Un ampio divieto all’uso dei PFAS in Europa potrebbe essere meno lontano, grazie all’imperativo della semplificatore che anima la Commissione von der Leyen. Ma resta da capire quanto spazio verrà lasciato alle richieste delle imprese. Ascoltato dalla Commissione per l’ambiente (ENVI) dell’Europarlamento, il vicepresidente esecutivo della Commissione europea Stéphane Séjourné, responsabile di strategia industriale, competitività e transizione verde, la settimana scorsa (13 maggio) è tornato a lamentare la lentezza dei processi decisionali europei, ricordando tra le priorità di intervento il settore chimico, con la revisione del regolamento REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals). Séjourné ha parlato anche di PFAS, e lo ha fatto lasciando intendere la volontà di accelerare sulla restrizione di questi composti, in particolare nei prodotti di consumo. Mentre ha escluso lo stop nei processi industriali nel caso di mancanza di alternative disponibili. Ragionevole, se non fosse che proprio fare appello all’assenza di alternative, anche quando le alternative esistono (magari sono solo più costose), è lo strumento preferito delle imprese che sui PFAS fanno affari, scaricando sulla collettività costi sanitari, sociali, ambientali. A pensare male ci spingono studi scientifici e inchieste giornalistiche che depongono a favore della possibilità di fare a meno delle sostanze per e polifluoroalchiliche in un gran numero di impieghi. E anche iniziative di altri stati che mostrano la fattibilità di restrizioni importanti. Probabile dunque che sulla definizione di questa “mancanza di alternativa” si giocherà quindi il futuro dei PFAS.
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Piano d’azione per la chimica e revisione del REACH
Durante il suo intervento e rispondendo alle repliche di eurodeputate e deputati, il Commissario cita più volte il settore chimico. Tutto il discorso è incorniciato da rassicurazioni come “oggi ho l’opportunità di ribadire che l’agenda industriale europea, di mia competenza, deve rimanere strettamente legata alle nostre ambizioni ambientali e climatiche”. Ma anche di precisazioni: “Stiamo mantenendo la rotta tracciata dal Green Deal e adatteremo il metodo in un contesto turbolento con la pandemia, la guerra in Ucraina, la nuova amministrazione statunitense”. Si tratta, afferma, di “ricalibrare la nostra azione per trovare il miglior equilibrio, la migliore equazione, tra tutte le nostre priorità”. A questo serve il Clean Industrial Deal, che “concilierà il nostro percorso verso la decarbonizzazione e la necessità di migliorare la competitività”.
Tra i “dossier chiave” elencati davanti alla commissione ENVI, il primo è appunto la chimica: settore chiave e di “grande attualità”. Con la presidente fon der Leyen, riferisce il commissario, “abbiamo concordato di presentare un piano d’azione entro l’estate”. E poi c’è la revisione del REACH.
“So che la revisione di REACH è divisiva – ha detto -. Ma credo che siamo sulla strada giusta per definire i termini di una proposta che sia il più possibile equilibrata e che possa concentrarsi sulla salute pubblica, sulla competitività delle nostre imprese e sui nostri obiettivi politici di decarbonizzazione”. La parola chiave è rapidità: “Abbiamo bisogno di decisioni che si basino su rapporti e prove scientifiche, siano esse negative o positive, ma devono essere rapide. In questa prima fase di revisione, la cosa più importante per noi è rendere più efficienti e veloci le decisioni che dobbiamo prendere”.
Quanto ai tempi: “Entro la fine dell’anno, insieme alla Commissaria Roswaal (Jessika Roswall, con delega all’ambiente, ndr), presenterò la revisione del REACH che proporremo per rendere le procedure più semplici ed efficienti, meno autorizzazioni individuali e più restrizioni generalizzate per migliorare la chiarezza e la velocità. Questo è importante per le imprese, ma la velocità riguarda anche e soprattutto la salute”, ha detto.
Anche l’agenzia europea per le sostanze chimiche sarà interessata dalle novità: “Dobbiamo dare maggiori mezzi all’ECHA e dobbiamo rivedere la portata e semplificare i permessi e le autorizzazioni, in modo che tutto il sistema sia in grado di muoversi rapidamente”.

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La rapidità decisionale, sottolinea il Commissario, riguarda “soprattutto i PFAS, perché attendiamo le raccomandazioni dall’ECHA entro la fine del 2026: ma il 2026 è troppo tardi per le associazioni che giustamente stanno cercando di proteggere la salute pubblica e anche per le imprese che hanno bisogno di informazioni chiare su ciò che possono e non possono fare”.
