Tra gennaio e maggio la quantità di gas esportata da operatori italiani è stata superiore del 578% rispetto al 2021. Tuttavia, il governo e gran parte delle forze parlamentari sostengono la necessità di realizzare nuove infrastrutture, soprattutto per l’importazione e la distribuzione di GNL (Gas Naturale Liquefatto), tra cui il progetto di un rigassificatore mobile nel porto di Piombino.
L’aumento delle esportazioni di gas nella prima metà del 2022 è solo uno tra i tanti segnali di una forte ripresa degli investimenti nelle fonti fossili. In sostanza, ai morti e alle devastazioni della guerra in Ucraina corrispondono prospettive rosee di crescita e arricchimento per le aziende del fossile e i loro azionisti che, però, si traducono in impoverimento, inquinamento e ulteriore distruzione del clima, con i danni peggiori subiti dai più deboli.
Grazie alla guerra e al rifiuto ostinato di qualunque soluzione diplomatica da parte di tutte le parti in campo, compreso il governo italiano, i produttori di carbone, petrolio e gas, beneficiano di condizioni formidabili: domanda elevata, prezzi in crescita, legittimazione politica e l’opportunità di ripulire la reputazione da distruttori del clima, possono ora presentarsi come salvatori dell’opulenza occidentale.
La ripresa degli investimenti pubblici e privati nelle fonti fossili appare ancora più paradossale di fronte agli eventi catastrofici causati dalle piogge torrenziali nelle Marche, purtroppo solo l’ultimo dei tanti disastri climatici. Tuttavia, benché le istituzioni nazionali ed europee si affannino a sostenere che si tratti di investimenti necessari ma transitori, i dati indicano diversamente.
Mentre la Commissione europea con il suo piano RePower EU, disegnato per sostituire le forniture di idrocarburi russi, sostiene che solo 12 miliardi di euro verranno spesi in infrastrutture necessarie alle filiere di gas e petrolio, il Financial Times, sulla base di dati elaborati dal think tank Ember, stima che ne verranno spesi almeno più del quadruplo. E poiché si tratta di investimenti in parte privati, è consequenziale dedurre che verranno prolungati almeno fino a generare ricavi. Ossia per lassi di tempo prevedibilmente lunghi e comunque superiori ai tre anni, entro cui la nave Golar Tundra già acquistata da Snam dovrebbe lasciare la banchina del porto di Piombino.
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Chi ci guadagna e chi ci perde col GNL?
Parte centrale di questi nuovi investimenti in Italia, è la sostituzione del gas naturale russo con GNL, per un totale di circa 29 miliardi di metri cubi nel 2023. Questo pone un doppio problema ecologico ed economico. La filiera del GNL disperde nell’atmosfera metano, in seguito a emissioni convogliate e fuggitive. Tale gas ha un potere climalterante fino a 28 volte superiore se calcolato su intervalli di tempo lunghi e pertanto, anche secondo la IEA, non può essere considerato una risorsa rinnovabile, a discapito della decisione Ue di inserirlo nella tassonomia delle attività ecologicamente e socialmente sostenibili.
Tali emissioni sono ancora maggiori quando il processo estrattivo è quello della fratturazione idraulica di rocce di scisto, usato per il gas esportato in enormi quantità dagli USA. L’ONG Carbone 4 calcola che importare il gas USA da scisto in Europa occidentale produca 85g di CO2/KWh contro i 23g del gas russo.
Anche la valutazione dei costi depone a sfavore del GNL. Secondo i calcoli del Sole 24 Ore, il GNL ha in Italia un costo superiore del 50% rispetto al gas naturale trasportato via gasdotti e venduto attraverso contratti a lungo termine. Ciò è dovuto alle caratteristiche strutturali della filiera del GNL che necessita di impianti di liquefazione e rigassificazione, oltre che di navi gasiere, ma anche al fatto che le forniture di GNL avvengono ad oggi tramite contratti a breve scadenza, risentendo di più della volatilità del mercato e delle speculazioni.
