Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia, nei mesi scorsi avete girato l’Italia in lungo e in largo per prelevare campioni d’acqua potabile dalle fontanelle pubbliche e farli analizzare alla ricerca di PFAS. PFAS che avete riscontrato nel 79% dei casi. Nell’acqua avete cercato 58 diverse molecole della famiglia delle sostanze poli- e perfluoroalchiliche. Lo stato italiano, attraverso le agenzie preposte, quante ne monitora?
Prima di rispondere vanno fatti dei distinguo. Un conto è quello che le Agenzie regionali per la protezione ambientale (ARPA) cercano a livello ambientale: quindi nelle acqua di fiumi, laghi, e nelle acque sotterranea. Altro conto è la questione sanitaria che riguarda le acque potabili. Nelle analisi ambientali, alcune ARPA cercano sei sostanze della famiglia dei PFAS, le sei indicate in un decreto legge che impone appunto il monitoraggio di sole 6 molecole. Altre ARPA invece ne cercano molte di più. Difficile quindi dare risposte in assoluto. Sul piano sanitario, invece, in carico alle ASL, alcune – come quelle della Lombardia, del Veneto e del Piemonte – cercano un buon numero di sostanze, o almeno le 24 previste dal decreto di recepimento della direttiva europea sulle acque potabili che entrerà in vigore dal 2026. Di altre non saprei dire a che punto sono. So però che anche i gestori dei servizi idrici che fanno le analisi sulle acque della Lombardia o del Veneto cercano le stesse 24.
Noi abbiamo scelto di andare oltre. Il TFA, ad esempio, presente in quantità rilevanti in tutti quei campioni in cui è stato rilevato: per quanto ne so non esiste un dato pubblico che ne mostra la presenza. Mentre in tanti paesi europei le autorità lo monitorano già: quella del TFA sarà una delle questioni più rilevanti dei prossimi anni. La Germania sta facendo un gran lavoro proprio su questa molecola, come i Paesi Bassi.
La questione è che i PFAS sono oltre 10.000: cercarli tutti è un’impresa anche dal punto di vista tecnico-scientifico. Difficile fare ragionamenti d’insieme, visto che di alcuni sappiamo che si accumulano nei tessuti, di altri sappiamo che non lo fanno, mentre per altri ancora non abbiamo alcuna evidenza scientifica. Per alcuni è certo che provochino danni alla salute, per altri non si sa, perché non sono mai stati studiati. Quindi è molto difficile fare una comunicazione uniforme o parlare di ogni singola molecola.

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In Italia sono stati fissati dei limiti sui PFAS per l’acqua potabile?
Oggi, 18 febbraio, un limite non c’è. Chi si è dotato di un limite nell’acqua potabile è solo la Regione Veneto: già nel 2017. Nel 2026, anche nel nostro Paese entrerà in vigore la direttiva europea 2020/2184 che considera due parametri. Uno è la somma di PFAS: la somma di 24 molecole che non deve oltrepassare i 100 nanogrammi per litro.
Il numero e il tipo di molecole sono indicati nella direttiva, immagino.
L’Europa ne impone 20, l’Italia è andata oltre e ne ha aggiunte altre 4
La direttiva europea impone poi anche la misurazione di un altro parametro che si chiama PFAS totale: un parametro non obbligatorio per la cui misurazione pochi mesi fa sono state pubblicate le linee europee.
PAS totale è un parametro aspecifico, cioè va a monitorare la presenza di tutte le molecole caratterizzate da un legame carbonio-fluoro, cioè quelle che contengono carbonio organico: tecnicamente non solo esclusivamente PFAS. È una prova indiretta per scoprire quanti PFAS ci sono, oltre le 24 molecole di cui abbiamo parlato.
