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mercoledì, Gennaio 22, 2025

Le aziende fossili passano al contrattacco

Negli ultimi anni i colossi oil&gas hanno cambiato strategia comunicativa, diventando più aggressivi. Prima negli USA e poi nel resto del mondo Tra denunce, intimidazioni e querele temerarie. Anche Eni, in Italia, sembra aver sposato tale linea

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

Non che siano mai state placide e particolarmente diplomatiche ma negli ultimi anni c’è da registrare una maggiore aggressività delle aziende fossili. Il direttore di EconomiaCircolare.com Raffaele Lupoli ha definito quest’era con l’efficace espressione “riflusso climatico” all’indomani del discorso di insediamento del presidente USA Donald Trump. Un’era, per usare le sue parole, che consiste in una “retromarcia diffusa rispetto agli impegni per la riduzione delle emissioni e per la sostenibilità in generale” e che però non riguarda soltanto gli Stati Uniti d’America né tantomeno, o meglio non solo, le destre al potere in varie parti del mondo.

Rifacendoci a una nota teoria dello studioso inglese Mark Fisher, ciò che aziende fossili e governi stanno costruendo è una sorta di realismo fossile. Così come Fisher si chiedeva se davvero “è più più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” e “perché ci siamo ormai assuefatti all’idea che, per dirla con Margaret Thatcher, non c’è alternativa al sistema in cui viviamo”, governi e aziende fossili da anni stanno provando a convincere le opinioni pubbliche che la transizione ecologica va guidata da chi ha creato la crisi climatica.

Il carbone è inquinante? E che problema c’è, passeremo al petrolio. Il petrolio è inquinante? E che problema c’è, passeremo al gas. Il gas è inquinante? E che problema c’è, passeremo all’idrogeno. L’importante è mantenere un sistema energetica estrattivo e centralizzato. E via di questo passo, fino al collasso climatico, così come lo definisce il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres. Pazienza se il 2024 appena passato ha già sforato il grado e mezzo di aumento delle temperature rispetto all’era industriale che la Cop21 di Parigi si era impegnata a non oltrepassare. Era appena 10 anni fa, sembra passato un secolo.

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Il realismo politico delle aziende fossili diventa aggressivo

Di sicuro in questo arco temporale le aziende fossili hanno intrapreso un cambio di strategia. Prima dialoganti, promettendo che avrebbero rispettato gli impegni sulla riduzione delle emissioni (ma sempre alla loro maniera), e ponendosi addirittura all’avanguardia in questi ambiti, hanno poi intrapreso una sorta di real politik. I messaggi sono stati differenti: 

  • la sostenibilità ambientale deve essere anche sociale ed economica; in sostanza la velata minaccia che il rispetto degli obiettivi climatici avrebbe significato licenziamenti di massa
  • l’energia va garantita anche ai Paesi in via di sviluppo; peccato che quei Paesi, soprattutto gli africani, potrebbero benissimo puntare sulle rinnovabili
  • le tensioni geopolitiche e i conflitti globali hanno reso necessario affidarsi alla stabilità consentita dal sistema energetico basato sulle fossili; qui però si registra l’omissione che spesso è proprio quel sistema ad aver alimentato tensioni e conflitti.

Da questa cornice le aziende fossili traggono forza per una maggiore aggressività a difesa dei propri interessi. Ad esempio invadendo il campo della diplomazia climatica, come è avvenuto nelle ultime tre Conferenze sul clima (Egitto, Emirati Arabi Uniti e Azerbaijan), con una presenza enorme di propri delegati. Un fatto che con EconomiaCircolare.com abbiamo denunciato e sul quale abbiamo preso una posizione netta, chiedendo di ripulire le Cop

