mercoledì, Dicembre 3, 2025

Giovannini (ASviS): “Semplificazioni? Drammatico sbaglio ridurre le imprese tenute alla due diligence”

Enrico Giovannini, ex ministro e direttore scientifico dell'Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS): nella scrittura della legge di bilancio vengono “ignorati gli effetti prevedibili delle misure”

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, redattore di EconomiaCircolare.com e socio della cooperativa Editrice Circolare

Durante la presentazione del decimo Rapporto dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Alleanza, cita l’allegato alla legge di bilancio sugli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (BES) che analizza dodici indicatori del benessere sociale, economico e ambientale del Paese. Un documento che, alla luce di quelle che allora erano le novità proposte dall’esecutivo per il bilancio pubblico, confermava la stagnazione di gran parte degli indicatori per il triennio 2026-2028. Senza che si gridasse allo scandalo e senza che queste indicazioni fossero la bussola per migliorare la proposta governativa.

Economista (ha studiato alla Sapienza di Roma con Federico Caffè), statistico, già Chief Statistician dell’OCSE, già presidente dell’ISTAT, due volte ministro della repubblica, ordinario di statistica economica all’Università Roma Tre, Enrico Giovannini ci aiuta a capire perché ci siano enormi contraddizioni, evidenziate nel report ASviS, non solo nell’azione del governo italiano, ma tra quello che gli Stati si impegnano a fare per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) e quello che poi in realtà fanno.

Dove sta il problema?

Ci sono diversi modi di vedere le cose, anche da un punto di vista teorico. Sintetizzando, alcuni dicono che con la crescita economica si riducono la povertà e le disuguaglianze, e che senza crescita non si hanno sufficienti fondi per fare investimenti per la transizione sostenibile. Altri dicono invece che senza affrontare i temi della povertà e delle disuguaglianze non ci sarà crescita economica. Questo è un dibattito globale, non semplicemente italiano. Quindi questi diversi orientamenti sono naturali. Manca però evidentemente una sorta di accordo sul fatto che tutti i governi dovrebbero perseguire gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, anche se con strumenti diversi.

Le faccio un esempio. Se il governo in carica dicesse “Voglio usare lo strumento A piuttosto che quello B per ridurre la povertà, l’opposizione di turno potrebbe dire di preferire strumenti diversi per raggiungere l’obiettivo: ma il nostro Paese non discute in questo modo, non discute degli effetti prevedibili delle misure grazie a modelli e statistiche. Si preferiscono affermazioni di principio che, ovviamente, sono potenzialmente tutte vere. Lei ha visto questi temi sulla stampa? I media hanno una responsabilità enorme: non ho visto praticamente nessun giornale o nessun sito prendere in considerazione l’allegato BES.

Neanche EconomiaCircolare.com, lo ammetto.

Non solo. Ha visto dibattere in Parlamento su questi argomenti? Neanche l’opposizione usa questi dati per contrastare il governo. E questo succedeva anche quando l’attuale opposizione era forza di governo. Come vede, abbiamo proprio un problema metodologico.

Dice che il nostro paese non ragiona così: ci sono paesi che invece lo fanno?

Certamente sì. Le cito il caso dell’Olanda, in cui un istituto pubblico, l’Ufficio per la politica economica (Bureau for Economic Policy Analysis), sulla base di modelli quantitativi, valuta l’impatto delle piattaforme elettorali prima che esse vengano votate dai cittadini. Quindi prima delle elezioni un istituto pubblico valuta l’impatto delle piattaforme dei diversi partiti con indicatori che potremmo definire di benessere in senso lato. E di questo si discute. Parliamo quindi di un servizio veramente straordinario.

La buona notizia è che l’Italia sarebbe in grado di fare altrettanto. Inoltre la Camera ha approvato definitivamente la Valutazione di impatto generazionale (Vig) delle nuove leggi, proposta dall’ASviS fin dal 2016. Il testo sancisce che ‘le leggi della Repubblica promuovono l’equità intergenerazionale, anche nell’interesse delle generazioni future’ e obbliga i legislatori di oggi e di domani a considerare l’impatto sociale e ambientale delle nuove norme, prima della loro approvazione. Un passo importante per legiferare meglio.

Ma la Vig non deve diventare un semplice adempimento burocratico, e va svolta al meglio, anche per coinvolgere di più la società nell’attività legislativa. Stiamo lavorando da mesi con i migliori esperti italiani per individuare le metodologie più appropriate per fare la valutazione, anche alla luce dell’analogo percorso che sta facendo la Commissione europea, in vista dell’elaborazione della prima Strategia di giustizia intergenerazionale attesa per il 2026.

Enrico Giovannini ASVIS semplificazioni sviluppo sostenibile
Foto: ASviS

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Mi diceva dei due contrapposti schieramenti relativamente al rapporto tra crescita e diseguaglianze. Visto che la crescita c’è, pur altalenante e disomogenea a livello globale, le disuguaglianze si stanno riducendo?

