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sabato, Dicembre 14, 2024

La geografia delle materie prime critiche, tra nazionalismi e la nuova corsa all’Artico

Dalle pressioni geopolitiche della Cina al protezionismo degli Usa fino al nazionalismo di Africa e America Latina: ecco le rotte da seguire sulle materie prime critiche. Interessi e risorse si sovrappongono fino a costruire un mosaico da dove passa la doppia transizione, ecologica e digitale

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Sulle materie prime critiche il dibattito, seppure agli albori, rischia già di stagnare. Ciò avviene a causa di alcune verità che si sono sedimentate talmente sul fondo da diventare luoghi comuni: il ruolo preponderante della Cina, l’esigenza dell’Unione europea di una maggiore autonomia, il protezionismo degli Stati Uniti.

Sono tutti elementi che, da soli, sono difficilmente innegabili. Quel che però manca è una visione d’insieme, che metta insieme i puntini e si ponga qualche domanda: perché la Cina ha assunto questo ruolo preponderante? Da dove nasce l’esigenza europea di una maggiore autonomia? Quali conseguenze potrà avere il protezionismo degli Stati Uniti?

Per rispondere a queste ed altre domande abbiamo tracciato una sorta di geografia delle materie prime critiche, in modo da comprendere dove sono le principali risorse e cosa intendono farne gli Stati. Scoprendo che spesso interessi e disponibilità si sovrappongono.

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Cina (e geopolitica)

Che la Cina controlli gran parte della catena di valore legata alle materie prime critiche e i minerali rari è cosa nota e di centrale importanza, visti gli obiettivi della transizione ecologica: basti pensare al litio per le batterie delle auto elettriche o al cobalto negli smartphone, ma anche altri settori vitali con minore copertura mediatica. La Cina, ad esempio, produce il 97% di gallio e il 68% di germanio, minerali indispensabili per respiratori e defibrillatori.

Pechino, consapevole della sua posizione dominante, la utilizza come una leva geopolitica nelle relazioni internazionali con i partner commerciali, come dimostra quanto successo negli anni recenti. Nel 2010, durante la disputa col Giappone sulle isole Senkaku, ha imposto una restrizione informale sulla vendite di terre rare alle aziende giapponesi. Con gli Stati Uniti è in atto un braccio di ferro a suon di limitazioni alle esportazioni. L’anno scorso, le misure protezioniste degli Usa sui semiconduttori e la tecnologia avanzata per i computer hanno avuto come immediata risposta la limitazione delle esportazioni di gallio e germanio dalla Cina agli Stati Uniti. Nel 2020 Pechino ha interrotto la vendita di grafite in Svezia, sebbene per motivazioni di natura commerciale.

Geopolitica e relazioni commerciali, sono indissolubilmente legate quando si parla di minerali rari. La posizione dominante sul mercato permette infatti a Pechino di fissare il prezzo di alcune materie prime a piacimento aumentando l’offerta e facendo crollare i prezzi per mettere fuori mercato le nazioni concorrenti. Il vantaggio di Pechino, inoltre, non è solo geologico ma politico. Le aziende cinesi possono godere di prestiti a tassi ridotti dalle banche controllate dallo Stato, le leggi a difesa dell’ambiente sono meno rigide e le concessioni minerarie sono facili da ottenere per le aziende controllate.

La Cina al tempo stesso lavora costantemente per consolidare questa posizione dominante: ha investito oltre il doppio delle aziende americane, australiane e canadesi messe insieme per assicurarsi il controllo della catena del valore del litio in nazioni africane come lo Zimbabwe e la Namibia e nel “triangolo del litio” tra Argentina, Bolivia e Cile. Due terzi del cobalto estratto in tutto il mondo viene dal Congo, dove le miniere sono prevalentemente di proprietà di aziende cinesi. Una strategia portata avanti fin dal 1999, fatta di accordi commerciali bilaterali con le nazioni dell’Africa subsahariana. Ora Pechino vuole replicare lo stesso modello con il Medio Oriente. Ad esempio, quando l’Iran ha dichiarato di aver scoperto riserve di litio per 8.5 milioni di tonnellate, la Cina si è subito attivata per sfruttare a livello commerciale e geopolitico la nuova opportunità.

