Tra una settimana, a Baku, in Azerbaijan, inizia la COP29 sul clima. Forse l’evento più importante per il nostro futuro e quello delle generazioni che verranno dopo di noi. Con i fatti terribili di Valencia a fare da drammatico promemoria di cosa significhi crisi climatica. Ma sappiamo cos’è una COP? Come funziona? A che cosa serve?
Proviamo a capirlo insieme con l’aiuto di ECCO, il think tank italiano, indipendente e senza fini di lucro dedicato alla transizione energetica e al cambiamento climatico. In questa occasione ci siamo fatti aiutare da Federico Tassan-Viol, senior policy advisor per la diplomazia di ECCO.
Federico Tassan-Viol, ogni anno ECCO segue le COP sul clima, ci racconta cosa succede e riflette sui risultati. Ma cos’è la COP?
La COP è il principale appuntamento annuale in cui si riuniscono tutte le parti firmatarie della Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, l’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change). La convenzione è nata nel 1994 a seguito del Summit della Terra di Rio de Janeiro, ed è stata firmata da tutti i Paesi ONU (inclusi gli osservatori o quelli non pienamente membri, come Santa Sede e Palestina). È “il” trattato mondiale sul cambiamento climatico.
Di conseguenza, la COP infatti è, fra i momenti della politica internazionale in cui si parla di clima, quello più importante, anche perché l’unico in cui ogni Paese ha un voto che vale come quanto quello degli altri, al di là dalla popolazione, del PIL, della notorietà. Questo è un aspetto cruciale, perché i comunicati finali delle COP devono essere approvati all’unanimità e il voto di un piccolo Stato vale quanto quello della Cina o degli Stati Uniti. È l’essenza del multilateralismo.
C’è da dire però che la piena partecipazione a queste conferenze, per diversi Paesi in via di sviluppo, può essere difficile. Ad esempio alcuni Paesi che sono molto piccoli e a basso reddito, come diversi Stati insulari del Pacifico non dispongono sempre di expertise locale e spesso inviano una delegazione governativa composta anche da esperti stranieri. Non dimentichiamo poi che le COP hanno un costo non indifferente in termini di viaggio e alloggio, dato che durano circa due settimane.
Però non ci sono solo COP sul clima, giusto?
Assolutamente no. Se quella sul clima è diventata la COP per antonomasia, ce ne sono su altri trattati internazionali, come quella sulla non-proliferazione nucleare, oppure quella sulla biodiversità tenutasi in Colombia pochi giorni fa (COP16). “COP” infatti è la sigla che significa “Conferenza delle parti”: la conferenza in cui le parti firmatarie di un accordo internazionale si incontrano per fare il punto.
Si incontrano ogni anno?
Le COP sul clima sì, sono conferenze annuali. Altre hanno cadenza diversa, come quella della biodiversità che è biennale.
E dove si incontrano?
L’organizzazione delle COP si svolge a rotazione tra le parti. Tutti i Paesi che aderiscono alle Nazioni Unite sono divisi in gruppi, che solo in parte corrispondono alla loro collocazione geografica, visto che le divisioni sono state fatte durante la Guerra Fredda. E così l’Europa occidentale appartiene, ad esempio, al gruppo di Stati Uniti e Canada, ma anche di Israele e Australia; mentre tutti quei Paesi che una volta si trovavano oltre la cortina di ferro sono nel gruppo dell’Europa orientale, con la Russia, e che include anche Paesi dell’Unione europea come Polonia e Ungheria. Poi c’è il gruppo Asia-Pacifico che ha un’estensione grandissima, dato che va dal Medio Oriente alla Polinesia. Ancora: c’è il gruppo dei Paesi africani e quello dei Paesi latino-americani e caraibici.
Tra questi gruppi si sceglie a rotazione un Paese. Ad esempio, come sappiamo, quest’anno la conferenza sarà a Baku, in Azerbaigian, cioè nel gruppo Europa orientale, la cui candidatura ha ricevuto l’approvazione o il nulla osta da parte di tutti i Paesi membri.
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Chi rappresenta i singoli Paesi alle COP sul clima?