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Oppure come è avvenuto nei primi giorni di gennaio col caso paradigmatico di Exxon Mobil. Il colosso petrolifero statunitense (che nel 2023 ha registrato utili per 36 miliardi di dollari) ha denunciato per diffamazione il procuratore generale della California Rob Bonta e vari gruppi ambientalisti, rei di avere a loro volta accusato l’azienda di greenwashing sul business della plastica e del riciclaggio. Non solo: la scorsa settimana è stata respinta la causa intentata dalla città di New York contro Exxon Mobil, BP e Shell, che erano accusate di aver ingannato il pubblico sui propri prodotti e sull’impegno per le energie rinnovabili e la lotta ai cambiamenti climatici. Secondo il giudice della Corte Suprema Anar Patel “dichiarazioni generali come l’affermazione di Exxon secondo cui il suo carburante aiuta le persone a guidare “più pulito, più intelligente e più a lungo” sono troppo vaghe per suggerire che i prodotti degli imputati non hanno nulla a che fare con il cambiamento climatico”.

Insomma: le aziende fossili non si limitano più a reagire e a rispondere ma passano direttamente al contrattacco, forti anche di una percezione non più ostile a livello generale e con il movimento ambientalista più debole rispetto ad appena qualche anno fa, quando ad esempio le piazze di tante città del mondo si riempivano di proteste a favore del clima e contro l’uso del petrolio e del gas. E in Italia?

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Il cambio di comunicazione di Eni

Anche nel caso italiano va inserita una premessa: le aziende fossili da noi sono sempre state particolarmente forti. In particolare la storia di Eni è la storia dell’Italia (come ha raccontato l’associazione A Sud in questo report), basti pensare al prossimo Festival di Sanremo che per la quarta volta consecutiva è sponsorizzato dal cane a sei zampe. In ogni caso dalla guerra in Ucraina in poi Eni è uscita ancora più rafforzata: i governi Draghi e Meloni si sono affidati all’azienda per sostituire il gas russo con altro gas – e lo stesso è avvenuto con Snam e Italgas.

Tale potenza sembra aver sancito un cambio di strategia anche a livello comunicativo. Ha fatto scuola, nel senso letterale che viene studiato anche ai master di comunicazione, la scelta nel 2015 di rispondere a un’inchiesta del programma tv di Report in diretta su twitter e non attraverso una normale intervista. Era il 2015, l’inchiesta riguardava la presunta corruzione internazionale in Nigeria per il giacimento Opl245 – il processo a Milano che ne deriverà si è poi risolto con un’assoluzione per tutti gli imputati, tra cui l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni.

Tuttavia in questi 10 anni la comunicazione di Eni si è fatta più allergica alle critiche. Con Report e l’ong ReCommon, che ha scoperchiato il caso nigeriano, il colosso energetico ha intrapreso una battaglia a suon di diffide e querele. A novembre 2024 Antonio Tricarico, campaigner di ReCommon, è stato denunciato da Eni con l’accusa di diffamazione in relazione alle dichiarazioni da lui rilasciate durante la trasmissione della Rai “Report” dello scorso 5 maggio. Pochi giorni prima l’azienda aveva definito “falsità” i dubbi mossi dalla trasmissione in merito al progetto di Eni per la produzione di agri-feedstock in Kenya (dubbi di cui avevamo scritto anche noi già a marzo 2024).

Di casi del genere se ne potrebbero raccontare altri: la diffida al quotidiano Domani del 2021, la comunicazione preventiva del febbraio 2024 al programma della Rai Petrolio chiedendo che in trasmissione fosse letto un testo e avvertendo, prima ancora che il programma fosse andato in onda, che Eni non avrebbe accettato di subire “accuse inaccettabili” o il recentissimo scambio di mail, ancora con Report, in cui un’inchiesta giornalistica viene definita ancora una volta “un’operazione diffamatoria”.

Ultima in ordine di tempo, comunicata ieri sui social, è la denuncia di Eni a un attivista di Ultima Generazione con le accuse di diffamazione a mezzo stampa e persino di istigazione a delinquere. Considerato il peso economico, industriale, politico, sociale e culturale di una multinazionale come Eni – diventata nel frattempo l’azienda con il maggior fatturato in Italia, ben 93,7 miliardi di euro – torna utile un’espressione molto diffusa: anche meno!

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