nuovo diventare “guerra giusta”?

Nel 2003 in Italia c’è stata la più grande manifestazione contro la guerra mai esistita nel mondo. Era quella contro la guerra in Iraq, che resterà negli annali. Da quel momento in poi, in un processo complessivo di erosione dei valori progressisti e dello Stato sociale di questo Paese, la pace è finita in questa macina. Siccome si sono sgretolati una serie di valori e principi, come la redistribuzione del reddito e la parità di opportunità, lo stesso è successo con la pace. Questo fatto emerge in tutta la sua forza oggi, con un neoliberismo camuffato da posizione moderata e tecnica, che in realtà è espressione di un certo furore ideologico.

In questa ricostruzione di cosa è guerra e cosa è pace, ci va di mezzo, come ha ricordato, anche cosa è stata la resistenza, che ha forgiato la nostra costituzione, che chiaramente vieta severamente di seguire la guerra “come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”. Com’è possibile che una situazione che sembra a tutti gli effetti incostituzionale stia passando sotto silenzio? Pochissimi dichiarano, infatti, che la guerra è completamente anticostituzionale e che la resistenza ha fatto nascere la nostra costituzione che vieta questo tipo di misure?

Faccio una premessa: non mi sento rappresentato dalla politica italiana di oggi. Non ho amici o nemici da sostenere. Ho dei principi da sostenere. La cosa che mi spaventa, come dicevo, è che c’è stata una totale e acritica accettazione della guerra. E questo è ben peggiore di quello che è successo negli ultimi 20 anni, dove, tutto sommato, abbiamo giocato sull’ambiguità del peacekeeping: si è giocato con l’ambiguità, tra il peacekeeping e il peace enforcing. In Afghanistan abbiamo combattuto una guerra, senza chiamarla guerra. Ipocritamente, ma salvando la forma. Ora noi siamo a tutti gli effetti co-belligeranti. Perché banalmente le armi che diamo all’Ucraina, uccidono dei russi. Per questo la Russia ci ha messo nell’elenco dei paesi ostili. Penso che a livello ontologico, politico, si è passati un Rubicone che non si era mai oltrepassato. Trovo particolarmente grave che, tra tutti i Paesi europei, l’Italia non stia dichiarando quali sono gli armamenti che fornisce all’Ucraina. Perché evidentemente il governo non ci vuole far sapere quanto è grave il nostro coinvolgimento. Sappiamo che ci sono dei carri armati in movimento, ma lo sappiamo per via delle multe della polizia stradale.

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Forse questo avviene proprio perché la nostra costituzione ce lo impedirebbe: in realtà non potremmo farlo.

Non saprei. Non mi sembra che sia un tema che qualcuno ha sollevato, ad oggi. Penso, invece, che sia una delle classiche ipocrisie italiane. Il tema vero lo ha sollevato qualche giorno fa un turista che ho incontrato per caso. Mi ha chiesto: “Scusi, ma se la sinistra in Italia è per la guerra, ma la destra per che cos’è?”. Una domanda acuta che arriva da un osservatore esterno. Purtroppo la sinistra ha totalmente rinunciato al pensiero critico sulla guerra. Lo voglio ricordare per sgombrare il campo da dubbi: Putin lo abbiamo già giudicato nel 2006, e questa è una guerra di invasione. Ma questa guerra dovrebbe essere letta per quello che è successo negli ultimi 8 anni o negli ultimi 30 anni (dalla caduta dell’Urss in poi). Ma se vogliamo farla semplice, effettivamente esistono gli invasori e chi è stato invaso. Quello che va sottolineato, però, è che i pacifisti hanno molto più a cuore l’Ucraina di quanto ce l’abbiano i guerrafondai. Perché i guerrafondai stanno usando l’Ucraina come terreno di gioco, che è il campo di battaglia, per fare una guerra per procura. In particolare da parte degli Usa. Noi che chiediamo pace (perché non mi sento un pacifista), stiamo facendo un ragionamento: ho seguito da vicino l’Afghanistan, e abbiamo dato alla guerra 20 anni per dimostrarci che, nel XXI secolo, con le “armi intelligenti”, con il campo di battaglia digitale, non può essere una soluzione per i problemi del mondo. Dopo vent’anni possiamo affermare che non è una soluzione ma uno strumento che complica i problemi del mondo. Da quando è caduta Kabul (6-7 mesi fa), stiamo ancora pensando che inviare le armi sia una soluzione. I pacifisti hanno una grossa preoccupazione, ed io con loro: dato che non c’è soluzione militare a questo conflitto, l’accordo che prima o poi si raggiungerà tra Ucraina e Russia, e sarà ben peggiore di quello che si poteva raggiungere al momento del ritiro da Kiev (quando finì la prima fase di quella che i russi chiamano, “operazione speciale”: quando si ritirarono dall’accerchiamento della città). Con l’aggravante che ci saranno andati di mezzo migliaia e migliaia di vittime innocenti, oltre che distrutti miliardi e miliardi di cose. Esattamente quello che abbiamo visto in Afghanistan: nel 2001 i talebani volevano trattare, gli abbiamo detto di no, abbiamo fatto 20 anni di guerra per poi finire allo stesso tavolo e riconsegnargli il Paese. È chiaro che la pace non è qualcosa di semplice, ma il tema vero è che manca la volontà politica. Ai pacifisti si chiede sempre: “Eh, allora dammi tu la soluzione!!”. Al di là del fatto che non sono pagato per dare le soluzioni, e che ci sono apparati (all’Onu, all’Ue, alla Farnesina) che sono specializzati per farlo, e hanno anche dei budget per trovare soluzioni, io, come i pacifisti, stiamo reclamando una volontà di pace. Proprio quello che manca. Perché se il capo della diplomazia europea va a Kiev e dice che la soluzione si trova solo sul campo di battaglia, è come se un medico ti fa una visita e dice: “Chiamate il becchino”.

