A una settimana dall’avvio della Cop29, si può già tracciare un bilancio? Diciamo che la rotta è intrapresa e, a meno di improbabili rovesciamenti dell’ultimo minuto, potremmo ricordare la Cop di Baku come quella che sancisce l’arretramento della diplomazia climatica, la vittoria netta delle aziende fossili e il trionfo dell’ipocrisia a livello globale. Non che le sensazioni iniziali fossero buone – un pessimismo confermato dall’elezione del neopresidente degli USA Donald Trump, che ha più volte annunciato di voler fare ritirare gli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi in più rispetto all’era pre-industriale – ma in pochi giorni i segnali emersi che confermano l’umore nero attorno all’edizione 2024 della Conferenza annuale sui cambiamenti climatici si sono fatti talmente evidenti che neppure il più ottuso ottimismo può smentire.
Anche l’Italia in questo senso gioca un ruolo di primo piano. E c’era da aspettarselo se si considera che Claudio Descalzi, alla guida di Eni da 10 anni e vero dominus delle politiche energetiche italiane, è alla Cop29 in qualità di ospite dell’Azerbaijan. Viene da pensare che forse ancora una volta aveva ragione Greta Thunberg, che da anni si tiene lontana dalle Cop. Dopo l’appuntamento di Glasgow del 2021, l’attivista ambientale che ha dato vita al movimento dei Fridays For Future, diventata famosa a 15 anni dopo l’accorato intervento alla Cop24 di Katowice (Polonia), ha preferito disertare le ultime tre edizioni all’insegna del fossile e di governi autoritari – Egitto, Emirati Arabi Uniti e Azerbaijan.
Nulla di definitivo – Greta Thunberg sarà alla Cop30 di Belem, in Brasile – ma ci sono volte in cui la miglior scelta è l’assenza. D’altra parte la lista delle assenze della Cop29 era già cospicua ben prima dell’11 novembre, sapevamo già che non ci sarebbero stati i leader dei Paesi più influenti del mondo, nonché tra i più grandi responsabili di emissioni di gas serra, dalla già citata presidenza USA a Xi Jinping (Cina) a Vladimir Putin (Russia) fino a Ursula Von Der Leyen (Unione Europea) passando per Emmanuel Macron (Francia), Olaf Scholz (Germania) e Lula (Brasile).
E allora in questi casi non è meglio disertare i tavoli dove viene esclusa la possibilità di incidere, non esserci per non legittimare la repressione azera del dissenso, non partecipare per non avallare accordi al ribasso, rivendicare l’assenza per garantirsi una maggiore forza al prossimo incontro? Il multilateralismo che le Cop dovrebbero garantire funziona solo se è reale e non una posa, altrimenti costituisce un alibi per i giochi di potere delle presidenze di turno, col presidente dell’Azerbaijan che può tranquillamente definire il petrolio e il gas “un dono di dio” senza che ci sia una qualche forma di protesta all’interno e all’estero dei “palazzi dorati” della Cop29.
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Cop29 o Cop dei 1773 lobbisti fossili?
Di fronte a tali premesse possiamo davvero dirci sorpresi se alla Cop29 di Baku, in uno Stato che costruisce circa metà del suo Prodotto Interno Lordo sulle fonti fossili e in cui addirittura ben il 92% delle esportazioni riguarda petrolio e gas, ancora una volta, per la terza volta consecutiva, la fanno da padroni i rappresentati delle aziende fossili? Secondo le stime diffuse dalla campagna Kick Big Polluters Out sono ben 1773 i lobbisti dei combustibili fossili accreditati alla Cop29. Scrive Ferdinando Cotugno, nella newsletter Areale che in occasione delle Cop da settimanale diventa quotidiana: “Sono meno dell’anno scorso (ma sono scesi anche i numeri assoluti, quindi la proporzione è la stessa), e sono molti di più dei membri delle delegazioni dei dieci paesi più vulnerabili al cambiamento climatico messi insieme (1033). Solo tre paesi hanno delegazioni più numerose di quella fossile: gli organizzatori di quest’anno, quelli del prossimo anno (Brasile) e quelli candidati a ospitarci nel 2031 (Turchia). Tutta l’industria fossile è ben rappresentata qui: TotalEnergies, Glencore, la giapponese Sumitomo, la nostra Eni, Chevron, ExxonMobil, bp, Shell. È giusto che ci siano? È un dibattito ormai vecchio quanto le Cop stesse. È vero, la riforma dei processi energetici non si può fare senza i rappresentanti di questi processi energetici. Ma la domanda è un’altra: questi rappresentanti vogliono partecipare a questa riforma?”.
