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venerdì, Ottobre 4, 2024

Guerra in Ucraina. Ferrajoli: “Serve trattativa permanente all’ONU fino a giungere alla pace”

Luigi Ferrajoli, filosofo e giurista, parla con EconomiaCircolare.com di guerra in Ucraina, ma anche di diritti, democrazia, crisi climatica e del progetto di una “Costituzione della Terra”

Emanuele Profumi
Emanuele Profumi
Emanuele Profumi, è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista free lance. Collabora con diverse università italiane ed europee. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le "Inchieste politiche") sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012). È professore di "Storia della pace in Epoca Contemporanea" presso l'Università di Pisa e "Scienza della politica" presso l'Università della Tuscia (Viterbo), e scrive e pubblica saggi filosofici. L'ultimo libro di filosofia è una curatela realizzata insieme all'importante filosofo italiano Alfonso Maurizio Iacono (Ripensare la politica. Immagini del possibile e dell'alterità. Ets 2019).

Luigi Ferrajoli è un filosofo del diritto, giurista ed ex magistrato. Allievo di Norberto Bobbio, è professore emerito di Filosofia del diritto all’Università di Roma tre. Doctor Honoris Causa in diverse università del mondo (Buenos Aires, Valparaiso, Bogotà, etc), è considerato (a ragione) uno dei maggiori rappresentanti del neocostituzionalismo giuridico e si occupa da tempo del legame tra diritto e democrazia. Lo incontriamo anche perché il suo ultimo libro sulla costituzione della Terra è uno sguardo fertile per pensare la nostra relazione con la nostra casa comune, la Terra, che ci permette di pensare ai tanti modi in cui possiamo cambiare vita per vivere in modo più umanamente ed ecologicamente sostenibile.

  

Professor Ferrajoli, lei ha dichiarato che l’Onu sarebbe uno strumento legittimo ed efficace per far finire la guerra in Ucraina. Può spiegarci come mai e se è ancora di questo avviso, davanti la probabilità che invece la guerra si estenda?

 Penso che non ci sia la volontà politica dei paesi della Nato di porre termine al conflitto, impegnando l’Onu – il Consiglio di Sicurezza e la sua Assemblea generale – come il luogo istituzionalmente deputato al fine della pace, mediante il confronto e la trattativa. Ovviamente il responsabile di questa guerra criminale è Putin, che con essa ha violato tutte le norme del diritto internazionale. Giustamente Putin viene perciò coperto di insulti – “macellaio”, “criminale”, “pazzo”, “nuovo Hitler” –, anche se simili insulti non dovrebbero essere pronunciati, per non gettare benzina sul fuoco, dal presidente degli Stati Uniti. C’è tuttavia una contraddizione tra il dipingere Putin come un “nuovo Hitler” e il non prendere sul serio le sue minacce di ricorrere, nel caso di una sconfitta umiliante quale è quella cui dichiarano di puntare i paesi della Nato, all’uso degli armamenti nucleari. Certamente, infatti, Hitler non esisterebbe un attimo a sparare i missili atomici, di cui Putin, non dimentichiamo, è dotato più ancora degli Stati Uniti: oltre 6 mila testate atomiche, 50 delle quali sarebbero sufficienti a distruggere l’umanità.

Di qui l’irresponsabilità dei leader occidentali. Di qui l’insensatezza del dibattito in atto, che fa apparire come irresponsabili le posizioni di chi persegue la pace, e come responsabili quelle che puntano a una continuazione indefinita del conflitto. Un’escalation nucleare, dicono questi ultimi, è sommamente improbabile. Ma possiamo anche solo accettare che esista una pur limitata possibilità che l’umanità venga sterminata da un conflitto nucleare? Di che cosa stiamo parlando? Di un gioco d’azzardo la cui posta in gioco è la sopravvivenza dell’umanità? Del resto, dietro questa guerra, di cui l’Ucraina è una vittima, c’è il conflitto tra la Russia e l’Occidente. È la stessa Nato che lo riconosce quando parla di un’aggressione alle democrazie occidentali. È perciò necessario che la parte più responsabile del conflitto, ossia l’Occidente, apra una trattativa e affianchi l’Ucraina nel negoziato, con tutto il peso della propria potenza. È questa la proposta che ho avanzato più volte, richiamandomi all’articolo 51 della carta dell’Onu, secondo il quale i paesi aggrediti da un “attacco armato” hanno “il diritto naturale di autotutela individuale e collettiva” “fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.