Come ho detto, il parametro “PFAS totale” non è obbligatorio ed è facoltà degli Stati membri implementarlo o meno. Per quanto riguarda l’Italia, nel decreto 18/2023 – che ha recepito la direttiva comunitaria e sarà vigente dal gennaio 2026 – è specificato che il parametro “PFAS totale” non è applicato. Viste le recenti linee guida europee è però lecito attendersi nei prossimi mesi indicazioni ministeriali più precise che chiariscano se e come applicare questo parametro nel nostro paese. E inoltre importante definire come le nostre autorità considereranno il TFA, che non rientra nella “somma di PFAS” ma che è incluso in “PFAS totale”.
Però, oggi, non tutti i soggetti preposti alla misurazione sono attrezzati per analizzare questa molecola.
Secondo voi, comunque, tutto questo complesso sistema di limiti non è adeguato. Perché?
La direttiva che ho citato prevede un valore limite relativamente alla presenza complessiva di 24 PFAS pari a 100 nanogrammi per litro. Un limite che non tutela in modo adeguato la salute umana.
Ma dobbiamo tenere conto che quella direttiva fu approvata in un quadro di conoscenze ben diverso da quello attuale, perché non più di un anno fa la IARC, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, si è espressa sulla cancerogenicità dello PFOA. Per questo è sbagliato considerare il PFOA al pari delle altre molecole e farla confluire nella somma delle 24 sostanze nel parametro “Somma di PFAS”. Perché è molto è diversa dalle altre 23.
D’altra parte già nel 2019, mentre in Europa si negoziava la direttiva, l’Istituto Superiore di Sanità raccomandava al Ministero dell’Ambiente di trattare separatamente PFOA e PFOS. Parere scientifico che però che non fu integrato nella normativa. Appena approvata, poi, quella direttiva fu subito smentita dai fatti.
I parametri europei infatti sono stati superati dalle più recenti evidenze scientifiche e dalle valutazioni di agenzia importanti come l’EFSA, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, che per quattro di queste molecole ha posto limiti bassissimi; lo scorso novembre anche l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) ha dichiarato i futuri limiti inadeguati a proteggere la salute umana.
Questo è il motivo per cui numerose nazioni europee (Danimarca, Paesi Bassi, Germania, Spagna, Svezia, ma anche regioni come Fiandre, in Belgio) e gli Stati Uniti hanno già adottato limiti più bassi, più cautelativi.
Se leggiamo i dati delle nostre analisi alla luce delle norme di alcuni di questi Paesi, scopriamo che in molte aree d’Italia viene attualmente erogata acqua potabile che in altre nazioni non è considerata sicura per la salute umana. Il 41% dei campioni che abbiamo analizzato in Italia supera ad esempio i limiti vigenti in Danimarca sui PFAS nell’acqua, mentre il 22% supera le soglie introdotte negli Stati Uniti.
Anche al governo italiano chiediamo di impegnarsi con urgenza in tal senso.
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Se questo è il quadro delle acque potabili che arrivano nelle nostre case, se volessimo tenerci alla larga dai PFAS potremmo optare per le acque minerali?
Questa potrebbe sembrare la più facile delle soluzioni, però oggi sulla presenza di PFAS nelle acque minerali italiane non esistono dati pubblici. Posso dire questo però. Recentemente è stato condotto uno studio sulle acque minerali europee: e in metà dei campioni analizzati sono stati trovati PFAS. Poco più di un anno fa, poi, c’è stato uno scandalo: media francesi come Le Monde e France Info hanno portato alla luce che i pozzi utilizzati per imbottigliare le celebri acque minerali Perrier e Vittel, prodotte da Nestlé, risultavano contaminati da PFAS, feci, batteri Escherichia coli e pesticidi.
Inoltre, è stato pubblicato uno studio scientifico che mostra la presenza di PFAS nelle acque minerali italiane commercializzate nel Regno Unito e in Cina. Lo studio non cita i marchi analizzati, anche se non è difficile ipotizzare quali siano.
Per cui io continuo a bere l’acqua di rubinetto, a meno che non mi trovi in una zona che è un epicentro di contaminazione.