Se in apparenza questa domanda appare ingenua – i lobbisti fossili sono al consesso multilaterale per portare avanti i propri interessi fossili – la vera domanda da fare è: chi dovrebbe contrapporsi a tali interessi (e anche: perché continuiamo a considerarli legittimi)? I governi, le aziende rinnovabili, la finanza interessata a una reale sostenibilità, le ong e le persone dovrebbero avere presenze e forze adeguate a una sfida cruciale, per portare con sé chi pervicacemente ha scelto di stare dalla parte sbagliata della storia. Una sfida che certamente non si risolve alle singole Cop ma che può comunque trovare, nella sede delle Conferenze annuali sul clima, una tappa importante, a patto di ricordare che si tratta comunque di un percorso più ampio.
È in fondo il senso dell’appello, circolato lo scorso venerdì e firmato da personalità autorevoli come Ban-Ki Moon, ex segretario generale dell’Onu; Christiana Figueres, ex segretaria esecutiva della Convenzione quadro delle Nazioni unite sul cambiamento climatico (Unfccc); Johan Rockström, direttore del Potsdam Institute for Climate Action Research. Nella lettera si sostiene che non è più rinviabile una riforma delle Cop. Come scrive il sito Linkiesta, “i firmatari non si limitano alla critica, fanno delle proposte. Le prossime Cop dovrebbero escludere dal processo di selezione del Paese ospitante quelli che non sostengono l’eliminazione dei combustibili fossili. Snellire i tempi e la scala delle conferenze. Istituire meccanismi per costringere gli Stati a rispettare gli impegni presi. Definire criteri chiari su cosa costituisca un finanziamento climatico per evitare di considerare quelli che aggravano il debito delle nazioni vulnerabili. Istituire un organo scientifico permanente che partecipi alle Cop. Evitare che alle Cop ci siano i lobbisti dell’industria fossile”.
L’ultima dichiarazione è, d’altra parte, quella che EconomiaCircolare.com, insieme all’associazione A Sud e alla Fondazione OpenPolis, sostiene attraverso la campagna Clean the Cop, presentata lo scorso 11 novembre alla sala stampa della Camera dei deputati e sposata dai tre partiti di opposizione in Parlamento – Alleanza Verdi e Sinistra, Movimento 5 stelle e Partito Democratico. Un appello (si può leggere qui) rivolto al governo Meloni proprio negli stessi giorni in cui il gruppo d’inchiesta Influence Map ha evidenziato come le imprese fossili non solo inquinano la diplomazia climatica ma anche il dibattito pubblico, orientandolo a proprio favore e spacciandosi come unica alternativa credibile. InfluenceMap ha mappato 2.400 interventi nell’anno intercorso tra la fine della Cop28 e l’inizio della Cop29, appurando che colossi energetici come TotalEnergies, Shell, Exxon, Chevron e l’italiana Eni avrebbero messo in campo in quest’anno false notizie e racconti basati sulla visione pessimistica che abbandonare i fossili costi troppo o su quella ottimistica per cui il loro impiego può essere salvato grazie alla tecnologia. Narrazioni che nel nostro piccolo abbiamo provato e continuiamo a smontare.
Quale ruolo per l’UE e l’Italia alla Cop29?
Dopo la pausa di domenica i negoziati sul clima sono ripresi nella giornata di oggi. A Baku arriveranno alla spicciolata i ministri dell’ambiente – compreso l’italiano Gilberto Pichetto Fratin, per il governo Meloni, che arriverà in serata. Con l’obiettivo, difficile anch’esso, di portare a casa almeno qualcosa di concreto in merito alla finanza climatica. Come ricorda nella sua newsletter giornaliera il think thank per il clima ECCO, “parte della partita della Cop29 si giocherà in Brasile, dove sono riuniti i capi di stato e di governo del G20 per un vertice di grande importanza, guidato dal presidente brasiliano Lula. Giorgia Meloni ha già avuto un primo bilaterale con Lula, al centro “l’energia” ma per il momento non trapelano ulteriori dettagli. I Paesi del G20, insieme, pesano per circa l’85% dell’economia globale. Questo fa del G20 la sede principale per le discussioni sulla finanza e sulla riforma del sistema finanziario internazionale. I leader di questi Paesi possono iniettare quella tanto necessaria dose di volontà politica per raggiungere un risultato di successo a Baku. In particolare, sarà utile vedere se nel comunicato finale, atteso per la tarda notte di martedì, come nel concreto i G20 vorranno mobilitare la finanza per clima e sviluppo”.
