Più di duemila tra scienziati, ambientalisti, rappresentanti nazionali e lobbisti si sono incontrati dal 28 novembre al 2 dicembre a Punta del Este, in Uruguay, per avviare i negoziati per un trattato delle Nazioni Unite sulla plastica. L’obiettivo è presto detto: liberare il futuro del Pianeta dall’inquinamento da plastica, riducendone la produzione e l’utilizzo. Il rischio di una catastrofe ambientale dovuta all’abuso di plastica è sempre più vicino e già da anni si vedono immagini di fiumi, mari e città, soprattutto nelle nazioni in via di sviluppo, letteralmente sommersi dalla plastica.
È stato il primo meeting dell’Onu per gettare le basi di un trattato. I delegati hanno lavorato per individuare i principali punti di discussione e le posizioni di partenza dei vari rappresentanti. Se ne terranno molti altri, con l’obiettivo di arrivare a un accordo definitivo tra il 2024 e il 2025. Tra i delegati delle associazioni ambientaliste, c’era anche Graham Forbes, responsabile plastica per Greenpeace Usa. Raggiunto telefonicamente da Economia circolare.com, ha spiegato nel dettaglio di cosa si è discusso in Uruguay e perché il mondo abbia bisogno di un trattato globale.
“È un’opportunità irripetibile per proteggere i diritti umani, la biodiversità e il clima. Un trattato sulla plastica efficace previene il collasso totale del sistema e perciò significa un Pianeta più sicuro e un futuro migliore per noi e per i nostri figli”, premette Graham Forbes: “Un ambizioso trattato globale sulla plastica manterrà petrolio e gas nel sottosuolo, riterrà responsabili i grandi inquinatori, costruirà sistemi di riciclo e riutilizzo e darà potere a coloro che sono più colpiti dalla crisi dell’inquinamento da plastica, comprese le comunità avvelenate dalla produzione di plastica e i raccoglitori di rifiuti”.
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Alcuni numeri sulla plastica per inquadrare il problema
La plastica è senza dubbio un materiale eccezionale per la sua versatilità e il basso costo di produzione. Non sorprende quindi che l’utilizzo sia aumentato costantemente negli ultimi cinquant’anni. In maniera eccessiva, purtroppo, tanto da trasformarsi da utile invenzione a minaccia per la sopravvivenza del Pianeta. Dalla produzione allo smaltimento, la plastica inquina durante tutto il suo ciclo di vita, dal momento in cui viene estratta fino al suo smaltimento. Oltre ad essere responsabile di emissioni di CO2, contribuendo quindi al riscaldamento globale.
Si stima che fino a oggi siano stati prodotte 9 miliardi di tonnellate di plastica. Di questa, 5,4 miliardi di tonnellate sono state gettate nelle discariche o disseminate in forma di rifiuti nel suolo e nel mare. Nel mare ne finiscono da 4 a 12 milioni di tonnellate all’anno. Plastica viene trovata nelle spiagge, sui fondali oceanici e nello stomaco degli uccelli e dei pesci. Mentre ogni anno nel mondo si producono oltre 400 milioni di tonnellate di plastica. Di tutta la plastica che sia mai stata prodotta meno di un terzo è ancora in uso, meno di un decimo è stato bruciato e solo il 9 per cento è stato riciclato.
Ecco perché per agire a monte del problema il riciclo non basta, nonostante in alcuni Paesi il tasso andrebbe molto migliorato, primo tra tutti gli Stati Uniti con il suo misero 5%. L’unica soluzione, secondo scienziati, ambientalisti e rappresentanti delle nazioni più esposte al problema o più consapevoli della necessità di agire, è limitarne la produzione globale destinata altrimenti ad aumentare in maniera esponenziale e impedire nuovi utilizzi. È questo, spiega il rappresentante di Greenpeace in Uruguay, l’obiettivo più importante dei negoziati per il trattato sulla plastica.
