Negli ultimi cinque anni l’economia globale ha consumato oltre 582 miliardi di tonnellate di materiali, ovvero una quantità quasi pari a quella utilizzata lungo tutto il XX secolo. Questo dato, riportato nel Circularity Gap Report 2024, restituisce l’insostenibile accelerazione del consumo alla base del “take-make-waste” (prendi, usa, getta): un paradigma bulimico in virtù del quale abbiamo divorato freneticamente le risorse del Pianeta e rigettato enormi quantità di rifiuti, finendo per spingerci oltre i limiti planetari – le 9 soglie ecologiche entro cui l’umanità può operare evitando di compromettere la stabilità della Terra.
Ma non solo: a risultare senza precedenti è adesso anche il raggiungimento di un ennesimo limite, implicito ma strutturale come quelli ecologici, che il report chiama “saturation point”. Questo punto cruciale è precisamente il momento in cui il consumo, distruggendo gli ecosistemi e amplificando le disuguaglianze, smette di garantire un reale miglioramento del benessere umano: i Paesi “Shift” ad alto reddito – tra cui Stati Uniti, Giappone, Regno Unito e Canada – che registrano il 17% della popolazione mondiale ma un utilizzo di risorse nettamente superiore (cioè il 25% delle materie prime globali e il più alto consumo pro capite di minerali non metallici e combustibili fossili) non possono più giustificare il consumo illimitato di materia in nome del progresso, visto che non si traduce più necessariamente in un benessere proporzionale.
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L’iperconsumo non giustifica i mezzi
La cartina tornasole delle trasformazioni sociali, economiche e culturali oggi si intinge in un solvente saturo, che è la società dei consumi, e il risultato che restituisce non è più una misura del progresso o del benessere collettivo, ma del grado di dipendenza della società stessa dal consumo. Una dipendenza, questa, che si è insinuata negli immaginari collettivi, nelle nostre quotidianità e gesti più banali: il sorriso strappato da uno slogan pubblicitario, lo sguardo catturato dalle offerte in vetrina, lo stupore per la notifica che annuncia uno sconto esclusivo, o la felicità anticipata di un pacchetto consegnato alla porta.

Persino gli oggetti, sotto il peso di questa dipendenza, mutano forme e funzioni: molti nascono obsolescenti, cioè non vengono più progettati per durare ed essere riparabili, e altrettanti nascono invece superflui, ovvero pensati per essere usati e gettati senza che nel frattempo svolgano una funzione capace di soddisfare un reale bisogno.
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L’inutile dilettevole. Perché acquistiamo oggetti superflui?
Specifica l’economista e filosofo francese Serge Latouche, che il meccanismo di iperconsumo “insiste sulla domanda di beni di grande utilità, ma anche di alta futilità”: il sondaggio che egli riporta nel libro “Usa e getta”, e che è realizzato sui presidenti delle maggiori società americane, rivela che “l’85% degli intervistati dichiara che la pubblicità convince frequentemente le persone ad acquistare delle cose di cui non hanno bisogno, e il 51% aggiunge che la pubblicità convince le persone a comprare cose che non desiderano veramente”. Così montagne di prodotti riempiono tasche, case e immaginari, e poi pattumiere, discariche e habitat naturali nel giro del breve tempo che intercorre tra l’euforia dell’usa e la delusione del getta.
L’accumulo di beni superflui, indice del raggiungimento del punto di saturazione, è un fenomeno a lungo sostenuto da un immaginario collettivo iperstimolato dal bisogno di novità che celebra la logica del “più è sempre meglio”. Chiunque di noi, infatti, ha almeno un oggetto inutile nascosto da qualche parte in casa, forse nell’ultimo cassetto dell’armadio, in cantina, oppure in un angolo dimenticato del ripostiglio: potrebbe essere la tazza elettronica che raffredda le bevande, con tanto di display per la temperatura, oppure il macina-spezie smart, ricaricabile con batterie per triturare i grani al posto. In apparenza innovativi, abbiamo acquistato oggetti come questi per poi lasciarli inutilizzati e gettarli nel “cassetto delle cose dimenticate” insieme alle pantofole riscaldabili e al porta-banana in plastica – in negozio sembrava una trovata geniale per una merenda fuori casa. Quando riapriamo quel cassetto, soltanto un pensiero è più veloce della mano che subito lo chiude: perché mai ho comprato questi oggetti?
La corsa all’automazione di minuzie per risolvere micro fastidi trasforma la quotidianità in una sequenza di interazioni con dispositivi che tentano maldestramente di alleggerirci la vita riempiendola di nuove necessità, quelle della società dei consumi: perché fermarsi alla cucina quando si possono aggiungere al carrello la mini-aspirapolvere wireless per tastiera o la spazzola elettrica per pulire piatti e bicchieri? Se poi se troppo stanco persino di acquistare gli oggetti non preoccuparti: la caraffa filtrante Infinity si connette al wi-fi e, monitorando costantemente lo stato del suo filtro, effettua da sé un ordine su Amazon quando è tempo di sostituirlo.