È dunque la stessa carta dell’Onu che attribuisce questo ruolo di pacificazione al Consiglio di sicurezza, dove peraltro siedono tutte le attuali grandi potenze (Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito). Si tratterebbe, ovviamente, di una convocazione del Consiglio di sicurezza diretta non già a prendere una qualche decisione, cui la Russia opporrebbe il suo veto, ma solo a farne il luogo di una trattativa che dovrebbe svolgersi, in seduta permanente, fino a che non sia stata raggiunta la pace. In un articolo di qualche settimana fa ho affermato, in termini volutamente paradossali: “Proviamo a sognare: il Presidente degli Usa apre la seduta del Consiglio di sicurezza denunciando il carattere criminale dell’aggressione di Putin all’Ucraina ma anche ammettendo che forse anche noi abbiamo esagerato, come ha detto Papa Francesco, ad andare ad abbaiare ai confini della Russia. E aggiungerebbe: poniamo fine a questo massacro e anche all’incubo nucleare, portando a termine il patto di riduzione degli armamenti nucleari stipulato nel 1987 da Reagan e Gorbačëv, fino alla totale denuclearizzazione del pianeta; la Russia ritiri tutte le sue truppe dall’intera Ucraina. In cambio proponiamo alla Russia, e magari anche alla Cina, di entrare nella Nato e di finanziare, anche con i fondi risparmiati nelle spese militari, la ricostruzione dell’Ucraina e gli aiuti alla Russia per far uscire il popolo russo dall’attuale condizione di povertà”. Biden passerebbe alla storia come l’artefice di un salto di civiltà. L’Occidente dimostrerebbe la sua superiorità morale e politica. Si porrebbe fine all’incubo nucleare, alle guerre calde e alle guerre fredde. Ma, concludevo: naturalmente tutto questo è un sogno, non è realistico: la real-politik al potere, i nostri governanti, i nostri commentatori, preferiscono l’incubo.

Certo. Bisognerebbe capire quali sono i motivi che spingono a continuare la guerra e addirittura a fare di questa guerra una “guerra fondativa” di un altro ordine internazionale. Lei pensa che si arriverà alla fondazione di un nuovo ordine internazionale?

 No. La guerra non fonda nulla, se non odi identitari, divisioni incolmabili, volontà di vendetta e di ritorsione, consolidamento della logica del nemico. Sono odi e veleni che peseranno a lungo sulle relazioni internazionali, dando luogo a guerre fredde in grado di tramutarsi in nuove guerre calde – tra democrazie e autocrazie, tra Occidente ed Oriente, tra Paesi ricchi e paesi poveri – e in nuovi pericoli di deflagrazione nucleare. Tutto questo in un mondo sempre più armato, diviso e incattivito. Le motivazioni reali di queste politiche sono penosamente mediocri: raccattare qualche voto in più nelle elezioni di mezzo termine negli Usa, tentare una risalita nei sondaggi, affermare la superiorità dell’Occidente o al contrario quella della Grande Madre Russia; in breve, vincere sui nemici. Sembra che tutti, da una parte o dall’altra, si preoccupino soprattutto di non perdere la faccia, cioè la faccia dei leader politici, giacché i popoli sono solo le vittime di questa tragedia. Questi nazionalismi identitari ed escludenti sono la negazione dell’idea di eguaglianza, del rispetto reciproco delle differenze, del superamento dei confini, degli eserciti e degli armamenti, che sono, invece, l’oggetto di quella che abbiamo proposto come una Costituzione della Terra.

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Non c’è anche un’importante responsabilità da parte di quello che viene chiamato da diversi decenni “il complesso militare industriale”?

Naturalmente. Ne parlò esplicitamente Eisenhower, che della cosa più di tutti si intendeva, alla fine del suo mandato. È questa, tra le ragioni penose della guerra, la più orrenda e criminale. Per questo penso che l’umanità debba dar vita a una campagna per la messa al bando di tutte le armi: non solo delle armi nucleari e delle armi da guerra ma di tutte le armi da fuoco. Nel mondo ci sono quasi mezzo milione di omicidi ogni anno, la maggior parte dei quali causati da armi da fuoco. Negli Stati Uniti ci sono più armi che abitanti e almeno una strage al giorno. In Brasile ci sono 63 mila omicidi l’anno. In Italia il numero degli omicidi è bassissimo: l’anno scorso 271. Perché da noi nessuno va in giro armato. In America, invece, tutti si armano per paura, per la sola gloria delle imprese produttrici di armi, le cui lobby, cioè la corruzione – chiamiamo le cose con il loro nome! – condizionano il Congresso. Per questo non si riesce a impedire questo massacro: centinaia di migliaia di omicidi, di suicidi, di incidenti e di stragi, senza contare le tante guerre che alimentiamo con la vendita delle armi.

Insomma, la produzione, il commercio e la detenzione di armi, di cui l’Italia è uno dei massimi protagonisti, dovrebbero essere proibite. È questa una delle norme del progetto di “Costituzione della Terra”, dove tutte le armi da fuoco sono configurate come “beni illeciti”. Come insegnò quasi quattro secoli fa Thomas Hobbes, che pure fu il teorico dello Stato assoluto, è solo con il disarmo dei consociati e il monopolio poliziesco della forza che si produce il passaggio dallo stato selvaggio di natura allo stato civile. Precisamente, all’interno degli Stati nazionali la pace si raggiunge disarmando i cittadini e così ponendo fine alla guerra civile e alla legge del più forte. La pace internazionale, analogamente, si realizza con il disarmo degli Stati. È una tesi che fu con forza enunciata da Immanuel Kant, nella sua Pace perpetua del 1796, che affermò la necessità di superare gli eserciti nazionali e di istituire il monopolio sovrastatale della forza. Naturalmente questa forza sovranazionale sarebbe solo di tipo poliziesco, e non avrebbe bisogno di armi nucleari, di carri armati, di aerei o di bombe, ma solo della forza di cui attualmente dispongono le forze di polizia. Una volta, nei Paesi più avanzati, era un vanto che le forze di polizia fossero addirittura disarmate. Il grado di civiltà di un Paese si misura dalla massima riduzione della violenza, non solo della violenza criminale, ma anche della violenza poliziesca.