Le disuguaglianze tra paesi si sono ridotte: ci sono i paesi emergenti, non solo la Cina, che hanno tassi di crescita del PIL molto più elevati di quelli dei paesi occidentali.

Ma parliamo di PIL…

Vale per il PIL ma in parte anche per altri aspetti. Il tasso di scolarità, per esempio, è aumentato molto in tanti paesi, soprattutto in quelli via di sviluppo ed emergenti. Quindi le disuguaglianze tra paesi si sono ridotte.

Invece le disuguaglianze all’interno dei paesi sono cresciute e questo vale anche per i paesi OCSE, per i paesi più sviluppati e addirittura per paesi come quelli scandinavi che storicamente avevano disuguaglianze molto basse.

Tra i temi affrontati nel rapporto, ovviamente, ci sono anche guerra e riarmo. Un documento delle Nazioni Unite (“The Security We Need: Rebalancing Military Spending for a Sustainable and Peaceful Future”) evidenzia come nel 2024 la spesa militare mondiale abbia raggiunto il record di 2.700 miliardi di dollari, mentre solo un quinto degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) è sulla buona strada per essere raggiunto entro il 2030. Che conseguenze ha la militarizzazione sullo sviluppo sostenibile?  

Non è difficile immaginarlo. Se pensiamo ad una famiglia qualsiasi, che decide di installare un allarme in ogni stanza: ovviamente avrà meno soldi per cibo di qualità, solo per fare un esempio. E questo fenomeno vale anche per gli stati. Purtroppo i rischi di aggressione sono cresciuti, non a caso abbiamo un numero di guerre che è al massimo storico.

Ovviamente ci sono vari modi di dotarsi di strumenti di difesa. L’Europa vive un dilemma: se far sì che ogni paese faccia per sé o se invece sviluppare una capacità di difesa comune. Nel Consiglio europeo di qualche settimana fa questi due approcci sono emersi molto chiaramente. È ovvio che se ognuno va per conto proprio non ci sono economie di scala e quindi si spende di più, ammesso poi che si raggiungano gli stessi obiettivi in termini di difesa.

Ecco perché abbiamo bisogno di più Europa, con meccanismi decisionali che tengano conto di maggioranze e non di unanimità, perché altrimenti con l’unanimità è tutto bloccato.

Purtroppo il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, al Senato giorni fa ha dichiarato di essere contraria al superamento del principio di unanimità, quindi al diritto di veto dei singoli paesi. Se questo è l’approccio, purtroppo aumentare la difesa ci costerà molto di più e dunque rischiamo, inutilmente, di avere meno fondi per altre finalità.

Mi faccia aggiungere un punto che, di nuovo, nessuno ha evidenziato eccetto l’ASviS. A settembre del 2024 nell’ambito del Patto sul futuro dell’ONU, i paesi si sono impegnati a valutare quanto l’aumento delle spese militari potrebbe costare in termini di minori investimenti sugli altri fronti. Il Consiglio europeo mesi fa ha confermato di volere attuare questo approccio. Le domando: ha visto valutazioni di questo tipo? Mi sembra proprio di no, e non solo in Italia.

Non esiste la sicurezza assoluta come nemmeno l’insicurezza assoluta: è piuttosto un fatto di bilanciamento tra le varie esigenze. Ecco allora che se ci fosse una valutazione di questo tipo, i cittadini potrebbero esprimersi nelle forme democratiche che sono previste dai vari ordinamenti.

Noi insistiamo molto su questo tipo di interventi di governance: apparentemente sembrano questioni metodologiche, ma non lo sono, perché hanno effetti molto più ampi e chiari quando le decisioni della politica entrano nella carne dell’economia, dell’ambiente, della società.

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Recentemente il Parlamento europeo non ha raggiunto l’accordo sulle revisioni proposte dalla Commissione all’Omnibus, il primo di una serie di iniziative normative che la Commissione definisce “semplificazioni” ma che altri vedono come passi indietro, principalmente nella normativa ambientale. Lei che ne dice? Sono semplificazioni? È questa la strada giusta per aumentare la competitività europea?

Sul fatto che le semplificazioni siano necessarie credo siamo tutti d’accordo. Ma questa parola vuole dire tutto e non vuole dire nulla: perché i mercati finanziari, ad esempio, hanno bisogno di informazioni chiare su quali siano le pratiche che vengono attuate, al punto tale che la Banca centrale europea è dovuta intervenire sulle cosiddette semplificazioni, sulla rendicontazione di sostenibilità, dicendo “State sbagliando!”. E comunque, ha spiegato, le banche continueranno a chiedere quei dati perché ne va della stabilità finanziaria. E la BCE dice anche che se si passa da un regime obbligatorio a uno volontario non avremo la comparabilità dei dati, col rischio di una confusione micidiale.