Lo stesso sta facendo per accrescere il proprio ruolo in un altro settore chiave della transizione energetica e digitale, in cui per il momento non ha una posizione dominante: la produzione di semiconduttori come i microchip. Il leader globale in questo campo è Taiwan, dove vengono prodotti il 90% dei chip più avanzati in commercio: un esempio evidente di come questioni geopolitiche e commerciali rischiano di entrare in collisione. I venti di crisi nelle relazioni con Taiwan, con la minaccia di un blocco navale, avrebbero sicuramente l’effetto di un terremoto su scala mondiale nel settore dei microchip.

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Stati Uniti (e protezionismo)

Gli Stati Uniti hanno modificato la loro politica sulle terre rare per contrastare il dominio cinese. Il recente Inflation Reduction Act dedicato alle energie rinnovabili, tra gli altri interventi, garantisce una serie di incentivi e crediti d’imposta, concessi alle imprese nel settore dell’energia green. Tra queste sono inclusi i produttori di batterie al litio, al fine di stimolare gli acquisti sul suolo americano e sviluppare il mercato Usa dell’auto elettrica. Al tempo stesso, sono escluse dagli incentivi le aziende legate alla Cina nella produzione di batterie.

Con la stessa filosofia di stimolo all’economia nazionale e indipendenza strategica dalla Cina, l’amministrazione Biden nel 2021 ha investito 53 miliardi di dollari nel settore dei chip made in Usa. Al tempo stesso, gli Stati Uniti tentano costantemente di trovare nuove fonti di approvvigionamento, in Asia, in America Latina e nella regione del Pacifico. Nella recente visita del presidente Joe Biden in Vietnam è stato firmato con Hanoi un accorto per facilitare gli investimenti nelle riserve minerarie di materie prime critiche presenti nella nazione asiatica. Nel marzo del 2023 Stati Uniti e Giappone hanno firmato un accordo sulle materie prime critiche.

Gli effetti delle ultime politiche americane sono di stampo protezionista e perciò avranno effetti deleteri su tutte le altre nazioni del mondo. I sussidi per la produzione di batterie di auto elettriche sul suolo americano, ad esempio, sono una minaccia per il nascente mercato europeo, perché spingono le multinazionali dell’auto a delocalizzare negli Usa. Volkswagen e Tesla hanno già dirottato investimenti dall’Europa agli Stati Uniti per accedere agli incentivi. Inoltre  le batterie made in Usa, grazie ai minori costi di produzione, rischieranno di invadere i mercati concorrenti.

Queste misure protezionistiche, secondo gli esperti, potrebbero essere contestate davanti all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tuttavia, ancora una volta relazioni commerciali e geopolitica si intrecciano. Gli Stati europei sono restii a rivolgersi all’OMC per motivi di opportunità politica, ad esempio non indebolire il blocco Nato di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, e perciò l’Unione europea e il Regno Unito hanno avviato dei colloqui per trovare una soluzione commerciale con gli Usa.

Difficilmente, però, secondo le previsioni degli esperti, riusciranno a strappare concessioni paragonabili a quelle di Canada e Messico, legate agli Usa da un accordo di libero scambio. Degno di attenzione, poi, è il tavolo aperto tra Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito e Giappone per ridurre la dipendenza dalla Cina: l’intenzione è di creare una sorta di “buyer’s club” per fare acquisti congiunti di minerali rari indispensabili per le batterie al litio e accrescere il potere contrattuale.

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Unione europea

L’Unione europea è il blocco più dipendente dagli altri Paesi per quanto riguarda le materie prime critiche. Per alcune terre rare si tratta di una dipendenza totale: disprosio e terbio sono importati al 100% dalla Cina, il 99% di boro viene dalla Turchia e il 97% del magnesio sempre dalla Cina. Per diversificare la fornitura, con l’obiettivo di non dipendere da un singolo Paese terzo più del 65% del consumo annuale per ogni materia prima strategica, la Commissione europea ha elaborato il Critical Raw Materials Act, attualmente in fase di discussione con Parlamento e Consiglio.

