Parlare di banche e di finanza è sempre un po’ complicato. Non tanto per via dei tecnicismi, presenti come in qualsiasi altro settore, quanto perché è difficile rendere la centralità del loro ruolo nell’economia. Per fare un esempio: se si scrive di un’azienda energetica, come lo sono ad esempio Eni e Snam o Enel, è facile visualizzare chi sono e cosa fanno, con tutto l’immaginario di trivelle, gasdotti, centrali e pannelli fotovoltaici. Questo processo di traslazione visiva è invece più arduo con il mondo della finanza, con i flussi di denaro che spesso supportano iniziative e progetti di cui non siamo a conoscenza. Eppure è proprio qui che passa gran parte dei destini del Pianeta.
Lo sa bene Simone Ogno, campaigner Finanza e Clima per la ong Re:Common, che da tempo ha concentrato le proprie attenzioni, attraverso puntuali report e la scelta dell’azionariato critico, proprio sul mondo della finanza. Il 20 settembre, alla vigilia della Pre-Cop di Milano che si terrà dal 30 settembre al 2 ottobre, Re:Common ha organizzato un interessante dibattito sul ruolo della finanza nel contrastare la crisi climatica. Anche noi di EconomiaCircolare.com ci interroghiamo da tempo sulla finanza che si autodichiara sostenibile. Con Ogno abbiamo dunque cercato di capire se accanto alle buone intenzioni ci sono anche le buone pratiche.
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I principali problemi da affrontare per finanza che sia realmente sostenibile sembrano essere l’assenza di trasparenza da parte sia degli investimenti che delle imprese e l’assenza di una definizione comune della sostenibilità, che poi danno vita al greenwashing. È davvero “solo” una questione di lacune da colmare?
Partendo dalla fine, ci sono due elementi da evidenziare. Il primo è la partita che si sta giocando a livello europeo sulla tassonomia, dalla quale poi a cascata deriva la questione su quali sono e quali non sono gli investimenti verdi, così come quali sono i green bond e quali non lo sono. Sul greenwashing ce n’è così tanto da perderci la testa. Il più emblematico è quello portato avanti dalla lobby del gas, che continua a spingere sotto traccia le istituzioni europee affinché venga inserito questo combustibile fossile tra i prodotti verdi che poi possono essere oggetto di investimenti e di bond. Dietro le quinte di questa azione c’è poi la finanza che fa da supporto, perché se andiamo a vedere i bilanci e i position paper di qualsiasi istituzione finanziaria tutte affermano che il gas è un combustibile a bassa emissione di carbonio e che serve alla transizione. Una transizione che però è ad infinitum, che durerà per almeno altri 50 anni, secondo questa idea.
È vero che le azioni di pressione sono legali, si tratta pur sempre di difendere i propri interessi, ma non c’è chi dovrebbe vigilare affinché queste non inquinino, è proprio il caso di dirlo, eccessivamente il mercato, la collettività e il Pianeta?
Certamente gli enti regolatori dovrebbero prendere l’iniziativa. A luglio la Banca d’Italia ha presentato la Carta degli investimenti sostenibili: ci si aspettava che fosse un documento ambizioso, sulla scia di quello che sta facendo la Banca Centrale Europea, e invece addirittura non menziona proprio nessun combustibile fossile. Si parla di tabacco e di armi come attività da non finanziare, ad esempio, e non di carbone, petrolio o gas, che sono altrettanto se non più dannosi, soprattutto dal punto di vista ambientale.
E allora come se ne esce? Coi criteri ESG, provando magari a migliorarli visto che al momento hanno ancora parecchie criticità?
Negli ultimi anni si è fatto a gara per definirsi sostenibile, utilizzando appunto i criteri ESG (Environmental, Social e Governance). Il problema è che manca un quadro di riferimento internazionale, riconosciuto da assise internazionali: al momento ci sono vari indici, varie classifiche, varie società che stilano i rating e ogni ente finanziario sceglie quello su misura, per il quale riceverebbe un punteggio positivo. Il problema è che ciascun pezzo è una parte del tutto, e quindi ciascuno sceglie la parte che più gli conviene.
Ci puoi fare un esempio?
Intesa Sanpaolo, principale banca italiana e tra le top-30 a livello globale, sostiene gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, ha sottoscritto gli Equator Principles (EP), i Principles for Responsible Investment (PRI) dei Principles for Responsible Banking (PRB) e dei Principles for Sustainable Insurance (PSI). Tutte queste iniziative sono spesso e volentieri dei forum di discussione, dove non si assumono scelte vincolanti o si decidono standard ai quali conformarsi. L’unica eccezione sono gli Equator Principles, che invitano a pubblicare il numero delle operazioni finanziarie connesse a settori climalteranti, divise per ordine di impatto e geograficamente, nonché l’eventuale sostegno a progetti impattanti. In questo caso però gli EP si limitano a richiedere il numero dei progetti finanziati e in che aree geografiche, stilando una classifica di rischio, senza però che si sappia esattamente di quali progetti si parli, in quale zona del mondo sono stati applicati, nemmeno l’esatto ammontare. Nonostante questo, Intesa San Paolo afferma di essere una banca sostenibile e aderente agli standard ESG, nonostante il suo sostegno finanziario all’industria fossile ed altri settori climalteranti. Più in generale è avvenuto un cambio importante delle scelte finanziarie.