Le faccio invece un esempio di una semplificazione utile, nel caso della cosiddetta due diligence e del rispetto degli impegni sulle emissioni climalteranti. Secondo alcuni calcoli, la proposta della Commissione taglia gli oneri di rendicontazione al 99% delle piccole imprese che però, tutte insieme, rappresentano l’1% delle emissioni. Mi sembra un bel trade off togliere gli oneri al 99% delle PMI perdendo il controllo solo dell’1% di emissioni. Assolutamente ragionevole. Attenzione però, la due diligence riguarda anche i diritti umani, la sicurezza sul lavoro ed è lì che le piccole imprese hanno i principali problemi.

Come vede, quindi, parlare di semplificazione in astratto ha poco senso. Dopodiché è evidente che la Commissione europea, scrivendo le norme, ha esagerato nel dare ascolto alle grandi imprese di consulenza che hanno contribuito a determinare schemi molto complessi, molto articolati e anche poco chiari. Magari anche per garantire il proprio business nei prossimi anni.

Bisogna trovare un equilibrio, la discussione non può essere ideologica. Le faccio un altro esempio: secondo le stime della Commissione europea, le semplificazioni degli Omnibus porteranno un risparmio di 8 miliardi all’anno per le imprese europee. Si può dire che è una cifra importante peccato che sia lo 0,04% dei costi. Omettere questa informazione tende a distorcere la comunicazione sui risultati di queste misure.

Ancora a proposito dell’alleggerimento della due diligence: siccome si propone di ridurre sia il perimetro delle aziende che sono tenute alla rendicontazione, sia l’ampiezza della filiera da rendicontare, qualcuno dice che in questo modo l’Europa sarà forse più green, ma sulle spalle di paesi che le forniscono materie prime ed energia. Qualcuno parla di colonialismo. Che ne pensa?

Da un lato capisco che per lunghe catene di fornitura è difficile per l’impresa madre tenere sotto controllo il tutto, fermo restando che è la capo filiera quella che poi beneficia di più del greenwashing o del social washing che consentono di applicare dei prezzi molto alti. Quello che è stato drammaticamente sbagliato è ridurre il perimetro delle imprese, mentre si potevano semplificare i cosiddetti data point, cioè gli elementi su cui fare il reporting.

Non scordiamoci poi che per tanti anni il mondo delle imprese europee ha criticato il fatto che alcuni vendessero sul mercato europeo inquinando o facendo inquinare o violando i diritti umani nel resto del mondo: per cui, su un piano puramente logico, il fatto che la direttiva applichi queste norme anche a imprese non europee dovrebbe essere un modo per riequilibrare la competizione scorretta. Ma quando le associazioni imprenditoriali si battono così fortemente per ridurre il tutto, non può non venire il dubbio che gli scheletri nell’armadio ce li abbiano anche le imprese europee. Basta vedere cosa sta accedendo nel settore della moda per scoprire che non è tutto oro quel che luccica.

Ed è qui, dunque, il tentativo del capitalismo “europeo”, responsabile, sostenibile, di essere diverso da altre forme di capitalismo, con un valore anche culturale, politico, strategico.

E non è un caso che nell’accordo sui dazi, gli Stati Uniti abbiano chiesto l’impegno della Commissione Europea a esentare o ridurre drasticamente il peso di questi obblighi per le imprese americane. La Commissione Europea ha fatto sapere che non intende andare avanti su questa strada, però questo ci dice quanto profondo sia il tema.

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Grazie per aver ricordato questo ‘dettaglio’ (articoli 1 e 12) molto significativo dell’accordo: dal punto di vista ambientale ovviamente, ma anche dal punto di vista dell’autorevolezza dell’Europa e dal punto di vista della competitività. Lei parla di uno stile europeo di fare industria, di un capitalismo all’europea, ma questo stile può essere più competitivo degli altri modi di fare capitalismo?

Esattamente questo è il tema della discussione, essendo una scelta profondamente politica. Ed è per questo che la società civile deve far sentire la sua voce, ed è per questo che abbiamo bisogno di mobilitare in senso positivo, trovando dei punti di caduta comuni, proprio tutte le componenti della società. In ASviS ci sono le associazioni imprenditoriali, le organizzazioni sindacali, le associazioni del terzo settore: quando scriviamo il rapporto incorporiamo tutti gli input, ma anche le tensioni tra le diverse posizioni. Questo è lo sforzo che bisogna fare, invece di accusare gli uni e gli altri di ideologie inesistenti: è un processo complesso che non va semplificato più di tanto.

“Libertà è partecipazione”, ha detto qualcuno.

Abbiamo a che fare con processi complessi che riguardano i vari interessi in campo, senza la partecipazione dei cittadini, delle persone, delle associazioni, tutto sembra imposto dall’altro. E poi tanta conoscenza risiede proprio nella società, non necessariamente nelle élite, nel governo o nel Parlamento. E questa partecipazione non può essere solo formale, visto che ha a che fare con una discussione sui valori sugli obiettivi finali.

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