Gli allagamenti in Sicilia, i tifoni nelle Filippine, la tragica alluvione di Valencia, la tempesta Boris che ha devastato l’Europa centro-orientale, le alluvioni che hanno colpito l’Emilia-Romagna per quattro volte in 18 mesi. E ancora le tempeste che hanno colpito il centro America in estate, le ondate di calore in India, le alluvioni in Brasile, gli incendi in Grecia, la siccità al sud Italia. Questi sono solo alcuni degli eventi climatici estremi che si sono verificati negli ultimi mesi, ma potremmo andare avanti all’infinito.
Eventi di questo tipo sono sempre più frequenti e devastanti: sono ormai dei veri e propri disastri, non solo climatici, ma anche e soprattutto umani, sociali, ambientali, economici. Ed è ormai confermato dalla comunità scientifica che sono la conseguenza di una crisi climatica ormai fuori controllo causata dall’utilizzo dei combustibili fossili.
1773 lobbisti dell’industria fossile
Adesso fermiamoci un attimo a riflettere. A chi verrebbe in mente di invitare le aziende che investono nei combustibili fossili proprio ai negoziati in cui si discute (o si dovrebbe discutere) di come mitigare la crisi climatica e di come adattarsi ai suoi effetti? Sebbene la risposta sembri ovvia, la realtà è ben diversa: alla COP29 in corso a Baku, in Azerbaijan, sono registrati almeno 1773 lobbisti dell’industria fossile, di gran lunga di più dei delegati dei dieci Paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici (in totale 1033).
Non possiamo accettare che nel luogo dove si discute degli strumenti per rispettare l’Accordo di Parigi sul clima è presente chi l’Accordo fa di tutto per ostacolarlo, con investimenti in petrolio, gas e carbone e condizionamenti di ogni tipo sulle politiche energetiche dei governi. Per questo motivo anche Greenpeace Italia ha deciso di aderire alla campagna Clean the COP, promossa da A Sud, EconomiaCircolare.com e Fondazione Openpolis, per “ripulire le COP sul clima dai grandi inquinatori”.
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La delegazione (fossile) italiana
Anche l’Italia e le aziende italiane fanno la loro parte per cercare di affossare i negoziati per il clima e mantenere lo status quo fossile. Alla COP in corso cono presenti 22 lobbisti dell’industria fossile come parte della delegazione italiana (che potrebbero arrivare anche a 25), ma i numeri non sono completi, se pensiamo ad esempio che il numero uno di ENI, Claudio Descalzi, è registrato come ospite della delegazione azera.
E non è un caso se citiamo proprio ENI: lo strapotere dell’azienda fossile lo vediamo nella quotidianità, nella sua influenza continua in tutti gli spazi pubblici, dal calcio alla musica, passando per l’insegnamento nelle scuole e nelle università. E lo vediamo anche negli spazi non pubblici, dal momento che la politica energetica del nostro Paese è fortemente in linea con gli interessi di ENI. E proprio per denunciare le responsabilità dell’azienda del cane a sei zampe nell’alimentare la crisi climatica e gli eventi meteorologici estremi che distruggono vite, territori e comunità, abbiamo deciso di presentarle il conto, scaricando davanti al quartier generale di ENI a Roma un grande cumulo di oggetti distrutti dalle recenti alluvioni avvenute in Emilia-Romagna e nello stato del Rio Grande do Sul (Brasile) ed esponendo il messaggio “Chi rompe paga”.
Non possiamo più accettare che a pagare il prezzo degli eventi climatici estremi siano le persone che vedono la loro vita e il loro futuro messi in pericolo, mentre i giganti dei combustibili fossili continuano a fare profitti record con il loro business distruttivo. Per questo motivo pensiamo che sia giunto il momento che i maggiori responsabili della crisi climatica siano costretti a pagare per i disastri che stanno causando, a iniziare da proprio da una tassa sui danni climatici che, se applicata a sette delle maggiori aziende petrolifere del mondo (ExxonMobil, Shell, TotalEnergies, BP, Chevron, Equinor ed ENI), consentirebbe da sola di aumentare il fondo delle Nazioni Unite per risarcire le perdite e i danni causati dagli eventi climatici estremi (al momento fermo a 702 milioni di dollari promessi) di oltre il 2.000%. È il momento che i governi inizino a far pagare le aziende dell’industria fossile e impediscano i loro tentativi di influenza sui negoziati per il clima e le politiche energetiche.
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