La partecipazione è ai massimi livelli: i negoziati sono condotti da delegazioni ministeriali, con a capo il Ministro o la Ministra competente per il clima. Il lavoro negoziale è svolto generalmente dal personale dei dipartimenti internazionali dei ministeri. Per l’Italia la delegazione è guidata dal Ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, e composta in buona parte da funzionari e funzionarie della direzione affari internazionali. Vista l’importanza delle COP sul clima, però, è anche previsto il cosiddetto “segmento di alto livello”, durante il quale sono presenti i capi di Stato o di governo; nel caso dell’Italia alle ultime COP ha partecipato la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
Molti Paesi si dotano anche di un inviato speciale per il clima; si tratta di una specie di ambasciatore, che può essere naturalmente un diplomatico, ma non necessariamente: in Italia, ad esempio, è una figura più tecnica. L’inviato speciale, in coordinamento con il governo e i ministeri, rappresenta il Paese ai negoziati che si svolgono nel corso dell’anno e ai quali non può partecipare il Ministro.
Tecnici dei ministeri, rappresentanti per il clima, presidenti del Consiglio e della repubblica, però, non sono i soli presenti alle COP, giusto?
A differenza delle altre Conferenze delle parti, quella sul clima è piuttosto famosa proprio perché ha una massiccia partecipazione che comprende tantissimi osservatori: ONG, enti no profit come ECCO, ma anche organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale, l’Unione Africana, o altre agenzie dell’ONU.
Importante specificare, inoltre, che l’Unione Europea, pur non essendo tecnicamente una delle parti firmatarie, parla a nome di tutti i Paesi UE. Prima di ogni COP, il Consiglio dei Ministri dell’ambiente dei Paesi dell’UE dà mandato alla Commissione di rappresentare tutti gli Stati membri con una posizione comune. Il mandato alla Commissione non impedisce naturalmente ai singoli membri UE di adottare iniziative complementari. E poi ci sono le imprese.
Questione spinosa. Ma prima di arrivare alle imprese e al peso dei loro rappresentanti, come funziona il processo decisionale alle COP?
Questione abbastanza complicata. Provo a semplificare dicendo intanto che la COP in realtà è un insieme di conferenze che riuniscono i firmatari di vari trattati UNFCCC: per questo si parla di Convenzione quadro, perché inquadra diversi trattati internazionali. Ricordiamo che i lavori che conducono alla COP durano tutto l’anno: la COP è un appuntamento annuale che permette di fare il punto, di tirare le somme e firmare un accordo conclusivo a cadenza annuale, ma i lavori sono continuativi, con il coordinamento del segretariato dell’UNFCCC, che ha sede a Bonn. Durante l’anno vengono affrontati i diversi temi e viene definita anche l’agenda dei lavori della COP, anche di quelle degli anni successivi.
Il segretariato della Convenzione ha un ruolo importante, perché i progressi nei lavori possono dipendere anche molto da chi ne è alla guida. In questo momento il segretario esecutivo dell’UNFCCC è Simon Stiell, ex ministro dell’ambiente di Grenada, che si è dimostrato molto proattivo nella gestione del segretariato. In generale, fortunatamente l’UNFCCC ha beneficiato della guida di figure carismatiche, tra cui diverse donne.
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Federico, quest’anno quali saranno gli argomenti principali delle trattative?
È noto da tempo che la COP29 sarà la COP della finanza climatica. Quest’anno si dovrà decidere del contributo monetario che i Paesi più industrializzati dovranno mettere a disposizione a quelli in via di sviluppo per la lotta al cambiamento climatico. Quest’anno verrà infatti discusso quello che viene definito con un acronimo poco intuitivo: NCQG, che sta per New Collective Quantified Goal on Climate Finance, ovvero il nuovo obiettivo comune quantificato sulla finanza climatica.
È la fase successiva di quanto introdotto alla COP15 di Copenaghen, il famoso contributo annuale di 100 miliardi di dollari all’anno, da stanziare entro il 2020. Una quantità di denaro relativamente irrisoria, dato che è di un ordine di grandezza inferiore rispetto ai bisogni effettivi. Mi auguro quindi che il NCQG che sarà discusso a Baku sia all’altezza del ruolo che dovrà avere.
Sia chiaro che quando parliamo di finanza climatica non intendiamo, almeno non direttamente, i mercati azionari: parliamo appunto di fondi messi a disposizione dai Paesi più sviluppati a quelli in via di sviluppo.
Cento miliardi a fondo perduto?
No, questo è il tema: sono in gran parte dei prestiti. A tassi agevolati, ma prestiti. Un aspetto cruciale, evidentemente, perché così concepiti questi aiuti di fatto aumentano il debito pubblico dei Paesi in via di sviluppo. Dico cruciale perché, ad esempio, in diverse parti del Sud globale ci sono Paesi che già oggi spendono più in interessi sul debito che in sanità.
Quindi il punto è non solo quanti soldi mettere a disposizione, ma anche come farlo.
