Le nazioni del Centro e del Nord Europa sono tradizionalmente quelle che più hanno fatto ricorso allo strumento dei termovalorizzatori. Secondo le associazioni ambientaliste, però, la situazione sta cambiando e non è il caso di prenderle come esempio per Paesi come l’Italia che hanno privilegiato altre politiche dei rifiuti.
Partiamo dai dati: in Italia produciamo ogni anno 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e oltre 140 milioni di tonnellate di rifiuti speciali e sono attivi 37 termovalorizzatori, in cui si trattano poco meno di 6 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e speciali (questi in maniera davvero minimale), producendo oltre 4,5 milioni di megawatt di energia elettrica e oltre 2,2 milioni di MWh di energia termica.
Quanta energia producono le nazioni europee con gli inceneritori
In Francia sono tre volte tanto, in Germania più del doppio. In un anno, da dieci anni, l’Italia, termovalorizza circa 100 kg per abitante: sono 400 in Danimarca e Norvegia, poco meno di 200 in Francia, Germania e Regno Unito. In Europa, comunque, la maggior parte dei Paesi inviano a termovalorizzazione più rifiuti dell’Italia.
La combustione dei rifiuti per queste nazioni è una risorsa, poiché viene utilizzata per ricavare energia elettrica, fa notare Chicco Testa, presidente di Fise-Assoambiente, che rappresenta le imprese private nella gestione dei servizi ambientali: “Nei Paesi del Nord Europa gli impianti di termovalorizzazione sono accettati dalla popolazione perché teleriscaldano le case a costi bassi. Anche in Italia si dovrebbe fornire questo tipo di incentivo piuttosto che distribuire risorse ai territori senza vincolarne l’uso a progetti realmente a vantaggio dei cittadini”.
Il risultato è che l’Italia, dove è molto più basso l’utilizzo di termovalorizzatori, è costretta ad esportare rifiuti, spendendo circa 200 euro per ogni tonnellata, proprio in direzione delle nazioni che li trasformeranno in guadagno. Nel 2019, in base ai dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), i rifiuti del circuito urbano esportati sono stati circa 515mila tonnellate. Rispetto al 2018, i rifiuti esportati sono aumentati del 10,8%. Le Regioni che destinano maggiori quantità di rifiuti all’estero sono Lombardia e Campania. Le maggiori esportazioni sono state effettuate verso paesi come Germania, Francia, Austria e Ungheria.
Le nazioni europee “costrette” a importare rifiuti
Tuttavia, anche per le nazioni europee che trasformano i rifiuti in una risorsa, c’è un aspetto fondamentale da tenere in considerazione. Un termovalorizzatore è un impianto industriale che presuppone investimenti per la realizzazione, ha bisogno di materie prime per funzionare, in questo caso i rifiuti, e tende a lavorare al massimo della sua capacità per generare profitto e quindi chi lo gestisce sarà sempre alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento.
Questo, per Alberto Zolezzi, deputato del Movimento 5 Stelle nella Commissione Ambiente, è un rischio. “I rifiuti vanno dove sono gli impianti e non viceversa”, spiega Zolezzi: “Più impianti si costruiscono e più rifiuti si dovranno attirare nel territorio dove l’impianto è in funzione, fino a saturazione della capacità di trattamento autorizzata e tecnicamente possibile”.
Per fare un esempio, si può citare Amager Bakke, l’inceneritore noto per la pista da sci sul tetto, che, da solo, costringerà la Danimarca a importare 250mila tonnellate l’anno di rifiuti dall’estero per ripagare il mutuo trentennale che è servito per la sua realizzazione. E nel Regno Unito, per citare un altro caso, dove si trovano 48 termovalorizzatori, il totale di rifiuti inceneriti è passato da circa 5 milioni di tonnellate nel 2014 a quasi 11 milioni nel 2018 e il trend sembra non arrestarsi.
La Germania ha quasi raddoppiato, tra il 2010 e il 2018, le tonnellate di rifiuti bruciati nei termovalorizzatori: da 27 milioni a 45 milioni. Più in generale, nell’area Ue l’utilizzo degli impianti di recupero energetico per quanto riguarda i rifiuti urbani tra il 2010 e il 2019 è passato dal 22 al 27 per cento.
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Termovalorizzatori: un limite all’economia circolare?
Il pericolo è di perdere di vista un principio fondamentale: “Il miglior rifiuto è quello non prodotto”, precisa Antonio Pergolizzi, esperto ambientale e saggista. Non solo: il timore è che incentivare l’utilizzo degli inceneritori senza curare adeguatamente politiche di prevenzione e riutilizzo è di danneggiare l’economia circolare.