Professor Ferrajoli, vorrei tornare al “sogno” di cui parlava prima, che condivido profondamente. Se non ho capito male lei afferma che il primo passo per la descalation e la soluzione dovrebbe farlo Biden…

No, il primo passo dovrebbe farlo l’Europa, e anche il “nostro” Draghi. Questi uomini politici – incluso Biden, naturalmente – sapevano perfettamente della guerra imminente, ma non hanno fatto nulla per impedirla, garantendo per esempio il non ingresso dell’Ucraina nella Nato. Né tanto meno hanno fatto qualcosa per porre fine alla guerra. Questi cosiddetti leader, in realtà, non hanno una vera ambizione. È facile essere tutti uniti, anche nell’irrazionale. Un uomo come Draghi, per esempio, che non appartiene a nessun partito politico e che è una persona stimata a livello mondiale, passerebbe alla storia se facesse la proposta qui illustrata, contro cui è difficile muovere obiezioni: riunire il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e anche l’Assemblea generale in seduta permanente, finché non si raggiunga una soluzione basata sulla pace. Non semplicemente su nuovi confini, sull’equilibrio delle forze in campo, sulla neutralità di qua e di là. No! La soluzione, ripeto, dovrebbe consistere nel portare a termine il trattato sul disarmo concluso nel 1987 e disdetto da Trump nel 2019. Oggi, nel mondo, ci sono 13.132 testate nucleari (erano 70.300 nel 1986), in possesso di nove paesi: 6.257 in Russia, 5.550 negli Stati Uniti, 350 in Cina, 290 in Francia, 225 nel Regno Unito, 165 in Pakistan, 160 in India, 90 in Israele e 45 nella Corea del Nord. Ma il 2 agosto 2019 gli Stati Uniti di Donald Trump si sono ufficialmente ritirati da quel trattato, riaprendo così la corsa agli armamenti, a beneficio delle lobby dei produttori di armi e a dispetto del Trattato sul disarmo votato un anno prima, il 7 luglio 2017, da ben 122 paesi, cioè dai due terzi degli Stati membri dell’Onu.

Ebbene, se Biden fosse all’altezza del suo ruolo di capo della maggiore potenza mondiale, dovrebbe proporre la denuclearizzazione del pianeta. Un progressivo disarmo, e una rifondazione dell’Onu. Basata sul rispetto delle differenze e sulla riduzione delle diseguaglianze. Perché non possiamo continuare decentemente a declamare i diritti fondamentali e l’eguaglianza come i valori fondamentali dell’Occidente, se questi sono soltanto valori dell’Occidente, attuati, oltre tutto malamente, soltanto a beneficio di una persona su 8, cioè di un miliardo di persone sui quasi 8 miliardi di persone che vivono sulla Terra. Giacché fuori dell’Europa e dell’America, nel resto del mondo, i diritti di libertà e più ancora i diritti sociali, benché proclamati in tante carte dei diritti umani, sono violati e niente affatto garantiti. In gran parte per colpa del civile Occidente. Abbiamo un passato di conquiste coloniali e un presente non meno vergognoso di rapine e sfruttamento del resto dell’umanità. Per questo parole come uguaglianza, dignità di qualunque persona e diritti umani sono solo parole demagogiche se questi principi non verranno garantiti a tutti, in forza del loro declamato carattere universale: se non verrà realizzato un servizio sanitario mondiale, dotato dei mezzi sufficienti a garantire a tutti la salute costruendo in tutto il mondo ospedali e rendendo accessibili a tutti i vaccini e i farmaci salva-vita: non i quattro miliardi ogni due anni di cui dispone l’Oms odierna, ma semmai 4.000 miliardi l’anno. E lo stesso vale per la FAO, per la garanzia dell’istruzione e della sussistenza, e per la tutela dell’ambiente. Sono queste le sfide che vanno affrontate dal diritto. Si dovrebbe capovolgere la vecchia tesi che “non ci sono alternative all’esistente”. Certo che ci sono! Occorre anzi dire il contrario: non ci sono alternative alla distruzione dell’umanità, che non sia la rifondazione del patto mondiale di convivenza, ossia una “Costituzione della Terra” o comunque un insieme di trattati costituzionali sulle varie sfide globali, rigidamente sopraordinate a tutte le fonti esistenti, statali e sovra-statali.

