mercoledì, Dicembre 3, 2025

Perché la coltivazione di mangimi per gli allevamenti intensivi è un enorme problema (ambientale e sociale)

Studio CIWF: l’industria dei mangimi brucia un’enorme quantità di calorie che potremmo consumare direttamente, impattando meno sugli ecosistemi

Lorenzo Bertolesi
Lorenzo Bertolesi
Autore e attivista con base a Milano. Ha una laurea in filosofia con una tesi (vincitrice di una borsa di studio) nell'ambito "Human-animals studies". Lavora nella comunicazione digitale da anni, principalmente per diverse ONG come ufficio stampa, copywriter e occupandosi della gestione dei social. Ora è un freelance che, insieme al collettivo Biquette, si occupa di comunicazione digitale per progetti ad impatto sociale. Addicted di Guinness e concerti (soprattutto punk), nel tempo libero viaggia con il suo furgoncino hippie camperizzato insieme alla cagnolina Polly

Pensare che ancora oggi esistono persone che faticano a mangiare in modo adeguato mi lascia sempre interdetto, soprattutto considerando quanto è il cibo che circola nella mia società, e quanto lo spreco che c’è.

In generale lo spreco alimentare è un problema assurdo, proprio perché noi ci impegniamo molto a produrre del cibo che costa energia, sfrutta risorse e impatta sull’ambiente, ma che finisce semplicemente buttato. Di spreco alimentare se ne può parlare in tantissimi modi. Si può infatti responsabilizzare (o colpevolizzare) le persone comuni, le consumatrici e i consumatori. Oppure puntare il dito sulla GDO oppure sulle aziende. Tutte scelte valide, su cui dovremo intervenire come collettività. Però c’è un modo di sprecare il cibo davvero preoccupante, quasi nascosto. Parliamo della produzione dei mangimi negli allevamenti intensivi

Vi chiederete voi: ma i mangimi servono a far crescere gli animali, le cui carne e prodotti diventano cibo, come può essere uno spreco?
Solo andando davvero dentro il mondo dei mangimi possiamo dare una risposta sensata a questa domanda e capire quanto è grande l’impatto – e lo spreco – che comporta questo metodo di produzione.


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Mangimi industriali per allevamenti intensivi

Si dice che il primo allevamento intensivo al mondo fu un errore di un’allevatrice che, ordinando per errore tantissimi pulcini, ebbe l’idea imprenditoriale di metterli tutti in un capannone. Risultato? Un successo di produzione – per gli allevatori sicuramente, non altrettanto per la vita dei polli.

La realtà che sta dietro la nascita degli allevamenti intensivi è più complessa, ma sicuramente tra le varie evoluzioni tecnologiche e sociali che li hanno resi possibili, i mangimi giocano una partita fondamentale. I mangimi sono un’invenzione relativamente recente, anche perché in precedenza gli animali si nutrivano con scarti e pascoli agricoli. Nacquero agli inizi dell’800 quando in Gran Bretagna vennero sviluppati degli speciali mangimi per i cavalli usati in guerra, che erano un insieme di farine, cereali e legumi. Il vero salto però arrivò dopo la seconda guerra mondiale, come parte della rivoluzione dell’agricoltura. Negli Stati Uniti il nitrato d’ammonio – usato per le bombe – iniziò a diventare un elemento chiave dei fertilizzanti e dei pesticidi, e questo fece esplodere soprattutto la coltivazione di le monocolture di mais ibrido, che poteva essere piantato sempre e ovunque (di tutto questo ne parla Michael Pollan nel celebre Dilemma dell’Onnivoro).

Ed è proprio con questo surplus di cereali e legumi, reso possibili dalle monocolture e da nuove tecniche di coltivazioni, che gli allevamenti intensivi diventarono sempre più efficienti – c’entra anche l’introduzione degli antibiotici e delle vitamine (per approfondire).

Oggi i mangimi sono diventati uno dei pilastri degli allevamenti intensivi – basta passare per qualche strada di campagna, gli allevamenti si possono riconoscere dagli enormi silos pieni di mangimi all’esterno.

Ma cosa mangiamo gli animali negli allevamenti intensivi? 