Ciò avviene perché si pensa che la pace sia il risultato di un armistizio o di un trattato di resa…

Esatto. Perché la pace non è più uno strumento per prevenire, concludere, fermare, frenare i conflitti. Ma è, invece, un sottoprodotto del conflitto: finita la guerra, chi ha vinto, “ha la pace”.

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A me sembra che questa idea si avvicina alla Pax Romana, che usavano la parola per indicare il periodo in cui non si facevano le guerre, tra una guerra e l’altra. Ma poi l’idea di pace nei millenni è cambiata. Dopo la seconda guerra mondiale si è enormemente arricchita, sino a slegarsi dal concetto di guerra, a significare una condizione autonoma e non semplicemente la fine o l’opposto della guerra. Non ti sembra che siamo in presenza di una specie di regressione di quello che intendiamo per pace?

Sì. Ripeto: si è perso il valore della pace. I dividendi della pace in Italia sono enormi. Eppure nessuno li vuole vedere. È un po’ come l’11 Settembre, dove la guerra è diventata “clash of civilization” (scontro di civiltà). La civiltà cattolica contro la civiltà musulmana. Oggi è l’Europa occidentale contro l’autocrazia russa. Con le solite contraddizioni delle democrazie occidentali. Personalmente sono contro tutte le dittature, ma vedo che andiamo a stringere la mano ad Erdogan. Non si capisce perché non possiamo stringere la mano a Putin se si tratta, non tanto di condonarne la condotta dittatoriale, ma di arrivare ad una pace in Ucraina. Salvare vite.

La guerra che non viene raccontata

Ciò che non si dice realmente è cos’è la guerra: il motto, l’aforisma, che muove il tuo libro e che lo conclude è che: “Se vuoi la pace, impara a conoscere la guerra”. Mi sembra che in moltissimi servizi televisivi e articoli di giornale usciti sino ad oggi da quando è iniziata la guerra, si stia leggendo la guerra con categorie con cui noi leggiamo altri fenomeni. Non le sembra?

L’epicizzazione della guerra è un filone letterario millenario. Faccio sempre notare una cosa: per vedere sul grande schermo, al cinema, a Hollywood per capirci, cosa è stato davvero lo sbarco in Normandia, abbiamo dovuto aspettare la bellezza di 65 anni. “Salvate il soldato Ryan”, è il primo film che fa finalmente vedere cosa accadeva sulle spiagge della Normandia: corpi fatti a pezzi, soldati bruciati vivi, annegamenti. È stato un massacro. Ormai sta passando l’idea di una quasi superiorità etnica degli ucraini. Abbiamo creato una specie di santificazione degli ucraini. C’è un bene e c’è un male. Del resto senza la costruzione di un nemico la guerra non può esistere.

Ma questo lo sta assumendo l’insieme del sistema mediatico. Per questo ritengo che sia lecito avere il sospetto che esista un’infiltrazione delle strategie militari sull’informazione main stream.