Attualmente, nel Regno Unito, sono più i rifiuti inceneriti (11,6 milioni di tonnellate) rispetto a quelli riciclati (10,9 milioni di tonnellate). “Per questo non è esatto sostenere che le nazioni con alti tassi di raccolta differenziata sono anche quelle che possono contare sugli inceneritori”, sostiene Enzo Favoino dell’associazione ambientalista Zero Waste Europe.
“È vero in senso statico: la Germania e i Paesi del Nord Europa hanno alti tassi di riciclo. Molto meno da una prospettiva dinamica”, continua Favoino: “Se vediamo i dati degli ultimi 15 anni notiamo una stagnazione della raccolta differenziata dove c’è più utilizzo di inceneritori”.
Dal 2000 al 2020 la Germania è passata da circa il 52 per cento di rifiuti urbani riciclati al 67 per cento, una quota rimasta stabile dal 2014. L’Italia, con un impiego inferiore degli inceneritori, dal 14 al 51 per cento (dati Eurostat). Olanda, Belgio e Svizzera sono in una situazione simile. Certo, per nazioni come la Germania dove solo lo 0,2 per cento dei rifiuti finisce in discarica e il tasso di riciclaggio è al 49 per cento, è difficile migliorare. Per questo motivo, sostiene Antonio Massarutto, docente di Economia all’Università di Udine, il dato empirico non conferma l’ipotesi. “I numeri dicono che Milano, dove c’è un inceneritore, è la metropoli europea con tassi maggiori di raccolta differenziata. E anche per l’Emilia Romagna vale lo stesso discorso”. Un rischio teorico, ammette Massarutto, però, esiste.
“Gli inceneritori hanno alti costi fissi e bassi costi variabili: una volta costruiti conviene usarli fino alla capacità massima”, premette il professore: “Se c’è una capacità in eccesso, il proprietario è incentivato a venderla a un mercato esterno per saturarla, magari a tariffe più alte rispetto a quelle pagate dai cittadini. Quindi c’è tutto da guadagnare a fare bene la differenziata. Se invece non è possibile farlo perché tutta la capacità dell’impianto è utilizzata per i rifiuti urbani domestici, il rischio che l’inceneritore scoraggi la differenziata esiste: ma i dati, ripeto, dicono altro”, conclude Massarutto.
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Nelle nazioni scandinave il tasso di riciclo è inferiore alla media Ue
Tuttavia “nelle nazioni dove non c’è stato ricorso agli inceneritori, invece, abbiamo assistito a un’esplosione della raccolta differenziata”, sottolinea Favoino: “Pensiamo al caso della Slovenia: quando nel 2004 entrò nell’Unione europea aveva un tasso di riciclaggio del 5 per cento, oggi ha raggiunto il 59,2 per cento con una raccolta differenziata al 68 per cento, record europeo e mondiale. Eppure il governo decise di non portare a termine il progetto di quello che sarebbe stato il primo termovalorizzatore in territorio sloveno”.
Lo stesso discorso fatto per la Germania vale, però, in senso opposto, per la Slovenia. Ovvero: è più semplice crescere rapidamente quando si parte in una condizione di forte ritardo. In ogni caso è impossibile non notare come la Slovenia in pochi anni abbia raggiunto tassi di riciclo dei rifiuti urbani superiori a tutte le altre nazioni europee, esclusa la Germania. La Danimarca, in base ai dati Eurostat sul riciclo degli urbani relativi al 2019 è al 51,5 per cento, la Svezia e la Finlandia, addirittura, rispettivamente al 46,6 per cento e al 43,5 per cento. Tutte nazioni che fanno ampio uso di termovalorizzatori. E hanno tassi paragonabili o addirittura inferiori all’Italia, che in pochi anni ha raggiunto il 51,4 per cento di riciclo.
Valutare la qualità della raccolta differenziata
Anche nel nostro Paese ci sono, infatti, esempi virtuosi. “In Provincia di Treviso – ricorda Enzo Favoino – negli anni Novanta c’era la proposta di costruire due inceneritori. Invece, l’amministrazione locale decise di puntare sull’economia circolare e anni dopo la scelta ha dispiegato tutto il suo potenziale: quell’86 per cento di raccolta differenziata ne fa l’area vasta con i risultati migliori al mondo”, conclude il rappresentante di Zero Waste. E, in effetti, in Italia, secondo i dati ISPRA, la raccolta differenziata è passata da circa 9,9 milioni di tonnellate a 18,5 milioni di tonnellate tra il 2008 e il 2018 e, attualmente arriva alla media del 61,3 per cento.
Secondo Favoino, in presenza di inceneritori, non si sarebbe mai arrivati a questo risultato: “In venti anni di ricerca sulla gestione dei rifiuti, ogni volta che come consulente mi sono rapportato ad amministrazioni di località con gli inceneritori, ho sempre trovato le stesse resistenze a investire nella differenziata: ‘costa troppo’, ‘i cittadini non sono pronti’, ‘meglio adottare un approccio graduale’, di fatto rendendo impossibile qualsiasi miglioramento”, racconta.