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Limitare la produzione di plastica e aumentare il riutilizzo è indispensabile
“La produzione di plastica – spiega Graham Forbes – andrebbe ridotta di almeno il 75% per proteggere i diritti umani, la biodiversità e il clima. Il trattato dovrebbe fissare un limite immediato alla produzione a non più del 100% dei livelli del 2017, anno in cui l’Onu ha dichiarato l’inquinamento da plastica una crisi planetaria, per poi procedere con una riduzione di anno in anno nella produzione di plastica, ben oltre ai livelli del 2017”.
Senza dubbio l’efficacia del trattato è strettamente legata all’eliminazione graduale della plastica monouso, compresi gli imballaggi in plastica multistrato. “Gli imballaggi di basso valore e difficili da riciclare – precisa il rappresentante di Greenpeace – sono una delle principali cause dell’inquinamento da plastica. Numerosi studi hanno anche scoperto che queste materie plastiche di basso valore costituiscono la maggior parte dei rifiuti di plastica esportati illegalmente dal Nord del mondo”.
Il tentativo di sostenere un mercato per questi materiali di basso valore e altamente inquinanti facendo affidamento sul riciclo chimico non è una strada praticabile, come dimostrano i numeri. Invece, secondo un rapporto della Ellen MacArthur Foundation del 2019, se sostituissimo anche solo il 20% degli imballaggi monouso con materiali riutilizzabili, questo potrebbe valere 10 miliardi di dollari in opportunità commerciali e portare altri vantaggi oltre alla riduzione dell’impatto ambientale e sociale, aumentando le possibilità di scelta dei consumatori e la convenienza dei prodotti. Allontanarsi dall’usa e getta creerà anche nuovi posti di lavoro.
Insomma, “adottare un forte trattato sulla plastica con linee guida e normative chiare può aiutare anche ad accelerare nel riutilizzo dei materiali, fornendo la certezza necessaria alle aziende per investire nel riutilizzo, assicurando al tempo stesso che i lavoratori nella catena di valore della plastica abbiamo voce in capitolo nel massimizzare le opportunità sociali di un’equa transizione dalla plastica”, conclude Graham Forbes. Tra i delegati in Uruguay, c’erano infatti rappresentanti dei “raccoglitori” dei rifiuti di plastica dei Paesi in via di sviluppo, seduti al tavolo per chiedere il riconoscimento dei loro diritti di lavoratori.
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I diversi fronti all’interno dei tavoli negoziali: chi frena per l’accordo
Come è facile immaginare, durante i negoziati sono emerse posizioni distanti tra alcune nazioni e rappresentanti di associazioni ambientaliste o lobby di produttori di plastica. Questi ultimi hanno immediatamente manifestato la loro contrarietà a un limite “imposto” dall’alto nella produzione della plastica, sostenendo invece sia necessario concentrarsi su come evitare che la plastica finisca nell’ambiente. Una presa di posizione, secondo gli ambientalisti, col solo scopo di sviare i negoziati, perché sarebbe un approccio insufficiente al problema.
Come l’altra proposta di puntare su soluzioni nazionali condivise e non su un accordo a livello globale è vista come un tentativo di lasciare tutto come è adesso e spuntare le armi al trattato. Il delegato della Cina, ad esempio, ha fatto notare quanto sarebbe difficile controllare la produzione globale di plastica attraverso un trattato globale e perciò sarebbe meglio trovare l’accordo su diversi piani nazionali. Idea condivisa dagli Stati Uniti, uno dei principali produttori mondiali di plastica, secondo cui bisognerebbe dare la priorità alla lotta alle fonti più importanti di inquinamento e alle tipologie più inquinanti di plastica attraverso piani nazionali.
Completamente a fianco alle lobby si sono schierati i Paesi produttori di petrolio, visto il loro diretto interesse economico. Il petrolio, infatti, è indispensabile nel processo di produzione di gran parte delle tipologie di plastica. Il delegato dell’Arabia Saudita ha cercato di mascherare il coinvolgimento di Riad sostenendo che “la plastica gioca un ruolo vitale nello sviluppo sostenibile” per poi chiedere che “il trattato riconosca esplicitamente l’importanza di continuare a produrre la plastica”.