Poi non dobbiamo dimenticare che tutte le leggi di cui abbiamo parlato sin qui riguardano le acque potabili, ma non le minerali. Per cui, in un prossimo futuro sicuramente le acque di rubinetto saranno controllatissime, ma chi commercializza le acque minerali non è dovuto a fare quei controlli.
Giuseppe, lo Stato di New York e la California hanno da poco messo al bando i PFAS nei prodotti di abbigliamento. C’è quindi, secondo lei, una maggiore e più diffusa consapevolezza?
Sicuramente posso dire che le aziende all’avanguardia, più che subire le raccomandazioni degli Stati, che in giro per il mondo oggi stanno arrivando a definire regole severe un po’ a macchina di leopardo, si muovano in modo proattivo, cercando di anticipare il legislatore. D’altra parte queste aziende, che si muovono in un mercato globale, non possono avere una linea di prodotti per la California o lo Stato di New York e una diversa da vendere in Portogallo o in Italia. Per cui oggi c’è una grande sensibilità dal punto di vista delle industrie, anche per accedere a nuove nicchie di mercato e posizionarsi su alternative più sicure che in tanti settori industriali già esistono.
Secondo me, quindi, nel breve termine assisteremo a tantissime iniziative di aziende che cercheranno di mettere in commercio sempre di più prodotti privi di PFAS, che si tratti di padelle, tessili, cosmetici o imballaggi.
I divieti e le restrizioni servono anche a questo: si può fare, è solo una questione di tempo, e la normativa va ad accelerare processi già in atto.

A proposito di legislazione, in Europa cinque Paesi hanno chiesto, ormai 2 anni fa, amplissime limitazioni alla produzione a all’uso queste sostanze. L’Italia non era tra questi cinque. Perché secondo lei?
L’Italia purtroppo non ha un ruolo attivo in questo processo, almeno in fase di promozione. È chiaro che questo bando sarebbe epocale, sarebbe la più grande restrizione di sostanze chimiche mai registrata nella storia umana. Sarebbe una grande svolta. Ma allo stesso tempo, la recente inchiesta internazionale coordinata da un team investigativo che coinvolge giornalisti di vari Paesi ci ha fatto capire quanto l’azione delle lobby sia forte sul legislatore comunitario. Speriamo che si arrivi presto al bando perché ne va della salute pubblica e anche dalla competitività della produzione industriale, perché oggi i temi ambientali consentono all’industria di qualificarsi rispetto a standard elevati. Un bando come questo offre l’opportunità anche alla nostra manifattura.
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In questi giorni a Vicenza vanno in scena le fasi finali di un grande “processo ambientale”. Greenpeace lo sta seguendo e nel processo ha un ruolo importante. Non le chiedo ovviamente pronostici ma una valutazione su come questo procedimento, che riguarda un caso molto rilevante di contaminazione da PFAS non solo in Italia ma in Europa, sia vissuto dal Paese.
Di tutta questa storia si parla molto poco, eppure è uno dei processi ambientali più importanti nella storia italiana. Ancora oggi numerose persone chiedono il rispetto del principio “chi inquina paga” e rivendicano l’accesso a diritti negati come ad acqua e cibo puliti, ad ambienti di vita e di lavoro salubri e sicuri. Il processo di Vicenza rappresenta un’occasione storica per fare giustizia sui crimini ambientali. Da tempo siamo al fianco della popolazione esposta a questo grave inquinamento per chiedere che vengano accertate tutte le responsabilità. Il processo vede imputati 15 ex manager delle varie gestioni dell’azienda chimica Miteni, oggi fallita. Si tratta di uno dei casi di inquinamento più gravi della storia italiana, nonché una delle più estese contaminazioni da PFAS al mondo. Ci aspettiamo che si arrivi a una sentenza storica, la prima sui PFAS in Italia.
Al di là dell’iter del processo è opportuno sottolineare come ci siano alcuni nodi ancora irrisolti, come la bonifica e la questione della contaminazione di alcuni prodotti alimentari: si tratta di due macchie indelebili sull’operato degli enti pubblici su cui da tempo chiediamo un cambio di passo non più rinviabile.
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