Se il Critical Raw Material Act è la risposta per garantire catene di approvvigionamento sicure e sostenibili, ovvero una maggiore autonomia interna, serpeggia però una certa preoccupazione su come questa sarà raggiunta: riprendere le esplorazioni e l’estrazione mineraria nel territorio dell’Ue nelle zone in cui sono stati recentemente individuati giacimenti di terre rare come Svezia, Finlandia e Italia (in Sardegna per la precisione) avrà sicuramente un impatto ambientale, mentre bisogna vedere come verrà affrontato nel dettaglio e con quale efficacia il tema del riciclo e dell’economia circolare.

Come risposta alla svolta protezionistica statunitense, la Commissione europea ha proposto nel gennaio 2023 il Green Deal Industrial Plan ed è al lavoro per altre modifiche normative come il Net-Zero Industry Act e la Electricity Market Design Reform, con lo scopo di accelerare la capacità produttiva di una serie di prodotti come le batterie, rendendo le procedure di autorizzazione e finanziamento per i progetti strategici europei più rapide.

I tempi legislativi dilatati dell’Unione europea e il ritardo nella creazione di gigafactory per le batterie mettono comunque l’Ue in una posizione svantaggiata rispetto agli Stati Uniti. Per questo, al fine di evitare frizioni commerciali con l’alleato atlantico nel breve periodo, la diplomazia di Bruxelles si è attivata per convincere gli Stati Uniti a rendere meno rigide le clausole dell’Inflation Reduction Act per accedere ai crediti di imposta e permettere ai prodotti europei di competere alla pari con quelli americani.

Sempre a livello di diplomazia e relazioni commerciali, la Commissione europea a partire dal 2011, anno di adozione della Raw Materials Strategy, ha stretto accordi sulle materie prime con nazioni come Argentina, Brasile, Canada, Cile, Cina, Colombia, Egitto, Groenlandia (Danimarca), Giappone, Messico, Marocco, Perù, Tunisia, Stati Uniti, Uruguay e Unione Africana. Nessuno di questi, tuttavia, è in grado di sostituire la dipendenza dalla Cina. Ci sarebbe la possibilità di rinegoziare gli scambi commerciali e relazioni minerarie con Pechino, ma la recente inchiesta avviata dalla Commissione europea sui sussidi cinesi all’auto elettrica dimostra come l’Ue percepisca la Cina principalmente come una minaccia.

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Russia e resto dell’Asia

Nell’Asia al di fuori della Cina, il Giappone sta adottando politiche in linea con Stati Uniti e Unione Europea per ridurre la dipendenza dalla Cina. In questa strategia, oltre ai già citati accordi con gli Usa, rientrano gli investimenti della Japan Organization for Metals and Energy Security nell’azienda australiana Lynas per assicurarsi parte del fabbisogno necessario di terre rare per le aziende tecnologiche giapponesi e punta molto sulla necessità di stoccare le materie prime rare per avere una riserva strategica nel futuro.

L’India nel 2019 ha adottato la sua National Mineral Policy per ridurre le importazioni di materie prime critiche, che si basa sostanzialmente su incoraggiare nuove esplorazioni e aumentare le estrazioni. Le altre nazioni asiatiche più ricche di giacimenti si stanno orientando, invece, verso un maggiore protezionismo. L’Indonesia, che ospita il 21% delle riserve mondiali di nichel, ha progressivamente limitato le esportazioni del minerale. Scatenando peraltro le proteste dell’Ue, che ha definito “illegali” le restrizioni, lamentando i danni per i produttori europei di acciaio inossidabile. Le Filippine, il secondo fornitore mondiale di nichel (12%), potrebbero presto tassare le esportazioni per stimolare l’industria nazionale.

La Federazione Russa, prima dell’invasione dell’Ucraina, era il più grande esportatore mondiale di ghisa, uranio arricchito, palladio e nichel. Copriva anche una quota significativa delle esportazioni di platino e alluminio raffinato. Finora le sanzioni occidentali hanno evitato restrizioni generali sull’importazione di metalli chiave, introducendo invece dazi e tariffe su importazioni selezionati. Ad esempio, il colosso russo dei metalli Norilsk Nickel, un fornitore chiave di nichel e palladio, è stato in gran parte esentato dalle sanzioni. Tuttavia, per ragioni geopolitiche, la Russia si sta rivolgendo completamente verso i mercati asiatici. Gli scambi commerciali bilaterali tra Mosca e Pechino sono cresciuti del 36% rispetto all’ultimo anno, con esportazioni verso la Cina non solo di petrolio ma anche di minerali critici come alluminio e nichel.