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L’unica soluzione all’inquinamento da plastica è globale
Scatenando naturalmente l’indignazione di scienziati e ambientalisti, come Graham Forbes di Greenpeace, che va giù duro nel giudizio su quanto accaduto. “Non possiamo permettere a nazioni come l’Arabia Saudita di ripetere a pappagallo la posizione dell’industria petrolchimica. Non possiamo lasciare che i Paesi produttori di petrolio, per volere delle grandi compagnie petrolifere e petrolchimiche dominino e rallentino le discussioni sul trattato e ne indeboliscano le ambizioni. Se l’industria della plastica va avanti per la sua strada, la produzione di plastica potrebbe raddoppiare entro i prossimi 10-15 anni e triplicare entro il 2050, con impatti catastrofici sul Pianeta e sulla popolazione”.
Punto di vista condiviso, fortunatamente, da un gruppo di nazioni raggruppate nella “High Ambition Coalition”, per loro stessa definizione. È composta da Paesi ricchi e in via di sviluppo, guidati da Norvegia e Ruanda. Entrambi chiedono di fissare l’obiettivo di liberarsi dalla dipendenza dalla plastica entro il 2040 e di individuare strumenti efficaci e vincolanti per ridurre la produzione ed eliminare certi tipi di polimeri. Favorevoli a regole internazionali vincolanti sono anche Unione europea (con distinguo nazionali da conciliare in vista del voto comune), Svizzera, Costa Rica, Ecuador, Perù, Australia, Regno Unito e Brasile, oltre alle piccole nazioni insulari che vivono con il cibo pescato dagli oceani e i cui ecosistemi sono messi in serio pericolo.
“La crisi della plastica ha avuto un impatto sproporzionato sui paesi del Sud del mondo, in particolare sulle comunità a basso reddito ed emarginate”, conclude Graham Forbes: “La High Ambition Coalition deve mostrare leadership portando avanti i negoziati e chiedendo misure più ambiziose che proteggano la nostra salute, il nostro clima e le nostre comunità dalla crisi della plastica”.
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Bandire l’utilizzo di certi polimeri è una questione di salute pubblica
Il trattato, tuttavia, non vuole limitare la sua efficacia agli aspetti di produzione e di utilizzo della plastica, ma spingersi a considerare quelli di salute pubblica. “Le materie plastiche sono tossiche e dobbiamo iniziare a eliminare i polimeri più dannosi. Ciò significa prima di tutto quelli che non sono riciclabili o hanno concentrazioni più elevate di sostanze chimiche tossiche, come cloruro di polivinile (PVC), polistirene (PS), poliuretano (PUR), policarbonato (PC), che insieme rappresentano il 30% della quota di mercato totale”, aggiunge il delegato di Greenpeace.
I danni di questi polimeri sono ben documentati. Come ormai accertato è il problema dei minuscoli frammenti di plastica, con un diametro inferiore a 5 mm, le cosiddette microplastiche. La loro dispersione può essere causata da una serie di attività come l’abrasione dei pneumatici, l’usura dei freni o il lavaggio dei tessuti. Queste minuscole particelle hanno saturato completamente gli oceani e si diffondono nell’atmosfera, dove le inaliamo respirando.
Diversi studi hanno confermato la presenza di microplastiche nel sangue umano, nei polmoni e nella placenta. “Per questo la plastica è collegata a problemi di salute come il cancro e l’asma e ci sono già delle prove che dimostrano come le microplastiche danneggiano gli organismi e gli ecosistemi, ma i grandi produttori finora hanno ignorato questi impatti evitando di assumersi qualsiasi responsabilità”, precisa Graham Forbes.
Inquinamento, danni ambientali legati ai cambiamenti climatici, iniquità tra nazioni e danni alla salute. “Per questo il mondo ha bisogno di un ambizioso trattato globale giuridicamente vincolante che si concentri sulla riduzione della plastica prodotta e utilizzata, altrimenti non saremo mai in grado di risolvere la crisi solo con la raccolta differenziata e la gestione dei rifiuti”, conclude il delegato di Greenpeace. In tanti sperano che ci vorranno davvero due anni di tempo per raggiungerlo. Il prossimo appuntamento, intanto, sarà nella primavera del 2023 in Francia.
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