I mangimi, che ovviamente cambiano in base alle specie allevata, sono di fatto pellet o farine, gli ingredienti principali per la quasi totalità sono cereali (mais, grano, orzo, sorgo, avena, riso), farine proteiche (come la soia, la colza, il pisello) e poi grassi ed oli vegetali e vitamine. Secondo i dati di Assalzoo, l’associazione dei produttori di mangimi italiana, il mais è la principale materia prima per produrre mangimi in Italia, seguita dalle farine di semi oleosi, poi la crusca, il grano e l’orzo. Per i pesci allevati il discorso è leggermente diverso, come abbiamo spiegato qui, perché si aggiungono anche farine e oli di pesci. 

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Agricolture intensive, monocolture e impatto ambientale

Se consideriamo che solo nel 2023 abbiamo macellato circa 85 miliardi di animali (senza considerare i pesci) è chiaro che abbiamo bisogno di davvero tanti cereali e tanta soia per sfamarli tutti. E questo ha enormi ricadute sull’ambiente.

Parliamo velocemente della soia – qui abbiamo fatto un altro approfondimento sul tema. Circa l’80% di tutta la produzione globale di soia finisce infatti negli allevamenti intensivi. La crescita della domanda di carne a basso costo ha trasformato interi territori in piantagioni intensive di soia, a perdita d’occhio. Questo vale soprattutto per il Sud America, dove intere zone forestali sono state distrutte, anche attraverso incendi dolosi e illegali. La deforestazione è infatti l’altro lato della carne intensiva, con un impatto devastante sulla crisi climatica, sulla biodiversità e sulle comunità locali. Il Brasile è diventato un granaio di soia mondiale, tanto che l’UE, dove questa piantagione non cresce così bene, importa il 96% della farina di soia usata come mangime.

Un discorso molto simile si può fare per i cereali. Un recente rapporto dell’organizzazione CIWF dal titolo “Cibo, non mangime” ha messo in luce diversi dati molto preoccupanti. Si parla di “fuga di cereali”: sono circa 766 milioni le tonnellate di cereali che vengono usati per nutrire gli animali negli allevamenti intensivi nel mondo. Per coltivarli impieghiamo circa 15 milioni di ettari di terra coltivabile nell’UE e 7 milioni negli Stati Uniti.

Secondo altre fonti la produzione di alimenti per gli allevamenti nel mondo occupa un terzo di tutta la superficie coltivabile nel mondo. E nell’UE oltre i due terzi dei cereali prodotti nei terreni agricoli sono destinati al cibo per gli allevamenti – inclusi i pascoli. 

mangimi allevamenti
Fonte: CIWF

Come dicevamo In Italia usiamo soprattutto mais per il mangime degli animali, che crea una vera e propria “dipendenza” da questo cereale. Il nostro paese ha bisogno di circa 9 milioni di tonnellate di mais all’anno, più di quello che coltiviamo – sempre secondo Assalzoo per soddisfare la fame di questo cereale negli allevamenti intensivi avremo bisogno di una superficie coltivata pari a circa due volte l’estensione della Valle d’Aosta.

Quindi, come per la soia, sembra che i campi usati per coltivare i cereali finiscano in realtà per grande parte per diventare mangimi. E vengono coltivati in monocolture intensive, i cui impatti negativi sull’ambiente sono notevoli. La trasformazione di terreni forestali in monocolture intensive rilascia in atmosfera grandi quantità di CO2, senza considerare l’alto uso di pesticidi e fertilizzanti, che hanno un grande impatto sempre sulla crisi climatica. Distruzione di habitat e di biodiversità, degrado del suolo, inquinamento di acqua ed aria – insomma, quest’agricoltura intensiva che produce mangimi ha diversi punti negativi.

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Perché produrre mangimi è uno spreco alimentare? 