Sulla Costituzione della Terra

 Nel suo ultimo libro, a cui ha fatto più volte riferimento, “Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio” (Feltrinelli, 2022), lei pone l’attenzione soprattutto sui diritti umani e sulle garanzie necessarie per renderli effettivi. Nella sua prospettiva le garanzie svolgono un ruolo cruciale quali condizioni del rispetto e dell’attuazione dei diritti fondamentali a livello planetario. Johan Galtung, pensatore di primo piano della cultura pacifista e nonviolenta contemporanea, ritiene che i diritti umani vadano ripensati a partire da una loro estensione. Al di là del problema centrale delle garanzie, quindi, se prendiamo per buone le osservazioni critiche di Galtung, ci sarebbe bisogno di pensare ad un processo di allargamento della Carta che ha sancito i diritti umani nel 1948. Che ne pensa?

 Certamente ci sono nuovi diritti che dovrebbero essere introdotti: il diritto all’alimentazione di base e all’acqua potabile e, in generale, tutti i diritti all’accesso a beni vitali e alla difesa dai beni micidiali. Il linguaggio dei diritti è infatti insufficiente a garantire quelli che ho chiamato beni fondamentali perché vitali e a proteggerci dai beni illeciti perché micidiali. Le garanzie a sostegno dei primi, come sono l’acqua potabile, l’aria incontaminata, le foreste e i grandi ghiacciai, così come quelle dirette alla messa al bando dei secondi, come le armi, i rifiuti tossici e le emissioni di gas serra devono essere garanzie oggettive: per esempio un demanio planetario dei beni comuni e una rigida proibizione globale della produzione dei beni micidiali. La Terra, secondo un vecchio slogan, è l’unico pianeta che abbiamo. E il vero interesse pubblico non è più l’interesse nazionale, ma l’interesse dell’umanità alla sua sopravvivenza e alla convivenza pacifica. È solo una Costituzione della Terra che può offrire una risposta alle grandi sfide che minacciano l’umanità. La denuncia di queste minacce, infatti, non basta. Occorre accompagnarla con una risposta politica, cioè rivendicare l’allargamento all’intero pianeta delle garanzie costituzionali. Quando ci dicono che non esistono alternative, dobbiamo replicare che l’alternativa esiste, ed è l’alternativa di un costituzionalismo globale, esattamente opposta a quanto di fatto accade.

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L’articolo 1 del Progetto per una Costituzione della Terra è un articolo importantissimo, perché gli esseri umani sono pensati insieme all’ecosistema planetario e agli altri esseri viventi che ne fanno parte. Ma non utilizza la categoria, impiegata nelle costituzioni dell’Ecuador e della Bolivia, dei “diritti della natura”. Come mai ha pensato che non fosse necessario specificare l’esistenza dei diritti della natura?

Perché è un’espressione grammaticalmente scorretta. “Diritti della natura” è un’espressione retorica. I diritti sono situazioni giuridiche delle persone in grado di attivarle, cioè di esercitarle e di azionarle di fronte ai giudici. Viceversa la natura non è un soggetto, ma un oggetto di tutela. Una sua garanzia, per esempio, è il demanio planetario, di rango costituzionale, previsto dall’art. 49 della Costituzione della Terra che ho proposto. Oggi i beni demaniali, in Italia ma anche negli altri Paesi, sono previsti dal codice civile, che è una legge ordinaria, ed è stato quindi possibile, con un’altra legge ordinaria, sdemanializzare e privatizzare taluni di loro, come per esempio l’acqua delle sorgenti e le ferrovie. Solo prevedendo il loro statuto di beni demaniali nella Costituzione, essi possono essere sottratti al mercato e alla disponibilità della politica.

Insomma, la natura, della quale facciamo parte, non è un soggetto tra gli altri, ma il nostro mondo, il nostro contesto. È molto di più di un semplice soggetto di diritti soggettivi. È la nostra casa comune. Il nostro mondo va al di là di noi stessi, che siamo, in fondo, una delle tante specie animali che per di più ha raggiunto un progresso che può portare alla distruzione del pianeta, se non provvediamo alla sua salvaguardia, insieme a quella di tutti gli esseri viventi.

Nel suo ultimo libro, e come ha ricordato anche prima, lei parla anche dell’esistenza di “crimini di sistema”. Questa sua categoria mi suggerisce due idee: la prima è l’ambiguità del termine, che rimanda ad un sistema Terra, verso cui si commettono dei crimini, cioè all’esistenza di un vero e proprio sistema criminale; la seconda è legata ad un filosofo francese del diritto contemporaneo, Alain Supiot, che ritiene che sia in corso un cambiamento della natura del diritto, e che il diritto come lei lo sta pensando, legato al principio del “pacta sunt servanda”, ossia il diritto moderno di cui parlano Hobbes, Kant e Norberto Bobbio e che serve come strumento di regolazione pubblica, non esista più. Secondo lui il diritto, soprattutto a livello internazionale, è legato al diritto privato e al principio di utilità ormai divenuto sistema. Cosa ne pensa di queste due idee?

