È tornato alla guida degli Stati Uniti sciorinando nel discorso di insediamento le stesse grida di battaglia sbandierate in campagna elettorale. Basta con lo ius soli e invece sì ai respingimenti forzati delle persone migranti, stop alle politiche inclusive di genere, militarizzazione ed espansione delle frontiere, via libera ai dazi per “difendere l’America” e poi quella frase: “Drill Baby Drill!”.
Nessun freno alle trivelle, nemmeno nell’Artico, in barba all’allarme climatico e alle sue manifestazioni sempre più frequenti e violente. Un vecchio slogan rispolverato e reiterato fino al punto di produrre conseguenze già prima dell’insediamento e della stessa elezione di Donald Trump, complice un quadro politico internazionale, europeo in particolare, dove la destra, i grandi inquinatori e i negazionisti del clima hanno saldato i loro interessi.
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Il riflusso climatico è partito già da tempo
La spinta al “riflusso climatico”, quella retromarcia diffusa rispetto agli impegni per la riduzione delle emissioni e per la sostenibilità in generale che aveva già fatto capolino alla vigilia delle elezioni europee, si è progressivamente palesata, anche nel nostro Paese, con spavalde dichiarazioni sulla “follia del Green Deal” o sulla necessità di continuare a puntare tutto sui combustibili fossili e sulle estrazioni minerarie. Fino ad arrivare, più di recente, all’abbandono dei soggetti collettivi impegnati per il clima come la Net-Zero Banking Alliance (NZBA) da parte di grandi banche e gruppi finanziari, negli Usa, in Canada e a quanto pare anche in Europa. Una dopo l’altra Morgan Stanley e prima ancora Citigroup, Bank of America, Wells Fargo e Goldman Sachs hanno ritirato l’adesione a NZBA, la principale coalizione globale per il clima del settore.
Mentre il 9 gennaio scorso il mega fondo finanziario BlackRock è uscita dalla Net Zero Assett Manager Initiative (NZAM), iniziativa nata durante la Cop26 di Glagow, nel 2021, coalizzando i principali operatori nel mercato della gestione patrimoniale attorno a obiettivi di riduzione delle emissioni. La decisione di BlackRock ha fatto sì che la coalizione volontaria interrompesse le proprie attività, fermando il monitoraggio sull’implementazione degli impegni e cancellando l’elenco dei firmatari dal proprio sito web.
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La retromarcia della Federal Reserve
A poche ora dal via ufficiale alla seconda presidenza Trump, anche la Federal Reserve (Fed) si è affrettata a comunicare il proprio ritiro dal Network of Central Banks and Supervisors for Greening the Financial System (NGFS), una coalizione globale di banche centrali che si è posta l’obiettivo di collaborare per la decarbonizzazione della finanza. Il paradosso è che Jerome Powell, il presidente della Fed che aveva decretato l’ingresso nella NGFS, era stato nominato proprio da Trump durante il precedente mandato, nel 2020.
A onor del vero Powell ha sempre tenuto la banca centrale Usa lontano da decisioni politiche sul clima fino a che, poche ore prima dell’insediamento, ha sbattuto la porta accusando la coalizione di banche centrali di aver esorbitato dal suo mandato. Replicando con pacatezza alla presa di posizione della Fed, il Network rivendica di aver acceso i riflettori sulle “interdipendenze tra clima, biodiversità e altri limiti planetari” e di essere “in prima linea nell’adottare un approccio integrato ai rischi legati alla natura”.
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I record fossili delle Amministrazioni Usa
Un approccio troppo “ambientalista” per un Paese che già durante il primo mandato di Trump, nel 2019, era diventato esportatore netto di energia e che con Biden ha proseguito fino ad estrarre 13,2 milioni di barili di petrolio al giorno lo scorso anno, con la promessa di superare il record nel 2025.
La seconda presidenza Trump arriva nell’anno più caldo mai registrato, il primo anno solare con una temperatura media globale superiore a 1,5°C al di sopra del livello preindustriale. E la risposta del tycoon è la stessa del 2017: oggi come allora si affretta a firmare l’ordine di ritiro del suo Paese dagli impegni sul clima assunti alla Conferenza delle parti (COP) di Parigi nel dicembre 2015, dove si era trovato un punto di convergenza proprio nell’obiettivo di mantenere (preferibilmente) entro gli 1,5 gradi l’aumento della temperatura media globale al 2100 rispetto ai livelli preindustriali.
Difficile immaginare a quale livello potrà giungere il contributo degli Stati Uniti alla crisi climatica, dal momento che già nel 2023 – ci fa sapere la US Energy Information Administration – l’aumento delle esportazioni di Gas Naturale Liquefatto (GNL) verso l’Europa hanno contribuito all’incremento del 10% circa delle esportazioni totali Usa di gas naturale. Mentre nello stesso anno le esportazioni di carbone da parte degli Usa sono aumentate del 15% circa rispetto al 2022, rappresentando circa l’8% delle esportazioni totali di energia.