Non è d’accordo Antonio Massarutto, che invita a concentrarsi non solo sui numeri, ma sulla qualità della raccolta differenziata: “Posso fare una differenziata al 90 per cento come la società Contarina a Treviso, ma se poi ne scarto un terzo che non viene riciclato perché la qualità di quello che ho raccolto è bassa, allora facendo i conti i risultati sono simili a quelli di un modello come Hera in Emilia Romagna che arriva ad una differenziata del 65-70 per cento, ma con uno scarto del solo 5 per cento”, fa notare il professore.
“Nel nostro Paese – continua Massarutto – viviamo l’ipocrisia di aver creato un sistema che genera un’enorme quantità di materiali teoricamente riciclabili, ma poi non sappiamo se questi materiali vengo effettivamente riciclati da qualcuno o tornano ad essere rifiuti. Fino a ieri li mandavamo in Cina, adesso che la Cina non li vuole più è venuto a galla che di questi flussi si ricicla ben poco”.
Per questo, secondo il docente dell’Università di Udine, bisognerebbe adottare un approccio “più pragmatico”, che consideri riciclo e termovalorizzazione come due soluzioni alternative da calibrare: “I Paesi che hanno raggiunto già il traguardo zero landfill (o comunque stanno sotto il 10% di conferimenti in discarica, come vuole la direttiva UE) usano una combinazione che va da un terzo a metà incenerito, da metà a due terzi riciclato”, sostiene Massarutto.
La stessa Unione europea, in ogni caso, ha messo le mani avanti per scongiurare l’ipotesi di far pendere eccessivamente la bilancia dal lato del recupero energetico. La costruzione di nuovi termovalorizzatori, se comporta un significativo aumento della produzione e dell’incenerimento dei rifiuti, è considerata non in linea con gli obiettivi fissati dall’Ue. Che prevedono il 65 per cento di riciclaggio entro il 2035.
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I Paesi del Nord Europa arretrano sui termovalorizzatori
Numeri che hanno posto i Paesi scandinavi di fronte a una situazione complicata: “Con l’attuale capacità di incenerimento di circa il 50 per cento dei rifiuti, è impossibile arrivare a quel 65 per cento”, fa notare Favoiono: “I ministri dell’ambiente scandinavi se ne sono accorti e stanno lavorando a politiche di smantellamento: la Danimarca punta a ridurre nei prossimi anni di circa il 30 per cento la capacità di incenerimento”.
Anche Pergolizzi è d’accordo: “Se noi adottassimo politiche adeguate di raccolta differenziata, i termovalorizzatori, che si reggono sui rifiuti indifferenziati o parzialmente differenziati, perderebbero molta della loro utilità e verrebbero dismessi come sta accadendo con le centrali termoelettriche, magari sfruttando le fonti di energia rinnovabili in crescita per colmare il vuoto”. E, in effetti, la Germania, dove si trovano circa 120 termovalorizzatori, quasi un quarto degli impianti europei, con il crescere della raccolta differenziata, inizia ad avere impianti sottoutilizzati.
Perché può essere improprio un confronto Italia – Paesi scandinavi
Secondo Pergolizzi, nelle politiche di pianificazione dell’Italia, non è neppure il caso di fare il paragone con altre nazioni del Centro e Nord Europa: “Rischia di far perdere di vista alcune specificità del nostro Paese”. Sicuramente le nazioni del Nord Europa hanno un clima differente dall’Italia e per loro è molto più importante avere tutto l’anno energia per il riscaldamento e il termovalorizzatore è una soluzione rapida ed efficace.
Bisogna poi vedere anche la struttura industriale delle nazioni: “L’Italia è un Paese manifatturiero e ha costante bisogno di materie prime”, spiega Pergolizzi: “Per questo è più conveniente investire nell’economia circolare e sulle aziende che riciclano i materiali, piuttosto che nel recupero energetico. Peraltro una mossa strategica anche per il futuro, visto il recente aumento dei prezzi delle materie prime che dovrebbe consigliare a dipendere il meno possibile dalle importazioni estere”, sottolinea Pergolizzi.
Nazioni industriali come la Germania hanno esigenze diverse, e sebbene abbiano un’altissima raccolta differenziata, fanno poco recupero di materia, mentre “in Italia la siderurgia si è da sempre sostenuta con il riciclo dei rottami ferrosi e dell’alluminio e siamo un buon esempio – aggiunge Pergolizzi – anche per quanto riguarda il riutilizzo di carta e cartone e il recupero degli oli esausti. Ecco: date le nostre priorità, discutiamo di termovalorizzatori dopo aver considerato tutto il resto”, conclude l’esperto ambientale.
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