Sul piano descrittivo Supiot ha ragione. Ma a quanto accade è necessario proporre ed opporre un’alternativa. Il riscaldamento climatico, gli armamenti nucleari, le guerre, la crescita delle disuguaglianze, il fatto che 8 milioni di persone ogni anno muoiano a causa di malattie non curate benché curabili e altrettante muoiono per sete, fame e mancanza di alimentazione di base, sono fenomeni che non sono trattabili dal diritto penale. Essi consistono infatti non già in comportamenti determinati di determinate persone, bensì in sistemi di vita che coinvolgono talora miliardi di persone. Per questo li ho chiamati “crimini di sistema”. Non sono imputabili come singole azioni alla responsabilità di singole e determinate persone. E tuttavia non sono neppure fenomeni naturali, bensì violazioni massicce di diritti fondamentali, dovute all’attuale capitalismo sregolato, che è compito del diritto e prima ancora della politica prevenire e impedire. Dobbiamo insomma liberarci dalla subalternità al diritto penale, in forza della quale sono considerati crimini solo quelli che vengono previsti dal diritto penale e trattati dalla giustizia penale.

Ecco perché davanti a questi crimini di sistema non serve il diritto penale, ma occorre predisporre garanzie ben diverse, come per esempio il demanio planetario a tutela dei beni vitali, dall’acqua potabile all’aria, alle grandi foreste e ai grandi ghiacciai e, per altro verso, il divieto di produrre beni micidiali come le armi e le emissioni tossiche. Il mercato, infatti, deve essere sottoposto a regole, non meno degli Stati. L’espressione “stato di diritto” è emblematica: solo lo Stato e non anche il mercato sarebbe il luogo dei poteri che occorrerebbe sottoporre al diritto. E invece i poteri economici sono non meno invasivi e distruttivi, in assenza di limiti e vincoli, dei poteri economici privati. Rispetto al passato, inoltre, il mondo è profondamente cambiato: gli Stati sono impotenti e impotenti sono le politiche nazionali di fronte ai grandi poteri economici e finanziari che spesso sono ben più potenti degli Stati; lo sviluppo industriale è fuori controllo, dato che ogni anno viene immessa nell’atmosfera una quantità di anidride carbonica maggiore dell’anno precedente; crescono le disuguaglianze e conseguentemente la criminalità, i fondamentalismi, i terrorismi e, insieme, le migrazioni di quanti fuggono dai cataclismi naturali, dalle persecuzioni e dalle guerre. Di fronte a tutto questo il diritto degli Stati è impotente. E lo è anche il diritto internazionale, a cominciare dalla Carta dell’Onu e dalle tante carte dei diritti umani, fatte di promesse non mantenute, non essendo state introdotte le necessarie garanzie, che avrebbero richiesto adeguate norme di attuazione. C’è infatti una differenza strutturale tra i diritti fondamentali e i diritti patrimoniali. Mentre i diritti patrimoniali nascono insieme alle loro garanzie – il credito insieme al debito, la proprietà privata insieme al divieto di lederla – la stipulazione di un diritto fondamentale, per esempio il diritto alla salute richiede, se vogliamo che sia effettivo, che siano introdotte le sue garanzie, cioè il servizio sanitario pubblico, gratuito e universale. Lo stesso vale per il diritto alla vita. Se non introduciamo il reato di omicidio, cioè il divieto di uccidere, esso resta sulla carta. Stipulare una Costituzione della Terra altro non è che prendere sul serio il diritto internazionale vigente, dove già esistono il principio della pace e i diritti umani, introducendo le loro garanzie, cioè le funzioni e le istituzioni globali di garanzia a tali principi corrispondenti.

Nel suo progetto per una Costituzione della Terra, all’articolo 32 viene sancito il “diritto alla pace”. La nascita dell’Onu, nel 1945, fu finalizzata essenzialmente a garantire la pace universale. La pace è d’altro canto il primo valore anche sul piano del diritto statale di alcuni ordinamenti. Penso al recente accordo di pace colombiano tra le Farc e l’allora governo Santos, dove esso diviene il presupposto per tutti gli altri diritti. Perché, allora, non considerare il “diritto alla pace” come l’articolo principale della “Costituzione della Terra”, il “diritto dei diritti”, oppure, secondo la classica espressione di Hannah Arendt, il “diritto di avere diritti”?

Il diritto alla pace, non meno del diritto alla vita. La pace è la ragion d’essere delle Nazioni Unite, il principio costitutivo del diritto internazionale come ordinamento. Ma non basta declamarlo. Occorre introdurre le relative garanzie; le quali non consistono solo nel divieto della guerra di aggressione, già introdotto nello statuto della Corte Penale Internazionale, che peraltro non è stato ratificato dagli Stati più potenti, dalla Russia agli Usa, a Israele e alla Cina. Le garanzie maggiori consistono nella messa al bando delle armi e nella soppressione, già auspicata da Kant, degli eserciti nazionali, i quali servono solo a fare le guerre oppure colpi di Stato nei confronti dei loro stessi paesi. È questo che hanno sempre fatto. In un ordinamento fondato sulla pace gli eserciti non hanno alcuna ragione di essere. Tra l’altro comportano delle spese gigantesche, enormemente cresciute in questi anni.