Per risolvere questo problema sarà fondamentale il dialogo fra le parti della COP e le altre grandi istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, oltre che le varie banche per lo sviluppo (come la nostra BEI), che regolano il sistema finanziario globale. La chiave è dunque non solo l’ammontare degli aiuti messi a disposizione, ma in senso più ampio l’architettura finanziaria internazionale, cioè il modo in cui questi aiuti sono messi a disposizione, che al momento non risponde alle necessità dei Paesi in via di sviluppo. Si tratta di un tema sul tavolo da tempo e che è stato oggetto delle discussioni sia in ambito UNFCCC sia degli incontri annuali della Banca Mondiale e del FMI di quest’anno.
Quindi l’agenda per i lavori di Baku è già scritta.
In parte. In realtà anche la presidenza della COP assicurata dal Paese ospite ha un ruolo di indirizzo dei lavori.
Come si esercita questo ruolo di indirizzo?
È puro soft power. Essere Presidente della COP è come essere una specie di arbitro, di moderatore dei negoziati, ma sappiamo bene come questi ruoli abbiano un potere di influenza. Non è una cosa da poco, perché la presidenza può decidere di intervenire su una situazione di stallo per sbloccarla, oppure decidere di evitare argomenti difficili pur di giungere a un compromesso fra le parti. Ovviamente molto dipende dal prestigio e dal carisma della presidenza della COP.
L’anno scorso, il presidente della COP28, Sultan Al Jaber, di fronte a uno stallo dei negoziati, ha deciso di prendere in mano la situazione e convocare tutte le parti in una specie di conclave, ispirandosi alla tradizione araba del majlis, facendo sedere tutti i capi delegazione in cerchio, al centro del quale si era posizionato lui. Si tratta di una modalità non certo prevista dai regolamenti dell’ONU, ma che ha permesso di sbloccare la situazione e grazie al quale siamo giunti all’accordo storico della COP29, con il quale il mondo ha ammesso la necessità di abbandonare le fonti fossili. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il carisma di Al Jaber e il prestigio di cui godono gli Emirati Arabi Uniti in termini di relazioni internazionali. Non si tratta di un aspetto scontato per tutte le presidenze COP.
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Abbiamo parlato di ministri, di delegati e consulenti, di ONG e di imprese. Ma alle COP, chi decide?
Alla COP decidono i Paesi membri dell’ONU, che hanno la parola (e il voto) finale sulla dichiarazione. In termini di attività di influenza e dibattito, oltre ovviamente alle parti firmatarie, tutte le organizzazioni e persone accreditate come osservatrici alla COP hanno accesso alle sale dei negoziati, nel limite dello spazio fisico a disposizione, e chiaramente senza potere decisionale. Gli osservatori poi, cosa importantissima, si trovano negli stessi spazi in cui hanno “sede” le delegazioni governative: nel complesso ONU in cui si tengono i negoziati ogni Paese ha un padiglione-ufficio, in cui si trova la delegazione nei momenti di pausa tra una sessione negoziale e l’altra.
Bisogna in effetti immaginare la COP un po’ come una fiera o un’expo, in cui gli spazi al di fuori delle sale del negoziato ufficiale sono divisi in padiglioni, nei quali si svolgono conferenze e incontri. Quasi tutti gli Stati hanno spazi del genere, anche molto grandi nel caso dei Paesi più ricchi, oppure in condivisione nel caso di Paesi più poveri.
Ad esempio, l’Italia dispone di un proprio padiglione che, oltre a includere gli uffici della delegazione, ospita uno spazio eventi per conferenze su temi legati al cambiamento climatico, tra cui una organizzata da ECCO. Anche le organizzazioni osservatrici possono avere un proprio padiglione: ECCO farà parte del padiglione Mediterraneo, uno spazio in cui noi assieme ad altre ONG e istituzioni pubbliche internazionali terremo i nostri eventi e le nostre riunioni.
Insomma ci sono tanti tavoli, dentro e fuori le sale del negoziato, in cui discutere e fare advocacy, sia in vista della decisione finale della COP, sia per creare o rafforzare le relazioni. Sono tavoli e incontri spesso a porte aperte, ma è normale anche incontrare le delegazioni in privato.
Spesso chi partecipa a questi tavoli e a questi confronti, che siano ONG o imprese, viene accreditato dai governi, quindi dai ministeri. Cosa ne pensa?