Oggetti a misura di consumo, non di consumatore
Segnaposti di mancanze, come soprammobili al posto di fotografie, gli oggetti inutili arredano la nostra vita in virtù della loro capacità di accomodare, soltanto per qualche tempo, i nostri occhi o la nostra mente: l’estetica accattivante, come quella dei soffioni per doccia con luci a LED che cambiano sette colori, e la promessa di semplificarci la vita sussurrata all’orecchio dalle pubblicità dei dispenser elettronici di sapone sono precisamente ciò che innesca un’estasi consumistica dalle interminabili code, carrelli strabordanti e server online che restituiscono l’errore 500.13, tipicamente associato a un sovraccarico di richieste.
Soltanto nel momento in cui la frenesia degli acquisti si quieta sorge il dubbio che quegli oggetti non siano mai stati davvero a misura di consumatore, ma unicamente a misura di consumo. Sorge il dubbio, in altri termini, che tali oggetti, lungi dall’essere realmente utili e “super vantaggiosi!”, siano sempre stati silenziosamente in agguato dagli scaffali, meschini dietro alle loro etichette “in promozione” o “3×2” e capaci di individuare facilmente il ventre molle della preda, il nostro punto più debole: il fatto, cioè, che riponiamo sincera fede nei cost killers, nelle formule magiche del marketing e nel giorno del Black Friday, nonché nell’assurda speranza che ciò che compriamo possa essere capace di durare e di soddisfarci per sempre.
Invece, una volta che sbustiamo e scartiamo frettolosamente i vari involucri di carta e plastica – compiendo un rituale che prelude a un climax interrotto – ciò che ci resta tra le mani è spesso un oggetto tozzo, che non assomiglia a quello patinato della sua pubblicità e che per questo ha perso il fascino nel momento in cui ha perso il suo packaging.
La vera domanda, forse, non è “perché acquistiamo oggetti superflui?”, ma “com’è possibile che siano stati prodotti?”, mostri di ecodesign dai costi visibili e nascosti elevati: più risorse per produrli, più energia per alimentarli, più rifiuti quando inevitabilmente diventano obsoleti.
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Il divertissement e l’advertisement
Il “divertissement” offerto dalle pubblicità e dal consumo è fugace, ma ha conseguenze durature. La delusione e quel po’ di vergogna che seguono gli acquisti futili sono precisamente quelle sensazioni che ci fanno riporre l’oggetto in spazi remoti della casa o direttamente nella spazzatura; ma sono anche le stesse sensazioni che permettono al ciclo dei consumi di ricominciare da capo.
Infatti, è proprio la frustrazione di non aver potuto consumare qualcosa che fosse pienamente appagante come pareva dalle pubblicità a spingerci a rifare acquisti impulsivi. Saranno altri trenta secondi pubblicitari a consegnarci, ancora una volta, al piacere immediato e sfuggente di un défilé di slogan e immagini elargito a basso costo cognitivo per non impegnare (se non all’acquisto): spremi-dentifricio in plastica, macchine per i pop-corn e gilet riscaldabili, prima che venissero coperti dalla polvere domestica, erano vistosi protagonisti di questi défilé, vetrine o pop-up online, presentati come risposte efficaci a bisogni di comodità e novità più o meno indotti.
In questa veste, essi riuscivano a coinvolgerci, accarezzando la nostra vanità di consumatori e promettendoci una soddisfazione finalmente a portata di mano o di clic: una soddisfazione che si trova sempre al di là della soglia psicologica a partire dalla quale preferiamo rinunciare al vecchio, o ripararlo, per comprare il nuovo. Nel suo libro Ubik, lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick descrive sarcasticamente una di queste promesse pubblicitarie in cui la merce – Ubik – è panacea di tutti i mali, fisici e psichici insieme:
“Stufi di papille indolenti? […] Il cavolo bollito si è impadronito del vostro mondo alimentare? […] Con Ubik cambia tutto. Ubik risveglia il senso del gusto, restituisce la ricchezza del sapore alle cose, ripristinando la buona fragranza del cibo”. Una bomboletta spray dai colori vivaci rimpiazzò sullo schermo la faccia di Glen Runciter, il narratore dello spot. “Un’impercettibile spruzzatina di economicissimo Ubik scaccia la paura ossessivo-compulsiva che il mondo intero si stia trasformando in latte rappreso […] e ulteriori manifestazioni di decadimento ancora non percepite”.
D’altronde, è giusto pensare che ciò possa davvero accadere: è giusto, cioè, che l’essere umano sogni di stare meglio tramite strani Ubik, così come è giusto che creda di poter misurare la sua felicità anche attraverso il consumo, dal momento che questo non significa necessariamente “consumismo”, bensì innanzitutto entrare in un rapporto fecondo con gli oggetti e risultarne gratificato. Eppure, nello stesso tempo, il sentimento di delusione provato di fronte all’oggetto di consumo inutile quando esso improvvisamente riappare polveroso da qualche cassetto della casa o scolorito e sfigurato dalle onde del mare è, in ultima analisi, un sentimento di delusione rivolto a noi stessi. Tale sentimento è generato dal sospetto che qualcosa non torni e che forse, davvero, ci siamo illusi di poter progredire verso un mondo più equo tramite il consumo forsennato di gadget indistintamente utili e inutili – e della natura stessa intesa precisamente alla stregua di gadget – in un delirio di egocentrismo e di onnipotenza che vanamente ritenevamo autogeno e sostenibile.
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