Ma, mi direte sempre voi: “Ok, ma cosa c’entra lo spreco?”. Per capirlo secondo me vale la pena fare un piccolo passaggio sul tema mais e siccità. Il nostro Paese ha così tanto bisogno di mais proprio perché, anche a causa della crisi climatica, la sua produzione  è calata di oltre il 52% dal 2006 al 2020. E ogni tonnellata di mais richiede circa 100 miliardi di acqua, una quantità notevole. La domanda è: vale la pena usare così tanta acqua per produrre mangime che finisce agli animali negli allevamenti – aggiungo, considerando come la siccità sia un problema ciclico nell’agricoltura? La risposta sarebbe sì, se e solo se gli animali fossero dei “trasformatori” di cibi efficienti. Peccato che non sia così.

Gli animali, mangiando tutti questi cereali e semi oleosi, consumano più calorie di quante poi ne restituiscano agli essere umani una volta che vengono macellati e consumati sotto forma di carne.

Il report di CIWF, ha fatto qualche calcolo. Per ogni 100 calorie di cereali commestibili che vengono usati per fare mangimi per gli animali, solo dai 3 ai 25 arriva in forma di alimenti per le persone sotto forma di carne. Per ogni 100 grammi di proteine vegetali dati agli animali, solo dai 5 ai 40 grammi di proteine entrano effettivamente nella catena alimentare umana tramite i prodotti animali. Tutto il resto viene “perso” – consumato dal metabolismo degli animali per mantenersi in vita, muoversi e formare tessuti non edibili, oppure eliminato come deiezioni. 

Fuori dai numeri: dare da mangiare legumi e cereali agli animali fa “perdere” delle calorie, nel passaggio da piante ad animali. È più efficiente cioè usare le coltivazioni di cereali e legumi direttamente per l’alimentazione umana, invece che trasformarli in mangimi. Nel caso dei cereali oltre il 75% dei cereali usati per gli animali non si traduce in cibo utile per noi persone.

Ricordate le 766 milioni di tonnellate che usiamo per gli allevamenti. Ecco, potrebbero essere usate per sfamare oltre 2 miliardi di persone. Parliamo di uno spreco alimentare annuo superiore a quello che viene fatto da parte delle famiglie (631 milioni di tonnellate di cibo sprecato), dalla ristorazione (290 milioni di tonnellate) e dal commercio al dettaglio (131 milioni di tonnellate).

mangimi allevamenti
Fonte: CIWF

In UE perderemmo quindi 124 milioni di tonnellate di cereali, e quella quantità potrebbe nutrire almeno 247 milioni di persone se fossero direttamente consumati dalle persone. Parliamo quindi di uno spreco alimentare silenzioso e nascosto, che supera quello fatto dall’insieme di famiglie, ristoranti e distribuzione – 59 milioni di tonnellate all’anno. Per condizioni l’Italia ricalca l’UE: 10,9 milioni di cereali sprecati come mangimi.  

L’industria dei mangimi quindi brucia silenziosamente un’enorme quantità di calorie che potremmo consumare direttamente, impattando anche su ecosistemi preziosi. Dietro ogni bistecca a basso costo ci sono campi di cereali e soia che potrebbero sfamare popolazioni intere, foreste rase al suolo e tonnellate di gas serra emessi. 

C’è un passaggio in più. Dato che gli animali allevati ogni anno sono molto di più delle persone che vivono sul Pianeta, l’eliminazione degli allevamenti e dei mangimi, di fatto farebbe diminuire il numero dei campi usati attualmente per l’agricoltura, e permetterebbe di far tornare le foreste e ridurre così la CO2 in atmosfera. 

Insomma, cambiando il nostro sistema alimentare, riducendo il consumo di carne e gli sprechi nascosti che comporta, faremo un uso più efficiente delle risorse naturali, aiutando a frenare le conseguenze più gravi della crisi climatica. Ed è proprio un peccato che di fronte a queste realtà la politica vada nella direzione opposta, dove i fondi pubblici europei finiscono costantemente negli allevamenti intensivi. A luglio del 2025 il Ministro Lollobrigida, grazie al decreto Coltivitalia ha stanziato 300 milioni di euro proprio per far crescere e prosperare il settore dei mangimi e in generale l’industria della carne. Ma non solo: sempre Assalzoo, che appunto rappresenta il settore dei mangimi, sta lavorando per chiedere un rinvio del regolamento europeo per la deforestazione.

© Riproduzione riservata

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