Aggiungo che ho scritto questo “Progetto per una Costituzione della Terra” soprattutto per mostrare che la prospettiva di un costituzionalismo globale è possibile. Contro il realismo volgare della formula “non ci sono alternative”, ho voluto mostrare che una Costituzione della Terra non solo è possibile, ma rappresenta l’attuazione e per così dire l’inveramento dei principi di uguaglianza e dei diritti umani, che sono universali o non sono. Naturalmente non mi faccio illusioni sulla realizzazione delle sue norme più radicali. Sarebbe sufficiente che entrasse nel dibattito pubblico; che si prendesse coscienza del fatto che abbiamo alle spalle una tradizione, quella del costituzionalismo rigido, non a caso inventato all’indomani della seconda guerra mondiale, che esclude l’esistenza di poteri assoluti o sovrani e sottopone la legge e le altre fonti normative alla coerenza con una Costituzione.

Dobbiamo infatti essere consapevoli del fatto che la sovranità è in contraddizione con il costituzionalismo, non essendo ammessi, in presenza di costituzioni rigide, poteri legibus soluti. Una norma successiva e in contrasto con la Costituzione non deroga, nel paradigma costituzionale, alla costituzione, ma è destinata ad essere annullata da una Corte Costituzionale. Questo stesso schema può essere applicato a livello mondiale, attraverso una Costituzione della Terra o una serie di trattati, dotati di rigidità. Una simile Costituzione non emargina gli Stati nazionali, ma li trasforma in Stati federati di un’unica federazione della Terra. Il mondo, del resto, è paradossalmente sempre più piccolo. 60 anni fa eravamo solo 2 miliardi, un quarto degli attuali 8 miliardi. Ma oggi siamo tutti interconnessi. Quello che succede dall’altra parte del mondo è sotto i nostri occhi. La stessa diseguaglianza non solo è cresciuta, ma è diventata intollerabile perché molto più visibile. Nello stesso tempo siamo tutti sottoposti al governo selvaggio dei poteri economici che imperversano sul pianeta senza limiti né vincoli. Anche questo è un elemento comune a tutti i popoli della Terra. Infine siamo esposti tutti alle stesse catastrofi, alle stesse sfide e agli stessi pericoli. Né dobbiamo stupirci degli odi che crescono nei confronti dell’Occidente. Non dobbiamo dimenticare che la storia dell’Occidente è stata una storia di conquiste e colonizzazioni, che per secoli abbiamo depredato il resto del mondo e che oggi continuiamo a farlo con la globalizzazione. È chiaro che il consenso ai nostri “valori” – alla pace, all’uguaglianza, ai diritti umani – ci sarà soltanto quando essi saranno presi sul serio, non soltanto declamati ma garantiti ugualmente a tutti; quando non ci saranno cittadinanze pregiate e cittadinanze che non valgono nulla ma unicamente la cittadinanza di tutti gli esseri umani in quanto persone; quando il diritto di emigrare teorizzato da noi occidentali a scopo di conquista sarà effettivamente garantito a tutti.

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Oltre il Realismo, una nuova rifondazione della politica e della democrazia

Mi trova d’accordo anche sui diversi tipi di realismo.

Il realismo politico volgare – quello secondo cui non ci sono alternative a quanto accade – è completamente irrealista. È irrealista perché ignora le conseguenze di quanto accade: la distruzione del pianeta, la possibilità di guerre infinite, la possibile deflagrazione nucleare.

Certo. Tra l’altro il realista si muove in base ad una visione riduttiva dell’essere umano che è molto pericolosa, in ultima istanza, anche dal punto di vista dell’analisi. Proprio per questo vorrei continuare a discutere della sua proposta di Costituzione planetaria. Dato che lei ha detto che “la politica è impotente”, se noi pensiamo alla democrazia costituzionale nata dopo la seconda guerra mondiale, alla democrazia liberale attuale, con il suo impianto giuridico-istituzionale che lei conosce benissimo, e di cui è maestro, ci troviamo di fronte ad un problema fondamentale che l’attraversa da diverso tempo: la partecipazione alla sfera pubblica e al potere collettivo si è estremamente ridotta. Addirittura si dà una forte riduzione della partecipazione al voto. Solo per dirne una. Per cui alcuni, come me, che ritengono che siamo in una situazione di “postdemocrazia”, il problema è molto profondo. Questo problema fa il paio con l’osservazione di Norberto Bobbio sulla grundnorm di Kelsen (la norma fondamentale alla base dell’ordinamento giuridico, che permette al diritto di fondarsi su se stesso, ndr). Bobbio, infatti, cercò di armonizzare questa norma fondamentale con un’evidenza difficile da bypassare, ossia con il potere politico alla base del processo costituente. Ciò richiama necessariamente il processo politico al momento in cui si mette in piedi una nuova Costituzione. Quindi, per riassumere le due idee, se ogni processo costituente è mosso anche da un potere politico, e se le nostre democrazie sono in crisi di partecipazione e in una situazione di criminalità sistematica a livello planetario, quale potere politico neocostituente prevede che accompagni questo nuovo tipo di Costituzione planetaria?

