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martedì, Gennaio 28, 2025

Miti e credenze sui rifiuti da sfatare. Grosso: “La qualità della raccolta è cruciale”

“Dove vanno a finire i nostri rifiuti?” è la domanda attorno a cui si muove il libro di Mario Grosso, ingegnere ambientale e professore al Politecnico di Milano. In questa intervista l’autore fa chiarezza su punti di forza e di debolezza di un modello di gestione a supporto dell’economia circolare. “Con le bioplastiche si sporca la raccolta dell’umido”

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

“La battaglia per ridurre i rifiuti ha bisogno di fantasia a lungo termine”. La frase evocativa di Mario Grosso, ingegnere ambientale e professore al Politecnico di Milano, chiude il suo libro “Dove vanno a finire i nostri rifiuti?”, pubblicato da Zanichelli e giunto alla seconda edizione. Difficile non trovarsi d’accordo col prof. Grosso, esperto di gestione dei rifiuti e di tecnologie per il loro recupero e il trattamento, che in questo volume riesce a rendere comprensibile e accessibile la “scienza di gestire gli scarti a supporto dell’economia circolare”, come recita il sottotitolo del testo, attraverso un linguaggio chiaro ed esempi immediati

La domanda posta sin dal titolo del libro, infatti, è probabilmente la più diffusa tra le persone comuni che non si occupano a livello tecnico e specialistico di gestione dei rifiuti. Pur presentissimi nella nostra vita, in ogni aspetto e in ogni luogo, sui rifiuti la conoscenza diffusa è ancora piuttosto scarsa. Di più: i rifiuti sono ancora preda di falsi miti, notizie parziali, propagande varie. In questa intervista col prof. Mario Grosso proviamo a fare un po’ di chiarezza. 

Mario Grosso rifiuti

Come ricorda lei nel libro, in Italia si parla molto dei rifiuti urbani e poco di quelli speciali, che invece costituiscono il quadruplo dei primi. E, soprattutto, i rifiuti speciali non accennano a diminuire, mentre i rifiuti urbani sono in lenta ma costante diminuzione. Come mai secondo lei? E come si potrebbe intervenire?

Quello dei rifiuti speciali è un tasto sicuramente dolente. Per inquadrare meglio la questione va precisato che in Italia abbiamo una contabilizzazione dei rifiuti speciali che è meno robusta rispetto ai rifiuti urbani. Ciò avviene per vari motivi, tra cui il fatto che alcuni rifiuti sfuggono alla contabilizzazione, come ad esempio le piccole realtà industriali.

Poi c’è un tema critico che è il rischio del doppio conteggio, perché alcuni flussi di rifiuti speciali subiscono numerosi trattamenti in impianti diversi. In più c’è il fatto che l’emersione del sommerso, sempre più evidente in questi anni, si rivolge più ai rifiuti speciali che a quelli urbani, più facili da controllare. Si tratta in ogni caso di un dato di difficile interpretazione anche perché piuttosto volatile.

Più volte nel libro lei scrive che le plastiche più piccole e sporche, quelle di bassa qualità, sarebbe più conveniente bruciarle perché hanno un alto contenuto energetico e sono difficili da riciclare. Le plastiche delle merendine o dei cracker, ad esempio, bisognerebbe dunque buttarle nel bidone dell’indifferenziata?

Premesso che si dovrebbe fare una verifica specifica caso per caso, provo a semplificare per essere chiaro: se dove mi trovo l’indifferenziato va in discarica allora dovrebbe avere senso differenziare al massimo tutti i tipi di plastiche, proprio per sottrarle alla discarica. Anche se va comunque specificato che le plastiche di bassa qualità che lei citava in ogni caso andranno difficilmente a riciclo.

Non perché non siano intrinsecamente riciclabili ma perché di sicuro verranno scartate dagli impianti in fase di selezione, e tali plastiche affronteranno una serie di altri passaggi, piuttosto energivori, che le porteranno comunque a essere incenerite. Se invece l’indifferenziato va direttamente a recupero energetico in un termovalorizzatore, il risultato finale è lo stesso, ma al netto di una serie di onerosi passaggi intermedi. 

Se è vero che la differenziata in Italia è arrivata al 65%, l’obiettivo richiesto dall’Unione Europea, è altrettanto innegabile che su alcuni tipi di rifiuti che non sono raccolti tramite il porta a porta, come i RAEE, si fa ancora fatica. Sarebbe auspicabile estendere la raccolta differenziata anche a questi settori? O quali sarebbero le controindicazioni?

Bisogna innanzitutto ricordare che la raccolta porta a porta è un modello molto costoso, ed è per questo che si è già ottimizzata ad esempio attraverso la raccolta multi-materiale (plastica e metalli insieme, ad esempio, e così via). Pensare di  mettere in piedi ulteriori raccolte per flussi comunque ridotti come quello dei RAEE, che non avrebbero bisogno di raccolte quotidiane o settimanali, sarebbe un ulteriore aggravio sulla TARI.

