Il trionfalismo col quale il governo Meloni ha festeggiato il rinvio europeo sul divieto della produzione di auto termiche dal 2035 si può sintetizzare con una sola parola: biocarburanti. È su questi carburanti, “ottenuti da materie prime di origine agricola” come spiega il dizionario Treccani, che l’Italia punta principalmente. Le altre soluzioni alternative all’elettrico erano state analizzate l’anno scorso in maniera dettagliata da un interessante report commissionato dall’allora ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile (oggi Trasporti). E in sostanza venivano bocciate tutte, con l’elettrico che veniva indicato la prima opzione per decarbonizzare i trasporti e le altre solo quando non c’erano alternative.
In quel report si sottolineava che “la parziale sostituzione dei combustibili convenzionali con biocombustibili porta a vantaggi marginali in termini di riduzione delle emissioni, in quanto il profilo di emissioni dei biocombustibili, anche di seconda generazione, è comunque alto e comporta basse efficienze e notevoli costi energetici”. In più “biometano, idrogeno, biocombustibili e combustibili sintetici saranno disponibili in quantità limitate, a causa dei vincoli di disponibilità di biomasse sostenibili o di energia rinnovabile a basso costo”. Eppure, nonostante le indicazioni degli esperti e delle esperte consultate dal governo Draghi, al cambio di esecutivo è seguito un cambio di linea. Per cui si torna a puntare sui biocarburanti. In questo campo un ruolo fondamentale lo gioca ancora una volta ENI – così come ha fatto sulla sostituzione del gas russo dopo la guerra in Ucraina con altro gas in giro per il mondo.
Nel Piano Strategico 2026, presentato alla stampa internazionale a fine febbraio, accanto all’aumento di produzione del gas l’azienda ha annunciato “l’aumento della capacità di bioraffinazione: oltre 3 milioni di tonnellate all’anno entro il 2025, rispetto ai 2 milioni di tonnellate del Piano precedente, e oltre 5 milioni di tonnellate all’anno entro il 2030, grazie al contributo delle iniziative recentemente annunciate in Italia, Malesia e Stati Uniti“.
Non sorprendono perciò le dichiarazioni di giubilo del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica lo scorso 4 marzo, in cui il ministro Gilberto Pichetto spiegava che “sul rinvio del regolamento europeo che prevede lo stop alle auto a benzina e diesel dal 2035 l’Italia ha avuto il merito di essere il battistrada del ripensamento in corso: abbiamo il dovere di difendere oltre 70mila posti di lavoro“.
Nel frattempo la Commissione europea, che proprio sui biocarburanti dovrebbe pronunciarsi nel 2026, su spinta di Italia e Germania (e anche di Polonia e Bulgaria) pare che intenda stralciare i carburanti sintetici dal divieto approvato dal Parlamento europeo. Aprendo di fatto le porte a un uso esteso di biocarburanti (privilegiati dall’Italia) e agli efuels (su cu invece punta maggiormente la Germania).
Una strategia che però viene ora smentita da un report realizzato dall’stituto IFEU (Institut für Energie- und Umweltforschung) e commissionato dalle note ong Transport & Enviroment e Oxfam. Lo studio mostra che la produzione di colture per i biocarburanti consumati in Europa richiede 9,6 megaettari di terra, un’area più grande dell’Irlanda.
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I numeri dei biocarburanti
In appena 24 pagine lo studio commissionato dalle due ong smonta una per una tutte le tesi a supporto dei biocarburanti. Ad esempio quella per cui i biocarburanti non sottraggono terre destinate all’agricoltura: secondo il report dell’istituto IFEU i terreni utilizzati per le coltivazioni di potrebbero essere utilizzati per sfamare 120 milioni di persone.
Non solo: se lo stesso quantitativo di terreno venisse restituito alla natura, si legge nel report, “potrebbe assorbire il doppio di CO2 rispetto a quella che si suppone venga risparmiata alimentando le auto con biocarburanti”. In questo caso basterebbe “ripristinare gli ecosistemi naturali basandosi principalmente su processi naturali” e ciò si tradurrebbe in “benefici climatici reali, contrariamente ai risparmi gonfiati delle emissioni derivanti dai biocarburanti che si basano su una contabilità errata del carbonio”.
Ma c’è di più. Secondo il report “anche l’utilizzo della terra per l’energia solare sarebbe molto più efficiente. Serve 40 volte meno terra per alimentare un’auto elettrica con
l’energia solare rispetto a un’auto che utilizza biocarburanti. Pertanto, se si convertisse al solare solo il 2,5% della terra dedicata ai biocarburanti, si potrebbe produrre la stessa quantità di energia equivalente, con grandi quantità di terra libera da recuperare o per la produzione alimentare“.
La conclusione è tranciante: “questi risultati mostrano chiaramente che i biocarburanti derivati dalle colture non apportano alcun contributo significativo, ma
rappresentano piuttosto un ostacolo alla mitigazione del cambiamento climatico“.
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Biocarburanti o cibo?
“I biocarburanti sono un esperimento fallito“: la sentenza, netta, arriva da Maik Marahrens, responsabile dei biocarburanti presso T&E. “Continuare a bruciare cibo come combustibile mentre il mondo sta affrontando una crescente crisi alimentare globale – continua Marahrens – è un crimine al limite. Paesi come la Germania e il Belgio stanno discutendo di limitare i biocarburanti delle colture alimentari in risposta. Il resto dell’Europa deve seguirne l’esempio”.
E se del dibattito tedesco e belga in Italia non c’è traccia – anzi il recente avvio di HVOlution, il biocarburante di ENI, è stato osannato dalla stampa e dai media – Julie Bos, consulente per le politiche di giustizia climatica dell’UE presso Oxfam, punta il dito in maniera ancora più netta. “La politica sui biocarburanti dell’Unione europea è una catastrofe – afferma Bos – per centinaia di milioni di persone che stanno lottando per trovare il loro prossimo pasto. Non solo cede vaste aree coltivate per alimentare le auto, ma spinge anche i prezzi del cibo ancora più in alto. I paesi europei devono smettere una volta per tutte di bruciare cibo come combustibile”.
Va comunque precisato che il report di T&E e Oxfam ricorda giustamente che “i biocarburanti possono essere prodotti da un’ampia gamma di materiali provenienti da piante, animali o persino alghe” e che “tuttavia, in Europa, così come a livello globale, i materiali più utilizzati sono basati su colture alimentari e foraggere –
cereali come mais e frumento o oli vegetali dai semi di palme, soia, colza e girasole”. A partire dall’1 gennaio 2023 nell’Unione europea è attivo il divieto di utilizzo di oli di palma e di soia per biocarburanti ed elettricità. Un divieto al quale si è arrivato dopo anni e anni di pressioni e rinvii. Un obbligo di legge, inoltre, al quale anche l’Italia ed ENI si sono adeguate, dopo la condanna della pubblicità “ingannevole” del biodiesel Eni, il 15 gennaio 2020, da parte dell’Antitrust che aveva pure comminato all’azienda una multa da 5 milioni di euro (il massimo consentito dalla legge).
Nella bioraffineria di Gela da ottobre 2022 il combustibile principale è passato dall’olio di palma, proveniente dall’Indonesia, all’olio di ricino, proveniente (al momento) dal Kenya. Non proprio una filiera corta: sono necessari più di 9000 chilometri per portare il cosiddetto agrifeedstock dall’Africa alla Sicilia, con conseguente e notevole dispendio di emissioni.
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