Il fatto che si attendano risultati maggiori da un altro vertice lascia intendere come questa Cop29 sia destinata, come già ampiamente sottolineato nei mesi precedenti, a essere qualcosa di interlocutorio, a voler mantenere l’ottimismo. D’altra parte la Conferenza annuale a Baku è cominciata con le accuse dirette di Ilham Aliyev, presidente dell’Azerbaijan: agli USA, per aver diffuso “fake news” circa la propria produzione dei combustibili fossili, e di ipocrisia verso l’Unione Europea che, dopo la guerra in Ucraina, ha chiesto proprio all’Azerbaijan maggiori rifornimenti di gas – lo ha fatto anche l’Italia attraverso il gasdotto TAP, che approda in Puglia.
Quest’ultima è una verità inoppugnabile, rilanciata negli scorsi giorni da Corporate Europe Observatory, il gruppo di ricerca che monitora le influenze e le pressioni a cui sono sottoposte le istituzioni europee. Un’accusa che sin dal gioco di parole del titolo – HyCOPrisy -, mostra, dati alla mano, come l’Unione Europea “sta usando il vertice sul clima per definire come sostenibile il gas dell’Azerbaijan”. Attraverso i documenti ottenuti dall’accesso agli atti l’Osservatorio ha scoperto che è stata proprio l’UE a spingere l’Azerbaijan ad aderire all’accordo volontario Global Methane Pledge, con cui gli Stati aderenti si impegnano a ridurre le perdite di metano, che resta il più potente gas serra nel breve e medio periodo. In questo modo, sottolinea CEO, sono tutti contenti: l’Unione Europea “può affermare che le sue importazioni di gas fossile sono emissioni più ridotte” mentre l’Azerbaijan può affermare che “il suo paese produce il petrolio e il gas più sostenibili”.
Fra l’altro l’Azerbaijan è importante anche per l’Italia: è il secondo fornitore di gas del nostro Paese – preceduto dall’Algeria – grazie al TAP, il gasdotto che arriva a Melendugno (Puglia). E, come ha fatto notare Legambiente, soltanto nel 2023 “il Paese ha speso 78,7 miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi (SAD) destinati ad attività, opere e progetti connessi, direttamente e indirettamente, alle fossili. Una somma pari al 3,8% del PIL nazionale. Una spesa, negli ultimi 13 anni, costata all’Italia 383,4 miliardi di euro“.
Ecco perché c’era molta attesa sul discorso tenuto dalla premier Giorgia Meloni lo scorso 13 novembre. Qui però la presidente del consiglio si è limitata a ripetere i ritornelli ossessivi che la destra e le aziende fossili si rimpallano continuamente, cioè “l’ambientalismo pragmatico e non ideologico”, la “neutralità tecnologica”, la natura che va sì “difesa” ma con “l’uomo al centro”. Se era lecito aspettarsi qualcosa di più che slogan elettorali, non è andata meglio quando Meloni ha proposto le ricette energetiche del governo, partendo dall’assunto, su cui ci sarebbe tanto da dire tra l’altro, che “attualmente non esiste un’unica alternativa all’approvvigionamento da fonti fossili”. Secondo la premier “abbiamo bisogno di un mix energetico equilibrato per migliorare il processo di transizione. Dobbiamo utilizzare tutte le tecnologie a disposizione. Non solo rinnovabili, ma anche gas, biocarburanti, idrogeno, cattura della CO2 e, in futuro, il nucleare da fusione che potrebbe produrre energia pulita, sicura e illimitata”. Sono tutte tecnologie, guarda caso, promosse da Eni e su ognuna di esse i dubbi al riguardo sono molti. Se anche noi, come Corporate Europe Observatory, volessimo usare un gioco di parole potremmo dire che l’intervento di MelEni è stato deludente. Peccato che il collasso climatico non consenta più giochi, meline, rinvii e ulteriori ipocrisie.
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