A mio modo di vedere bisognerebbe invece incentivare le isole ecologiche o, per tornare all’esempio sui RAEE che lei faceva, ricordare meccanismi ancora poco noti al grande pubblico come le modalità di ritiro 1 contro 1 e 1 contro zero. Ovvero la possibilità di riconsegnare un RAEE presso un rivenditore senza doverne necessariamente acquistare un analogo prodotto nuovo. Insomma: sono i numeri dei RAEE a dirci che conviene puntare sulla sensibilizzazione.

Si parla spesso della quantità della raccolta differenziata e ancora troppo poco della qualità della raccolta. Dove allora si può intervenire?

È un tema di cui si parla ancora poco ma che è cruciale. Giusto per dare un numero, circa il 20% della raccolta differenziata si trasforma in scarto. Per cui in termini concreti se nel 2022 l’Italia ha raggiunto il 65% di differenziata richiesto dall’Unione Europea vuol dire che circa il 13% dei rifiuti raccolti è diventato uno scarto. Alcuni miglioramenti si sono registrati nella fase di selezione, grazie alla tecnologia, nella fase ad esempio del primo vaglio. Una via maestra resta quella della sensibilizzazione, in particolare facendo affidamento alle indicazioni riportate sulle confezioni dei prodotti, diventate finalmente obbligatorie. Certo, le etichette non sono sempre accurate, però è comunque un punto di partenza.

Non credo comunque che si possa ulteriormente “vessare” più di tanto le singole persone, perché altrimenti la differenziata diventa qualcosa che viene percepito come un fastidio, ma ci sono errori banali che si possono evitare. Penso ad esempio alla carta che viene raccolta con il sacco di plastica. E poi c’è l’enorme tema delle bioplastiche, soprattutto in Italia. Con le bioplastiche stiamo andando a sporcare la raccolta dell’umido. Perché va ricordato che, con pochissime eccezioni, le bioplastiche verranno comunque scartate dagli impianti di trattamento dell’umido.

I motivi sono tanti: le bioplastiche, al contrario di tanti annunci, si degradano molto difficilmente, e inoltre, specie i sacchetti, rischiano di creare problemi operativi negli impianti, ad esempio avvolgendosi sulle coclee o sui miscelatori. Inoltre questa fase di allontanamento delle bioplastiche determina anche una certa rimozione dell’umido, per effetto di trascinamento. Con tutta una serie di conseguenze facilmente constatabili: si genera meno biogas, che è la componente più preziosa che deriva dal trattamento dell’organico, e si creano più scarti. In più le bioplastiche difficilmente sono distinguibili dalle plastiche, per cui capita spesso che le bioplastiche finiscano nella raccolta della plastica, dove generano ancora più fastidio.

Dunque le bioplastiche andrebbero anch’esse nell’indifferenziato?

A bocce ferme il luogo dove le bioplastiche fanno meno danni, per così dire, è proprio nell’indifferenziato. Perché producono energia e, se sono biogeniche, non derivano da fonti fossili. Attenzione: non dico che sia la soluzione migliore ma è quella con minor impatto, che genera meno problemi. Ci tengo a precisare che le bioplastiche non sono un problema di per sè ma lo è il fatto che si tenta di farle passare come la soluzione all’inquinamento da plastica, attraverso la sostituzione 1 a 1 con il medesimo modello usa e getta. Il problema rimane il monouso, laddove evitabile, a prescindere dal materiale.

In questi mesi si è discusso spesso della scelta di tre città cruciali come Roma, Palermo e Catania di costruire dei termovalorizzatori. Tra l’altro i due siciliani e quello romano dovrebbero trattare la stessa quantità di rifiuti, cioè 600mila tonnellate di rifiuti all’anno. Lei che ne pensa? 

Su entrambe le vicende va considerato che questi quantitativi di rifiuti, se non vanno in discarica, vengono ancora oggi trasportati all’estero, con un dispendio energetico e un impatto ambientale notevoli. Oggi come oggi impianti del genere vanno considerati la destinazione non solo dell’indifferenziato ma della quota ineludibile di tutto ciò che non si può riciclare, cioè di tutti gli scarti della raccolta differenziata, oppure dei fanghi di depurazione, ad esempio, in modo da chiudere il ciclo anche per questo tipo di materiali di cui altrimenti il destino sarebbe la discarica.

A valle di ciò, invece, si pone il problema tecnologico della massimizzazione dell’efficienza del recupero energetico, con impianti come quello di Brescia che sono già arrivati a quote del 97%. In più c’è la questione delle scorie, che vengono ormai recuperate in maniera pressoché totale, e che contengono elementi fondamentali come l’alluminio, il rame e anche alcuni metalli preziosi. In questo modo anche questi impianti diventano il tassello di un sistema che punta a un ulteriore recupero di materiali altrimenti difficilmente riciclabili. 

Leggi anche: Cambiare l’energia per salvare la Terra. Nicola Armaroli: “La transizione va pianificata”

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