Ricordiamo il contesto: nel 2023 cinque Paesi UE (Germania, Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) hanno presentato una proposta per limitare la produzione, l’immissione sul mercato e l’uso dei PFAS in Europa. La richiesta di messa al bando riguarda circa 10 000 sostanze. Alla pubblicazione della richiesta, come previsto dalla normativa europea, ha fatto seguito una consultazione di 6 mesi durante la quale le parti interessate hanno fornito più di 5 600 commenti e informazioni aggiuntive. E anche questo profluvio di documenti è la ragione per la quale la European Chemicals Agency (l’ECHA), responsabile del dossier, ha chiesto più tempo: “A causa della complessità della proposta di restrizione e dell’elevato numero di commenti ricevuti – spiega l’Agenzia – l’ECHA non è in grado di fornire i pareri finali entro le scadenze standard del regolamento REACH”.
Nel frattempo la commissaria UE per l’Ambiente, Jessika Roswall, ha fatto sapere che l’aggiornamento del REACH previsto entro la fine dell’anno non includerà i PFAS: per le eventuali restrizioni alle sostanze perfluoroalchiliche dovremo aspettare almeno il 2026. Ma La settimana scorsa sono arrivate – a precisare Roswall? – le dichiarazioni di Stéphane Séjourné, con ulteriori dettagli: “La Commissione è favorevole a vietarli nei prodotti di consumo, ma non nelle applicazioni industriali critiche, quelle per le quali non sono ancora disponibili alternative”.

La questione scivolosa delle alternative ai PFAS
Incontestabile ma scivoloso il riferimento alla mancanza di alternative. Proprio la presunta mancanza (che spesso può rivelarsi invece maggiore onerosità delle alte opzioni) è l’argomento standard dell’industria (produttori e utilizzatori) e delle lobby che la sostengono, come ha dimostrato anche il Forever Lobbying Project. Passando al vaglio le argomentazioni dei produttori, il Forever Lobbying Project ha raccolta 525 dichiarazioni riconducibili alla tipologia ‘non c’è alternativa’: “Solo 134 contenevano informazioni sufficienti per identificare un’applicazione precisa”, afferma l’inchiesta. Che cita l’Alternative Assessment Database sviluppato da ricercatori nell’ambito del progetto ZeroPM finanziato dall’UE, in cui “sono presenti potenziali alternative per quasi due terzi di questi 134 casi”.
L’argomento dell’assenza di alternative è stato rappresentato da Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività (citato anche da Séjourné) e fatto proprio dalla presidente della Commissione UE: ‘I PFAS sono attualmente necessari per applicazioni critiche per la transizione verde e digitale e per l’autonomia strategica dell’UE, ad esempio nei semiconduttori, negli elettrolizzatori, nelle celle a combustibile, nelle batterie e nei componenti per molti settori, tra cui la difesa, l’aerospaziale e la medicina’”.
Ma se anche gli attivisti più radicali riconoscono che per alcuni (non molti) usi altre opzioni non esistono o sono ancora in fase sperimentale, il problema sarà ovviamente il bilanciamento tra le richieste delle imprese e gli interessi pubblici. Perché sulla disponibilità di molecole che possono sostituire le sostanze poli e perfluoroalchilici si è espressa, ad esempio per i prodotti tessili, l’Agenzia europea per l’ambiente: “Le informazioni disponibili indicano che sono disponibili alternative per sostituire i PFAS nella maggior parte delle categorie tessili”. Lo stesso ha fatto per alcuni tipi di polimeri: “Sono molte le affermazioni sulla necessità di utilizzare i polimeri fluorurati in applicazioni che supportano la transizione verso un’economia digitale e a basse emissioni di carbonio. Può essere una sfida identificare questi usi, per i quali non sono disponibili alternative adeguate. Allo stesso tempo, i polimeri PFAS sono contenuti in molti prodotti di uso quotidiano che possono causare inquinamento e per i quali sono disponibili alternative adeguate”.
Confermano la disponibilità i divieti applicati da altri Stati. Dal 1° gennaio di quest’anno, ad esempio, il Minnesota ha vietato i PFAS aggiunti intenzionalmente in undici categorie di prodotti: tappeti o moquette, prodotti per la pulizia, pentole, cosmetici, filo interdentale, trattamenti per tessuti, prodotti per l’infanzia, prodotti per le mestruazioni, arredi tessili, cera per sci, mobili imbottiti. “Sebbene i PFAS siano spesso presenti in queste categorie di prodotti, le alternative prive di PFAS sono già ampiamente disponibili” ha affermato la Minnesota Pollution Control Agency.
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