Non solo per quanto esposto, la decisione del governo di investire in tre nuovi rigassificatori, incluso quello di Piombino, appare dettata da considerazioni difficilmente ascrivibili all’interesse collettivo. Rielaborando i dati che il Ministero della Transizione ecologica ha diffuso, lo scorso 27 luglio, con il documento denominato “Piano Gas, sintesi della situazione e delle misure per incrementare la sicurezza del sistema”, l’ammanco di 29 miliardi di metri cubi di gas russo potrebbe essere colmato con le infrastrutture esistenti. Se prendiamo a riferimento il 2023, le fonti potrebbero essere così differenziate: 9 miliardi di metri cubi (d’ora in poi m3, nda) in più dall’Algeria, dall’Azerbaijan e dai giacimenti nazionali, 7 miliardi di m3 attraverso il gasdotto di Passo Gries (12 dal 2024), 6 miliardi di m3 dagli impianti di GNL esistenti 6 miliardi di mc in più, per un totale di 21,9 miliardi. I rimanenti 7 miliardi di m3 verrebbero coperti infine tramite minori consumi in seguito al piano di risparmi energetici del governo.
Inoltre, al fine di redistribuire equamente i rischi legati a maggiori investimenti nelle fonti fossili, e alla filiera del GNL specificamente, andrebbero conteggiati in costi generati dalle esternalità negative correlate. NRDC, una ONG specializzata in studi ambientali, ha calcolato il Costo Sociale del Carbonio (CSS) emesso per portare sul mercato 1000 ft3 (corrispondenti a 28.32 m3) di GNL prodotti con il metodo della fratturazione idraulica negli USA. Nel CSS sono incluse stime per maggiori costi che lo Stato deve sostenere in assistenza sanitaria, manutenzione di infrastrutture e piani di emergenza in seguito agli effetti combinati di inquinamento e crisi climatica. Prendendo ad anno di rifermento il 2019, NRDC ha concluso che per 1000 ft3 di GNL il CSS ammonta a 4,47 dollari, a fronte di un prezzo medio d’acquisto per la stessa quantità GNL pari a 4.96 dollari.
In sostanza, l’estrazione e la vendita di GNL garantirebbero agli investitori margini troppo ristretti, se la gran parte dei costi, generati dalle esternalità negative, non fosse scaricata sulla collettività, omettendone per lo più il conteggio. Ancor più solido diviene tale assunto se focalizziamo l’osservazione su una scala locale, come nel caso di Piombino.
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Cosa ci insegna la storia di Piombino
Piombino ha infatti una lunga storia di comunità sacrificata a produrre un bene indispensabile per l’economia italiana: l’acciaio. Già nei decenni in cui veniva prodotto questo materiale, la città ha contribuito pagando costi altissimi, calcolabili anch’essi come esternalità negative. Se da un lato la città, come altri SIN in Italia, ha subito una contaminazione profonda di inquinanti, causa di patologie nel lungo termine e quindi anche di maggiori costi sanitari, dall’altro l’economia locale si è inevitabilmente specializzata intorno all’Italsider. Tale modello, imperniato su un’industrializzazione che non sempre ha coinciso con lo sviluppo, ha giocoforza inibito il radicamento di filiere alternative. Tra queste troviamo il turismo o l’itticoltura, oggi importanti nel tessuto produttivo di una Piombino ormai nell’era successiva a quella dell’acciaio.
Questi settori , dunque, sono di nuovo messi in pericolo dal progetto di stazionare un rigassificatore mobile nel porto di Piombino. A ciò si legano direttamente i rischi per la salute umana e per l’ecosistema rappresentati dalle emissioni fuggitive e dal rilascio di sostanze pericolose in mare, fra cui l’ipoclorito di sodio, indispensabile al processo di rigassificazione. Tra le esternalità negative non bisogna dimenticare il rischio di incidente rilevante che una FSRU della stazza di Golar Tundra pone se ancorata in un porto a pochi chilometri da un centro densamente popolato, sia in termini di sversamento che di esplosione.
Infine, va notato come a fronte del prezzo altissimo che la comunità piombinese pagherebbe per l’installazione del rigassificatore nel porto della città, il governo abbia scelto di derogare all’obbligo di eseguire la VIA (Valutazione di Impatto Ambientale). Benché tale possibilità venga riconosciuta dal diritto comunitario, la decisione di sottrarre il progetto a una procedura imperniata sul principio di precauzione e volta a favorire la partecipazione dei portatori d’interessi in progetti che possono avere impatti sostanziali su di essi, rappresenta un vulnus democratico gravissimo. Essa inibisce il dibattito pubblico nel tentativo di piegare forzosamente la comunità piombinese e le voci critiche nella società civile e nell’accademia, a un calcolo viziato da ipotesi aleatorie sul piano energetico, pericoloso per il clima, la salute e la sicurezza, nonché dannoso per lo sviluppo sociale ed economico del territorio.
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