Il mondo, in questi ultimi 70 anni, è cambiato radicalmente. Le nostre democrazie avevano raggiunto il loro perfezionamento normativo con il costituzionalismo democratico e rigido. Ma il costituzionalismo nazionale è assolutamente impotente rispetto alle grandi sfide globali, che in passato non esistevano: non c’era la sfida atomica, non c’era il riscaldamento climatico, non c’erano i fenomeni di migrazione provocati dalle nostre politiche, non c’era la crescita della diseguaglianza in maniera così sistematica, strutturale e soprattutto scandalosamente visibile. Di fronte a queste novità, dobbiamo riconoscere due aporie della politica: le politiche degli Stati sono ancorate ai tempi brevi delle elezioni e agli spazi ristretti dei loro territori. Quindi non possono farsi carico delle sfide globali. Naturalmente fanno tante promesse, le quali tuttavia sono destinate ad essere accantonate dalle politiche contingenti, legate alla demagogia del momento, cioè a problemi tutti interni e non certo ai problemi globali che semplicemente vengono ignorati, anche se essi, come il riscaldamento climatico o il pericolo nucleare, minacciano la fine dell’umanità. C’è insomma una penosa asimmetria tra il carattere globale dell’economia e il carattere locale della politica. È difficile in queste condizioni essere ottimisti. Sappiamo che, se non faremo nulla, il mondo andrà incontro alla catastrofe, anzi a più catastrofi – ecologiche, nucleari, umanitarie per la crescita esplosiva delle diseguaglianze, dei terrorismi, dei fondamentalismi, degli scontri di civiltà, degli odi identitari, dei razzismi, delle tante logiche del nemico. Però è anche possibile che, nel momento in cui queste catastrofi diventano attuali perché cominciano a manifestarsi – come è accaduto con la pandemia che non conosce confini e sta colpendo l’intero genere umano, e ora  con la guerra che rischia di degenerare in una guerra nucleare – è possibile, quando si comincerà a capire che siamo sull’orlo dell’abisso, che si produca un risveglio della ragione, che la politica e la democrazia tornino ad essere motori di progresso e non di regresso; che la politica torni ad animare soprattutto le giovani generazioni, penso al movimento di Greta Thunberg, che peraltro non possono più limitarsi a denunciare quello che tutti sanno, come la catastrofe del riscaldamento climatico, ma devono rivendicare, come risposta realistica e razionale in grado di unificare tutte le varie sfide e i vari problemi, i limiti e i vincoli imposti da una Costituzione della Terra. La Costituzione della Terra deve insomma diventare un progetto politico in grado di rifondare la politica introducendo garanzie all’altezza dei problemi globali: pensiamo alle norme sul lavoro previste dai suoi articoli 42-44, che non consentono di delocalizzare le produzioni senza il consenso dei dipendenti; al demanio planetario, alla messa al bando delle armi, a tutta la tematica dei beni vitali e a quella opposta dei beni micidiali. Le istituzioni di garanzia potranno essere congegnate in maniera diversa da come le ho pensate, ma l’importante è mostrare che “un altro mondo è possibile”, e che è possibile una politica diversa, che prenda sul serio proprio quei valori che declamiamo come valori dell’Occidente – la pace, l’eguaglianza, la dignità della persona, i diritti fondamentali – e che devono diventare, per non tramutarsi in una vuota retorica, valori e principi garantiti in tutto il mondo.

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In questa rifondazione della politica che ruolo gioca il ripensamento dei processi democratici, ossia la crisi della democrazia rappresentativa e quindi le istanze di una maggiore democrazia partecipativa e diretta?

Le forme della rappresentanza democratica sono oggi in crisi, essendo venuto meno il radicamento sociale dei partiti. Andrebbero perciò rafforzate. Penso tuttavia che la democrazia rappresentativa resti insostituibile, pur se integrata da forme di democrazia diretta, come i referendum.  Soprattutto a livello mondiale la rappresentanza è una strada obbligata. Vorrei però sottolineare che la questione della rappresentanza politica non è affatto, a livello globale, il principale problema. Ciò di cui abbiamo bisogno, infatti, non è un governo mondiale. Le funzioni di governo è bene che restino prevalentemente a livello statale, dato che sono tanto più rappresentative quanto più sono locali, cioè vicine agli elettori. Ciò di cui abbiamo bisogno sono invece le istituzioni globali di garanzia in tema di pace, di salute, di ambiente e non certo un governo mondiale. Ho più volte distinto due classi di istituzioni che richiedono di essere separate: le funzioni di governo, legittimate dalla rappresentanza, competenti in quella che ho chiamato  la sfera del “decidibile” (cioè di ciò che può essere deciso), e le istituzioni di garanzia, sia  primaria come la scuola, l’istruzione e la sussistenza, che secondaria come le garanzie giurisdizionali, che al contrario sono poste a presidio di quella che ho chiamato la sfera del “non decidibile” (cioè di ciò che nessuna maggioranza, neanche l’umanità può decidere o non decidere) e che consiste nell’inviolabilità dei diritti di libertà e nell’attuazione dei diritti sociali alla salute, alla sussistenza, alla pace e all’ambiente. Le istituzioni di garanzia non sono istituzioni di potere, ma di contro-potere, dato che impongono limite e vincoli ai poteri. Naturalmente le istituzioni di governo globale vanno perfezionate, stabilendone la rappresentatività e sopprimendo il veto delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Ma ciò che conta, nella democrazia costituzionale, è soprattutto la costruzione delle funzioni e delle istituzioni globali di garanzia entro un modello federale.

