giovedì, Agosto 14, 2025

Plastica, EJF: così riciclo e termovalorizzazione hanno fallito in Tailandia

Environmental Justice Foundation: “Gli sforzi per affrontare l'inquinamento da plastica concentrandosi sulla gestione dei rifiuti stanno fallendo completamente in Thailandia”. Necessario un “trattato globale che affronti la crisi della plastica alla fonte”

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Redazione EconomiaCircolare.com

Mentre a Ginevra siamo all’ultimo giorno di trattative per un trattato globale contro l’inquinamento da plastica, un report e un film della Environmental Justice Foundation (EJF) raccontano come dall’altra parte del mondo soluzioni basate esclusivamente sulla gestione del fine vita, che pure è essenziale, non sono sufficienti. “Gli sforzi per affrontare l’inquinamento da plastica concentrandosi sulla gestione dei rifiuti stanno fallendo completamente in Thailandia”, afferma EJF. Che parla di “false soluzioni” che “hanno distolto l’attenzione dalla causa principale: la sovrapproduzione e il consumo eccessivo. Ciò sottolinea l’urgente necessità di un accordo per un trattato che affronti la crisi della plastica alla fonte”.

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La plastica del Rayong

Come si legge nello studio EJF (False solutions: unmasking policy gaps in addressing plastic pollution in Thailand and Southeast Asia) la Thailandia è l’ottavo produttore mondiale di plastica e il 49% di questa produzione viene esportato. Secondo il rapporto, la produzione di plastica nella provincia di Rayong, da cui provengono tutte le materie plastiche vergini di origine fossile, “ha comportato malattie, distruzione dell’ambiente e crollo delle popolazioni ittiche”.

Nel 2023, l’industria petrolchimica tailandese produceva circa 8,8 milioni di tonnellate di plastica all’anno, tutte nella provincia di Rayong. Uno studio del 2024 ha rilevato che la popolazione tailandese aveva il sesto più alto apporto alimentare giornaliero stimato di microplastiche tra i 109 Paesi presi in esame, anche se questa è ormai una crisi globale.

Le sostanze chimiche tossiche utilizzate per produrre la plastica (qui una descrizione dei problemi legati agli additivi mescolati ai polimeri) sono state trovate nel suolo, nelle uova di pollo e di anatra e nel sangue degli esseri umani in Thailandia. Alla produzione di plastica è legata anche una quantità significativa e crescente di gas a effetto serra: “Solo in Thailandia, la produzione di plastica genera ogni anno 27,3 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, pari alle emissioni annuali di carbonio di 5,9 milioni di automobili. La prova, afferma EJF, che le “false soluzioni” che pongono l’accento sul riciclaggio non tengono conto di un elemento chiave della crisi della plastica: “Il danno alla salute umana, alla fauna selvatica e al nostro pianeta inizia nella fase di produzione, non quando la plastica viene utilizzata e smaltita”.

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Foto: EJF

Le false soluzioni

l rapporto definisce false solutions quelle politiche proposte come risposte a problemi collettivi ma che evitano o rinviano le riforme strutturali necessarie, scaricando oneri su generazioni future o gruppi marginalizzati. Nel contesto plastica, un indicatore chiave è l’assenza di misure upstream per ridurre produzione, offerta e consumo, accompagnate da una governance chimica hazard‑based (divieti in base alla pericolosità intrinseca: ad esempio la cancerogenicità) anziché risk‑based (che contempera la pericolosità intrinseca della molecola con l’esposizione stimata: se questa è bassa si può autorizzare l’uso anche per sostanze molto pericolose). Un’altra spia è la priorità data a riciclo e incenerimento rispetto a riduzione, riuso e ricarica.

Secondo EJF anche le plastiche bio‑based/biodegradabili risultano fuorvianti se usate come sostituzione dell’usa e getta, alimentando confusione e greenwashing. Le “ioplastiche, “pur incentivate (es. tagli fiscali 2019‑2021), non hanno ridotto i rifiuti: mancano impianti di compostaggio industriale e l’etichettatura consente claim ambientali vaghi (anche con piccole percentuali bio‑based)”. EJF racconta di esperimenti indipendenti che hanno riscontrato prestazioni inferiori alle promesse e possibile rilascio di microplastiche.

Anche la normativa ha fallito. La Thailandia ha adottato il Roadmap on Plastic Waste Management 2018‑2030 e due Action Plan (2020‑2022; 2023‑2027). I divieti su 7 prodotti dovevano ridurre i flussi, ma nel 2022 i bandi erano incompleti (microbeads solo nei cosmetici, ad esempio), e il Second Action Plan (2023‑2027) ha persino eliminato l’obiettivo di ulteriori divieti, puntando invece su riciclo e Waste to Energy (WtE, temovalorizzazione). “Nel frattempo, la produzione è cresciuta da 9 a 9,5 milioni di tonnellate tra 2018 e 2021. Mentre forte sostegno politico e incentivi fiscali hanno favorito “bioplastiche” e WtE, con rischio di domanda artificiale di rifiuti e scarsi benefici ambientali se non si riduce a monte.

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Incenerimento, buco nero dei rifiuti

Una delle principali “false soluzioni” descritte dal rapporto è il continuo investimento della Thailandia in impianti che bruciano i rifiuti di plastica per ricavarne energia. Impianti waste-to-energy che, come noi europei sappiamo anche in relazione a strutture propagandate come eccellenze, creano la necessità di una fornitura costante di rifiuti da importare, una sorta di buco nero che ingoia rifiuti per ripagare gli investimenti che hanno finanziato gli impianti. Con buona pace dell’economia circolare e della salute delle persone che abitano vicino alle strutture. “Il WtE – si legge nel rapporto – può apparire vantaggioso rispetto ai semplici inceneritori, ma dà per scontata una fornitura costante di rifiuti e non considera la riduzione a monte. (…) Dove la riduzione è stata ottenuta, gli inceneritori faticano a trovare rifiuti da bruciare e ricorrono all’import.”

Secondo la Environmental Justice Foundation, “quando uno di questi impianti di termovalorizzazione, scarsamente regolamentato, è stato introdotto nel distretto di Nong Bua, nella provincia di Nakhon Sawan, la gente del posto ha denunciato cattivi odori e inquinamento atmosferico”. Racconta Riamwilai Ruengtirawongsa, difensora ambientale, che “il camino dell’impianto WtE emette sempre fumi scuri (…) Un’altra emissione sembra nebbia verdastra e blu che scende bassa nei campi. (…) I problemi cresceranno in fretta come funghi se i permessi continueranno a essere concessi così facilmente.”

Per Salisa Traipipitsiriwat, responsabile del progetto EJF sulle materie plastiche nel sud-est asiatico, “l’industria della plastica sta traendo profitto da questa crisi sanitaria. Abbiamo bisogno di un cambiamento coraggioso e sistemico, non di false soluzioni. La riduzione e il riutilizzo devono venire prima del riciclaggio e la salute umana deve venire prima dei profitti petrolchimici. Porre fine all’era del monouso porterebbe benefici reali e duraturi per la Thailandia e per il mondo intero”.

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