Credo che ci sia una narrazione dominante che un po’ convince e un po’ è comoda, perché è facile accodarsi. Come sempre non è facile prendere posizioni critiche. Siamo arrivati al paradosso che uno come me, che ha passato molti mesi a Mosca, dice: “Il Cremlino ha detto…”, esattamente come può capitare quando uno fa il cronista a New York. Nel primo caso sei uno che fa propaganda, nel secondo sei un giornalista. Questo fa parte purtroppo del clima di guerra. Ma, ripeto, dobbiamo prendere atto e liberarcene, altrimenti questo meccanismo del PUB, come abbiamo visto con la crisi di governo, si applicherà a settori ampi della nostra società. Corroderà la democrazia. Perché se il dissenso viene trasformato in connivenza con il nemico, stai distruggendo la libertà di opinione, che è alla base della nostra costituzione. Che è la cosa che ci rende migliori di Putin. Per cui per combattere Putin usiamo i suoi stessi mezzi. È curioso, no? È surreale.

A proposito delle armi che stiamo inviando in Ucraina, lei scrive: “A nulla serve ricordare che l’Ucraina, come la Russia, è un Paese a consistente densità mafiosa e queste armi – messe anche nelle mani di detenuti tirati fuori dalle carceri affinché dessero il loro contributo alla patria – potrebbero un domani servire a far saltare un portavalori blindato su un’autostrada italiana”. Quando non riusciamo a riconoscere che anche in Ucraina esiste una propaganda di guerra, e con quella ci stiamo relazionando, ma senza considerarla tale, mi sembra che non riusciamo a prendere distanza dagli aspetti reali, e negativi, di coloro che stiamo sostenendo. Mi sembra, quindi, anche lecito il sospetto che il conformismo di guerra si sia affermato nel nostro Paese. Basti considerare che la politica si è, per la maggior parte, arresa alla logica dell’amico e del nemico. Non è così?

Sì. Vorrei ricordare che nei giorni scorsi Zelensky ha fatto fuori il capo dei servizi segreti e il procuratore generale del suo Paese. Anche se la vicenda è complessa. Per semplificare possiamo dire che erano considerati collusi con la Russia, ossia dei traditori. Questo lascia fortemente perplessi. Perché è la logica che trasforma gli oppositori in traditori. Non è il segno di una situazione istituzionalmente sana. Sappiamo benissimo che l’Ucraina ha seri problemi di democrazia, corruzione, di accaparramento delle risorse pubbliche. Lo sappiamo bene, ma nonostante questo stiamo acriticamente candidando l’Ucraina all’ingresso dell’Ue. Sarebbe una buona mossa se rientrasse in un accordo sulla neutralità, se venisse spesa al tavolo delle trattative. Così com’è, invece, temo che faccia solo perdere credibilità all’Ue. Per esempio nei confronti di un Paese come l’Albania, che da anni aspetta nell’Ue.

Tra le cose che non vengono dette, o dette molto poco, nell’informazione main stream, c’è il fatto che questa è una guerra per procura, che il potere politico è asservito al potere economico-militare, che ha dei suoi vantaggi su questo, e il fatto che la Nato e gli Usa hanno tutto l’interesse a fare questa guerra e a far sì che continui. Non viene neanche detta una cosa molto importante, o meglio viene sminuita in continuazione: il rischio che la guerra diventi un olocausto militare, e quindi che il futuro dell’umanità è messo a rischio da questa situazione, che comporta anche questa possibilità. Cosa ne pensa?

Stiamo trattando questa guerra come un conflitto regionale, ma in realtà già sta avendo enormi ripercussioni in tutto il mondo. Basti pensare alla crisi in Shri Lanka, che arriva da lontano, e nasce per motivi peculiari, che nulla hanno a che fare con la guerra in Ucraina. Ma l’effetto della guerra in Ucraina, ossia l’aumento dei generi di prima necessità e del carburante sono, come dicono gli americani, “la piuma che spezza la schiena al cammello”. Ci sono situazioni di montante disagio in Nord Africa, esattamente come alla vigilia delle primavere arabe. Questa guerra, quindi, già sta avendo degli effetti globali, ed è diventata anche l’occasione per ridisegnare la globalizzazione. Inoltre esiste il tema dell’allargamento del conflitto, da regionale a continentale. Perché la posizione della Polonia e della Romania, come aree di transito delle armi, sono evidentemente posizioni in bilico, ad alto rischio. Lo stesso vale per Kaliningrad, l’enclave russa sul mar baltico, perché un incidente nucleare è sempre possibile. Non vedo al momento l’interesse, da nessuna delle due parti, all’uso delle armi nucleari. Però è evidente che un incidente ad una centrale nucleare al momento dei combattimenti è possibile in un Paese come l’Ucraina. A Zaporižžja ci siamo andanti vicini. In generale, in un conflitto non dobbiamo mai dimenticare che esiste l’errore, il fattore umano, l’errata valutazione di quello che sta piovendo dal cielo. A mio avviso è una situazione di grande preoccupazione, che però nessuno sta denunciando sufficientemente. Se un missile caliber finisce sulla centrale più grande di Europa (a Zaporižžja appunto), che cosa succede? Se viene intercettato dall’antiaerea, e un pezzo finisce sulla centrale, cosa succede? Oppure se questo avviene sullo scudo protettivo di Cernobil, cosa succede? Sono tutte ipotesi di cui non si sta parlando.