Seguendo il suo ragionamento e l’impianto della proposta, mi sembra si possa affermare che il nazionalismo dovrebbe essere messo al bando, perché altrimenti tutto potrebbe saltare e non reggere.

Esistono due concezioni del nazionalismo. Ci sono i nazionalismi aggressivi e identitari, che sono quelli che hanno portato agli orrori della prima e della seconda guerra mondiale e che stanno riemergendo, con il rischio di portarci alla terza guerra mondiale che sarebbe ben più terribile delle altre due. Sono i nazionalismi fondati sull’intolleranza delle differenze, cioè delle altre nazionalità, e su una stupida volontà di potenza e di sopraffazione. Sono, naturalmente, in contraddizione con il principio di uguaglianza, che ho più volte ridefinito come l’uguale valore associato a tutte le differenze e il disvalore associato alle disuguaglianze, cioè come la tutela delle differenze attraverso la garanzia dei diritti di libertà e la riduzione delle diseguaglianze attraverso la garanzia dei diritti sociali. Ma c’è anche un altro tipo di nazionalismo, espresso, nella nostra tradizione italiana, da figure come Mazzini o Cattaneo o Garibaldi e più recentemente Emilio Lussu: le nazionalità, secondo questo diverso nazionalismo, sono fattori dell’identità delle persone e, come tali, vanno tutelate attraverso le garanzie di tutte le differenze linguistiche, culturali, religiose e comunque legate alle loro tradizioni, sulla base del rispetto reciproco e della pacifica convivenza. La svolta da questo nazionalismo rispettoso di tutte le nazionalità al nazionalismo aggressivo si è avuta, in Italia, nella seconda metà dell’Ottocento, allorquando, dopo aver conquistato l’indipendenza nazionale, abbiamo coltivato piccole ambizioni coloniali con le nostre avventure in Eritrea, in Somalia e in Libia, fino alla guerra fascista in Etiopia. Forse il nazionalismo di figure come Mazzini o Lussu potrebbe anche non chiamarsi “nazionalismo”.

…già, forse non andrebbe chiamato così…

Infatti un nazionalismo basato sulla valorizzazione e il rispetto di tutte le differenze, a cominciare da quelle nazionali concepite non già come fattori di esclusione, ma semmai come fattori di inclusione perché fonti di conoscenza e di reciproco scambio. Trovo infatti molto più interessanti le differenze, che sono tutt’uno con la dignità delle persone, che le identità. Una persona identica a me stesso non avrebbe per me nessun interesse. È chiaro che quando parliamo di nazionalismo aggressivo pensiamo a quello fascista o variamente imperialista, che ha provocato, e sta provocando, gli orrori che tutti conosciamo. In questo senso il nazionalismo dovrebbe essere messo al bando, come il razzismo: perché è un nazionalismo che è la negazione del valore di tutte le nazionalità, cioè delle innumerevoli differenze culturali, religiose e, appunto, nazionali che hanno diritto a convivere sul nostro pianeta e a confrontarsi e a contaminarsi.

Un modello di processo neocostituente da estendere a livello planetario non potrebbe essere quello che sta succedendo oggi in Cile?

Sì. È in atto, in Cile, un processo di crescita democratica e di costituzionalizzazione dell’ordinamento dopo gli anni di Pinochet, dopo il crimine del colpo di stato contro Allende, che tra l’altro – non dimentichiamolo – fu promosso sostanzialmente dagli Usa. Noi “Occidente”, che oggi difendiamo giustamente la libertà del popolo ucraino contro l’aggressione russa, non dobbiamo dimenticare che abbiamo avallato e talora promosso le tante dittature latinoamericane e più recentemente scatenato le guerre di aggressione in Iraq, in Jugoslavia, in Afghanistan, in Libia.

Oggi in Cile c’è lo stesso tipo di processo costituente che abbiamo vissuto noi, in Italia e in Germana, dopo la caduta del fascismo e del nazismo. È un processo che va promosso e incoraggiato. Esso si alimenta della partecipazione diretta dei cittadini, ma anche del contributo e dell’impegno della cultura giuridica e della cultura progressista. Perché c’è un’enorme responsabilità della cultura giuridica e politica: il mondo della politica, del diritto e dell’economia è un mondo artificiale: è perciò come lo pensiamo e lo progettiamo. Ma per pensarlo e progettarlo è necessario lo sviluppo della teoria politica e giuridica. I padri costituenti delle nostre democrazie si chiamano Locke, Montesquieu, Rousseau, Beccaria e Marx. Perché senza un pensiero teorico che pensa e progetta le alternative a ciò che “naturalmente” accade, la politica è cieca e finisce con il rendersi schiava o degli interessi personali dei politici al potere oppure dei grandi poteri economici e finanziari, oppure, e più spesso, degli uni e degli altri.

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