Un’area dove c’è il rischio di nuove frizioni tra Russia, Europa e Stati Uniti è probabilmente l’Artico, ricchissimo di minerali rari, col rischio di una corsa allo sfruttamento e nuovi incidenti tra gli stati intorno al circolo polare artico. L’attività estrattiva è consolidata, ad esempio nella miniera di zinco Red Dog in Alaska e le miniere di nichel della Divisione Polare nella Russia artica. La società mineraria svedese LKAB ha scoperto nel gennaio 2023 il più grande giacimento conosciuto di elementi di terre rare in Europa.

Il rapido scioglimento del ghiaccio marino artico, dovuto al riscaldamento della regione a un tasso doppio rispetto alla media globale, ha messo in luce risorse precedentemente inaccessibili, innescando una maggiore concorrenza tra i Paesi. La regione ha visto un costante aumento della presenza militare, sebbene la maggior parte degli osservatori veda una bassa probabilità di un conflitto per accaparrarsi le risorse: in ogni caso, l’Artico è destinato a diventare una nuova pedina strategica nello scacchiere geopolitico delle materie prime critiche.

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America Latina, Africa e Australia

Continenti ricchi di giacimenti di minerali rari sono l’Africa, il Sudamerica e l’Australia. Nel giugno 2023 l’Australia ha annunciato una strategia sui minerali critici con l’obiettivo di “diventare una superpotenza nel campo delle energie rinnovabili”. Canberra ha concesso una linea di finanziamento di 1,2 miliardi di dollari a una società mineraria australiana puntando a nuove estrazioni. Allo stesso tempo sta scoraggiando gli investimenti stranieri nel settore minerario, che devono passare il vaglio del Foreign Investment Review Board.

Della profonda penetrazione cinese nell’Africa si è già detto. Una novità recente è il tentativo di alcuni Paesi di difendere la produzione adottando politiche protezioniste. Lo Zimbabwe e la Namibia, ad esempio, hanno vietato l’esportazione di litio per incentivare la lavorazione locale. Nel 2017 la Tanzania ha approvato una legge in cui obbliga le compagnie minerarie a dare al governo una quota del 16% delle proprie attività e di lavorare il minerale localmente.

Più che geopolitico, l’impatto delle materie prime critiche nel continente africano è sociale. In nazioni caratterizzate da instabilità politica e governi deboli, l’estrazione dei minerali è causa di conflitti e abusi sui diritti umani, come accertato da numerose ong. Le bande ribelli nella Repubblica Democratica del Congo guadagnano milioni dalla vendita illegale di tungsteno, stagno, tantalio. Litio, bauxite e grafite, invece, hanno un basso rapporto valore/peso e questo li rende meno appetibili per le milizie ribelli, in quanto redditizi solo se estratti su scala industriale. In quest’ultimo caso, il problema cruciale sono i diritti dei minatori. In Sudafrica nel 2014 c’è stato uno sciopero di cinque mesi dei minatori, con un crollo del 40% della produzione mondiale di platino.

Sicuramente il Sudamerica è il continente con le maggiori prospettive di crescita di influenza geopolitica legata ai minerali rari: nel “triangolo del litio” tra Bolivia, Cile e Argentina si trova il 60% delle riserve mondiali di litio, un quarto solo in Cile. Il presidente cileno Gabriel Boric ha avviato la nazionalizzazione dell’industria del litio. Il Messico l’ha già fatto nel 2022 e la Bolivia l’ha addirittura inserita in Costituzione, mentre l’Argentina da tempo mette in atto limitazioni alle esportazioni.

Accanto alla nazionalizzazione le tre nazioni stanno discutendo di un’alleanza strategica regionale o, nelle parole del presidente boliviano Luis Arce, “una sorta di OPEC del litio”. Se il cartello si estendesse anche a Messico e Brasile, nazione dove c’è una fiorente industria automobilistica e quindi interessata ad accrescere la produzione di batterie al litio, i Paesi sudamericani controllerebbero il 65% delle riserve mondiali di litio e il 35% della produzione attuale, con effetti potenzialmente devastanti sui prezzi del minerale per nazioni completamente dipendenti dalle importazioni come i Paesi del blocco Ue.

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