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Dall’export record di GNL allo stop ai limiti per le emissioni
La nuova era della post-democrazia diventerà anche l’era delle politiche post-climatiche? Saremo nelle mani di una plutocrazia guidata da miliardari tecno-ottimisti che non badano all’intensificarsi dei fenomeni climatici estremi? Nel discorso pronunciato in quella stessa Rotonda del Campidoglio invasa, il 6 gennaio 2021, dai supporter intenzionati a ribaltare con la forze la sua sconfitta contro Biden, Trump si limita a derubricare uragani e incendi come emergenze a cui l’amministrazione precedente non è stata in grado di dare risposte. Nessun riferimento alle cause, perché la priorità è ridurre il costo dell’energia ricorrendo senza remore alle trivelle onshore e off shore, al carbone, al fracking e all’estrazione di GNL, quello stesso che allo scattare della guerra in Ucraina, sotto la presidenza di Joe Biden, ha sostituito buona parte del gas russo nelle forniture all’Europa. Fino a rendere gli Stati Uniti il più grande esportatore mondiale di GNL.
“Abbiamo qualcosa che nessun’altra nazione manifatturiera avrà mai: la più grande quantità di petrolio e gas di qualsiasi Paese sulla Terra, e la useremo” ha dichiarato Trump nel suo discorso. Ma negli ordini esecutivi della nuova amministrazione Usa c’è anche dell’altro: la revoca dei limiti alle emissioni dei veicoli su gomma stabiliti da Stati storicamente attenti agli impegni climatici come la California, fino ad arrivare alla cancellazione degli standard sulle emissioni delle auto introdotti dell’EPA, l’Agenzia federale per la Protezione ambientale, e degli obblighi di risparmio di carburante fissati dal Dipartimento dei trasporti. Insieme all’uscita dagli accordi di Parigi, queste scelte fanno sì che gli Stati Uniti si allontanino definitivamente dall’impegno di ridurre le proprie emissioni di gas serra almeno del 60% entro il 2035.
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Finanziamenti record dai miliardari
Donald Trump conta sul sostegno dei grandi inquinatori e delle Big Tech: Mark Zuckerberg ceo di Meta, Jeff Bezos e la sua Amazon, Tim Cook con Apple, tutti non a caso in prima fila alla cerimonia di insediamento insieme al consigliere, finanziatore con oltre 250 milioni di dollari e componente della nuova amministrazione Elon Musk. Questi ed altri miliardari entrano sempre più nella gestione del potere e della democrazia statunitense, anche grazie ai media e alle infrastrutture che controllano, nelle stesse ora in cui Oxfam stima che nel 2024 la ricchezza dei miliardari a livello globale è cresciuta tre volte più velocemente rispetto all’anno precedente, aumentando di 2.000 miliardi di dollari e raggiungendo i 15.000 miliardi. Mentre dal 1990 ad oggi non cala il numero di persone che vivono in povertà.
Secondo un report di Americans for Tax Fairness (ATF), a pochi giorni dal voto di novembre scorso, ben 150 famiglie miliardarie degli Stati Uniti avevano contribuito alla campagna elettorale con 1,9 miliardi di dollari a sostegno dei candidati presidenziali e congressuali. Si è registrato un aumento di 700 milioni di dollari, quasi il 60% in più rispetto agli 1,2 miliardi spesi da oltre 600 miliardari durante l’intera campagna del 2020. E ancora non sono noti i dati dei finanziamenti che tipicamente arrivano a ridosso o subito dopo le elezioni. Ad ogni modo, di questi 1,9 miliardi di dollari totali spesi dalle famiglie più ricche d’America, 1,36 miliardi (il 72%) sono andati a sostenere candidati repubblicani, mentre i democratici sono stati sostenuti da circa 413 milioni (il 22%).
Solo per la cerimonia di insediamento, Amazon ha promesso 2 milioni di dollari, mentre Meta, General Motors, Google e Microsoft hanno offerto un milione ciascuno. A mettere un milioni pro capite di tasca loro sono stati invece Tim Cook, il ceo di OpenAI Sam Altman e il gestore di hedge fund Ken Griffin.
Insomma l’America dei super-ricchi, quella che Joe Biden ha definito la “pericolosa oligarchia” che sta prendendo forma negli Usa, paga la polizza assicurativa su un futuro sempre più caratterizzato dalle disuguaglianze. Solo nel 2023 l’1% più ricco del Nord del mondo ha estratto 30 milioni di dollari ogni ora dal Sud del mondo attraverso il sistema finanziario, ci ricorda Oxfam nel nuovo rapporto “Takers non Makers”. Il sovrasfruttamento delle risorse naturali e il surriscaldamento globale accentuano la povertà, distruggono la biodiversità e fanno aumentare esponenzialmente gli eventi estremi e le loro disastrose conseguenze. Se è questa la nuova “età dell’oro” di Trump, presto anche i suoi supporter miliardari scopriranno che si tratta di una pericolosa patacca fossile.
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