Cosa fare?

Secondo lei è possibile fare marcia indietro rispetto a questa situazione?

A mio avviso è necessario ritrovare una volontà politica di trattare. Se si guardano i sondaggi, è chiaro che l’opinione pubblica italiana è a favore della pace: chiede trattative, negoziati e la fine di questo folle invio di armi. Bisogna prenderne atto. Quindi va costruita una volontà politica di pace. Deve emergere una volontà politica. Poi le soluzioni tecniche si trovano. Il primo obiettivo è ovviamente il cessate il fuoco, che è la prima cosa da fare quando la casa brucia: prima spegni le fiamme e poi ti interroghi sulle cause, magari dovute alla signora del quinto piano che ha lasciato il ferro da stiro acceso, o al signore che non aveva l’impianto elettrico a norma. Dobbiamo sempre considerare che la pace è una cosa complicata da costruire. Non è come fare un buco a terra, e far spuntare l’acqua. Dobbiamo andare per passi. Prima di tutto trovare un mediatore. Perché le trattative sino ad ora non vedono mediazione. E poi bisognerà dare delle garanzie all’Ucraina di non essere più attaccata in futuro. Sicuramente bisognerà affrontare il tema del territorio e della neutralità. Però più passa il tempo, più i russi avanzano, e più è difficile fare una trattativa del genere. Eppoi, andrà affrontato il tema della guerra per procura, che, anche in questo caso, non lo sollevo io, ma il ministro della difesa degli Usa, quando dice che la guerra andrà avanti fino a quando avremo degradato la capacità militare russa.

La sua denuncia del marketing della guerra e della stigmatizzazione dei pacifisti tocca un problema dolente di tutto il sistema-Paese. Non riguarda solo un giornale o un telegiornale. Secondo lei esistono delle risorse per ribaltare la situazione mediatica di cui abbiamo parlato?

Il problema fondamentale è il clima e il “monoblocco politico”, questo è poco ma sicuro. Di ricette non ne ho. Invito sempre a prendere per buona la lezione di Gino Strada: ognuno fa la sua parte. Io sto facendo la mia. Il che significa aver scritto questo libro, ricordarlo tutti i giorni sui social media, andare in giro ad incontrare le persone, fare delle iniziative nel mio tempo libero. Questo è il mio contributo. Credo che ognuno di noi dovrebbe ritrovare una sua partecipazione e fare pressione sui temi della pace ai rispettivi rappresentanti politici locali. Credo che bisogna ripartire dal basso, un passo alla volta. Questo è quello che possiamo fare adesso. Non mi sembra che a livello nazionale ci sia una rappresentanza di questa volontà di pace.

Il movimento pacifista potrebbe fare propria la sua denuncia del marketing della guerra? E come potrebbe svincolarsi da questa situazione in cui viene stigmatizzato, marginalizzato e condannato come se ci trovassimo davanti a dei terroristi?

Il movimento per la pace è un insieme di persone, piccole e grandi, non una forza organizzata. Fa quello che può. In un ambiente e in un clima ostile. Un po’ quello che sta accadendo da diversi anni rispetto ai temi dell’ecologia, che non trovano rappresentanza politica, tematica o meno. Perciò si fanno largo a fatica nel dibattito pubblico. Ma sono fiducioso nel fatto che ognuno di noi, facendo la sua parte, può lentamente imprimere una svolta. Lo dico con grande tristezza, ma la cosa su cui sono particolarmente fiducioso è il fatto che già dopo poche settimane era chiaro che chi chiedeva la pace aveva ragione. Ormai dopo il sesto mese di guerra è totalmente evidente, purtroppo, che più passerà il tempo più sarà chiaro che non esiste soluzione militare, e che quindi le trattative di pace erano l’unica soluzione. Insomma, se ancora pensiamo ai buoni e ai cattivi, a quelli che hanno invaso e agli altri che sono stati invasi, stiamo facendo una narrazione da opinionisti con l’elmetto.

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