Ovvero?
Non si finanzia più il singolo progetto, facilmente più attaccabile da attivisti, ong e società civile. Non si sostiene più il singolo gasdotto o la specifica centrale carbone, perché a livello di comunicazione e di reputazione ciò sarebbe un danno. In pratica si sta abbandonando il project financing e si preferisce investire direttamente sulle società fossili, ad esempio, che poi di quei soldi ne fa ciò che vuole.
Più volte come Re:Common avete affrontato l’aspetto del Net Zero, cioè l’obiettivo delle zero emissioni, che l’Europa ha sancito al 2050 – e Stati come la Cina che hanno posticipato questo impegno al 2060. Dall’altra parte ci sono aziende come Eni che invece addirittura l’hanno anticipato al 2040. Sembra solo in apparenza illogico, ma zero emissioni non vuol dire assenza di emissioni. Perché lo zero è un numero che si può raggiungere attraverso una semplice sottrazione. Ci spieghi il meccanismo?
Anche nel mondo finanziario sta emergendo questa volontà pressoché comune del Net Zero al 2050. Quella che sembra una soluzione auspicabile in realtà rischia di diventare l’ennesimo problema. Non solo perché l’annuncio delle stesse aziende fossili è quello nel frattempo di aumentare le emissioni (come Eni, appunto, che fino al 2025 aumenterà la produzione di petrolio e gas, nda), ma perché il rischio è quello di cadere nel meccanismo delle compensazioni. Vale a dire: tanto emetto tanto compenso. E proprio con Eni abbiamo visto che il processo REED, più noto come riforestazione, è problematico. Ecco perché una proposta interessante è quella di cominciare a rendicontare le cosiddette emissioni finanziate. Tutte le istituzioni, infatti, fanno a gara a riportare soltanto le emissioni dirette, cioè quelle che materialmente producono. Ma il vero problema sono quelle indirette, cioè quelle non direttamente connesse alle attività delle aziende (mobilità dei prodotti e dei servizi, ad esempio). Con questo meccanismo si verrebbe a conoscenza del reale impatto degli istituti di credito e delle compagnie assicurative.
Da tempo voi avete concentrato l’attenzione sulle banche nostrane, soprattutto Unicredit e Sanpaolo. Cosa è emerso?
Innanzitutto abbiamo scelto di analizzare le attività di questi due istituti perché da tempo il mondo bancario italiano sta andando verso un’ipercompressione, che tra parentesi è ciò che auspica il premier Mario Draghi. Da ciò deriva che si sono creati e si creano colossi finanziari che finanziano altri colossi. Chi meglio delle due banche di sistema? Tra le due è Unicredit colei che ha fatto qualche passo in avanti: se fino a pochi anni Unicredit era più esposta dal punto di vista dei prestiti all’industria fossile, è vero invece che non sta investendo più su questo settore. E questo è un fattore positivo, perché è più facile chiudere il rubinetto dei prestiti che non quello degli investimenti. Intesa da un lato continua a prestare abbondantemente ma soprattutto investe nelle società fossili. Questo vuol dire che ci credono, cioè che sperano che facciano utili. E questo è avvenuto anche durante la crisi pandemica, che per il mondo fossile durante il primo lockdown è stata particolarmente pesante. Sono stati proprio investimenti come quelli di Intesa Sanpaolo a garantire loro la sopravvivenza.
La vostra analisi poi non si limita al mondo privato ma anche al pubblico, con il ruolo fondamentale di Cassa Depositi e Prestiti e Sace. A riguardo cosa ci puoi dire?
Gli attori sono sempre gli stessi, paradossalmente, anche perché pure i soldi della banche sono (una parte) soldi dei risparmiatori, e dunque di tutti noi, e dall’altra i soldi pubblici, come è noto, vengono dalle tasse. Il meccanismo è quasi semplice: se Saipem ad esempio vuole costruire un gasdotto magari l’investimento arriverà da Intesa Sanpaolo, e se Saipem non riuscirà a ripagare quel prestito allora subentrerà Sace, che ha posto la garanzia, per ripagare con soldi pubblici. Ancor peggio, poi, se esiste, come esiste a volte, la controgaranzia da parte direttamente del ministero dell’Economia e delle Finanze. Il triangolo è questo: l’industria fossile costruisce, la finanza privata sovvenziona e la finanza pubblica garantisce. Ciò succede soprattutto in zone particolarmente fragili come l’Artico o l’Africa.
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