Gli osservatori accreditati UNFCCC, come ECCO, sono elencati in un registro pubblico che assicura una buona trasparenza. Altre persone e organizzazioni invece possono beneficiare di pass rilasciati dai Paesi membri, chiamati badge “party overflow”. L’esistenza di badge “party overflow” ha dei pro e dei contro. È un bene perché tramite i governi possono partecipare tante organizzazioni che per motivi legittimi non hanno modo di accreditarsi all’UNFCCC. Può essere un male perché i criteri con cui vengono attribuiti questi pass non sono trasparenti e, anzi, sono abbastanza arbitrari e a discrezione di ogni Paese. Dobbiamo quindi fidarci della buona fede di chi, nei vari Paesi, distribuisce questi pass extra.
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Ma ONG e imprese possono accreditarsi da sé alla COP, immagino.
Come ho accennato prima, fra i vari tipi di accrediti UNFCCC c’è l’accredito per gli osservatori, destinato alle ONG. Devo chiarire che l’ONU definisce come ONG tutte le organizzazioni che non sono Paesi firmatari, quindi non solo le no-profit, ma anche le federazioni e associazioni settoriali, tra cui naturalmente quelle delle imprese. Le aziende a volte partecipano con i propri rappresentanti anche tramite i badge delle federazioni, ma negli anni si è visto che molto spesso accade tramite i badge “party overflow” rilasciati dai Paesi membri.
Proprio oggi numerose associazione europee – tra cui, in Italia, A Sud – hanno scritto ai governi per chiedere di non portare a Baku lobbisti delle imprese fossili. Se l’obiettivo della COP è portare a casa accordi che aiutino a rallentare e arrestare la crisi climatica, perché i governi invitano i rappresentanti del mondo fossile?
Ovviamente lei non è l’unico a porre la questione. Molte parti ritengono però che le aziende fossili, essendo parte del problema, debbano essere per forza parte della soluzione. Con questa premessa, è normale avere lobbisti delle aziende oil&gas alle COP. Personalmente credo che la transizione energetica globale debba passare necessariamente per la transizione energetica delle aziende oil&gas. Hanno la massa e soprattutto i mezzi per porsi come attori del cambiamento. Che vogliano farlo, ovviamente, è un altro discorso.
E la sua esperienza personale cosa le fa concludere?
Secondo me il punto non è tanto la presenza delle aziende del settore fossile, ma la quantità e il livello della loro presenza. Queste aziende non mandano una persona qualunque a seguire le trattative, ma i manager apicali, spesso a livello di amministratore delegato o almeno di vicepresidente. Questi “osservatori” hanno quindi un’influenza enorme e alla COP possono beneficiare dell’accesso diretto alle delegazioni governative. Sia chiaro: non che abbiano bisogno della COP per farlo. Ad ogni modo, con aziende e figure di questo peso e spessore, è chiaro che la trasparenza nell’assegnazione dei badge dev’essere completa. Risolvere questa questione è il primo passo per affrontare il tema della partecipazione delle aziende fossili alla COP.
A dire il vero, molte delle persone che hanno un accredito ‘party overflow’ sono invitate in quanto relatori alle conferenze organizzate nei padiglioni dei diversi Paesi. È una motivazione sufficiente?
Certamente non c’è un complotto dei governi per far entrare di nascosto le aziende fossili. Maggiore trasparenza permetterebbe però di fugare almeno una parte dei dubbi che vengono sollevati da più parti. Molti rappresentanti di aziende energetiche sono intervenuti per parlare come relatori agli eventi a margine dei negoziati, il loro nome e ruolo figurava quindi nei programmi dei singoli padiglioni nazionali, la cui pubblicazione però è discrezionale e non regolamentata, quindi non figurano nel calendario ufficiale della COP.
Alla COP dell’anno scorso, per la prima volta, è stato evidente se chi partecipava come osservatore avesse affiliazioni con imprese legate alle fonti fossili. Prima di allora, quelle sulla presenza dei lobbisti fossili erano solo stime. Al netto di questo, a Dubai è stata misurata una crescita molto rilevante di imprese del gas e del petrolio. Che ne pensa?
Per ovviare al problema della trasparenza, l’UNFCCC ha fatto un piccolo passo avanti, richiedendo, per ogni persona registrata, incluse quelle “party overflow”, di indicare l’entità di appartenenza e il ruolo. Si tratta però di un suggerimento, non di un obbligo: è un limite non da poco.
Riguardo la crescita del numero di rappresentanti oil&gas, bisogna ricordare che l’anno scorso si è tenuta la COP più grande di sempre, con 80.000 partecipanti, il doppio rispetto alla COP27 di Sharm-El-Sheikh. Naturalmente, il fatto che anche quest’anno la COP si svolgerà in un Paese grande esportatore di petrolio e gas lascia presagire una partecipazione importante di aziende energetiche.
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