Ci salverà l’agrivoltaico? Da una parte il Pnrr, dall’altra la guerra in Ucraina e la dipendenza dal gas russo: mai come in questi mesi le rinnovabili sono al centro dell’attenzione mediatica. E con esse c’è appunto anche l’agrivoltaico, cioè l’incrocio tra produzione di cibo ed elettricità solare. Più precisamente l’unione tra la coltivazione agricola e la presenza di pannelli fotovoltaici dovrebbe dare ulteriore slancio a una diffusione su larga scala delle energie rinnovabili, obiettivo ribadito ulteriormente dalla Commissione europea dopo l’avvio delle operazioni belliche da parte di Putin.
Se a chiederci di puntare sulle risorse naturali e inesauribili era, ed è, la crisi climatica, ora, più nell’immediato, è anche lo spettro del prossimo inverno. Come è noto, se Putin dovesse interrompere le forniture di petrolio e gas verso il Vecchio Continente ciò costituirebbe un enorme problema: l’Europa dipende fortemente dagli approvvigionamenti russi, col 40% del gas comunitario che arriva da Mosca. Se da una parte i tempi per lo sviluppo dell’agrivoltaico non potranno essere così rapidi, dall’altra già prima della guerra era stata la pandemia a dare un’accelerata all’agrivoltaico.
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Il Pnrr, l’agrivoltaico e una definizione
Sembra un’era geologica fa, ma appena l’anno scorso il governo Draghi aveva presentato all’Europa il proprio Piano nazionale di ripresa e resilienza, per favorire la ripresa post-Covid. Nella cosiddetta missione verde, ben 1,1 miliardi di euro sono destinati allo “sviluppo dell’agrivoltaico”, mentre altri 1,5 miliardi vengono dirottati sul parco agrisolare (l’installazione dei pannelli fotovoltaici sui tetti degli edifici). L’obiettivo dell’investimento sull’agrivoltaico, così come recita il Pnrr consegnato dal governo Draghi all’Europa la scorsa primavera, è di “installare a regime una capacità produttiva da impianti agrovoltaici di 1,04 GW, che produrrebbe circa 1.300 GWh annui, con riduzione delle emissioni di gas serra stimabile in circa 0,8 milioni di tonnellate di CO2”. Inoltre “la misura prevede:
- l’implementazione di sistemi ibridi di agricoltura e produzione di energia senza compromissione dei terreni dedicati all’agricoltura, anche valorizzando i bacini idrici con soluzioni galleggianti;
- il monitoraggio delle realizzazioni e della loro efficacia, con la raccolta dei dati sia sugli impianti fotovoltaici sia su produzione e attività agricola sottostante”.
L’obiettivo è di favorire la diffusione di impianti agrovoltaici di medie e grandi dimensioni – per i piccoli agricoltori basta il fotovoltaico piantato sui tetti dei capannoni. In questo modo si mira a “rendere più competitivo il settore agricolo, riducendo i costi di approvvigionamento energetico (ad oggi, stimati pari a oltre il 20 per cento dei costi variabili delle aziende e con punte più elevate per alcuni settori erbivori e granivori), migliorando le prestazioni climatiche ambientali”. Entro fine marzo il Ministero della Transizione Ecologica dovrà emanare un decreto per indicare le modalità con cui favorire la messa a terra dei pannelli fotovoltaici sui campi agricoli.
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Una prima definizione dell’agrivoltaico
Fino a poco tempo fa, le imprese energetiche preferivano terreni marginali. Non c’era da scegliere: o eri un contadino o un produttore di energia. Lo scopo dell’agrivoltaico è invece l’integrazione tra produzione agricola e produzione energetica. A luglio 2021, con uno dei vari decreti Semplificazioni dell’anno scorso, il Parlamento ha dato una prima definizione di agrivoltaico.
Prevedendo all’art.11 l’accesso agli incentivi per quegli impianti che “adottino soluzioni integrative innovative con montaggio dei moduli elevati da terra, anche prevedendo la rotazione dei moduli stessi, comunque in modo da non compromettere la continuità delle attività di coltivazione agricola e pastorale, anche consentendo l’applicazione di strumenti di agricoltura digitale e di precisione”, subordinando la concessione degli incentivi stessi “alla contestuale realizzazione di sistemi di monitoraggio che consentano di verificare l’impatto sulle colture, il risparmio idrico, la produttività agricola per le diverse tipologie di colture e la continuità delle attività delle aziende agricole interessate”.
Come si nota, si tratta di una definizione piuttosto ampia, a maglie larghe. Ciò perché ben prima del Pnrr distese di pannelli fotovoltaici si erano ampiamente diffuse nel nostro territorio agricolo.
Piccola storia dell’agrivoltaico in Italia
Secondo gli ultimi dati del Gestore Servizi Energetici, pubblicati nel Rapporto Solare del luglio 2021, attualmente in Italia sono installati più poco più di 21,5 gigawatt di pannelli fotovoltaici, realizzati da industria, residenziale, agricoltura e terziario. Di questi, 2,5 gw sono stati realizzati da imprese agricole e zootecniche, che consumano circa il 10% della produzione – il settore industriale è caratterizzato da maggiori autoconsumi (34%), seguito dal terziario (30%) e dal domestico (26%). Più in generale negli ultimi 40 anni sono stati realizzati impianti fotovoltaici su 40mila ettari di territorio. Come riportano i Verdi Italiani, “circa la metà dei pannelli al silicio sono stati collocati su aree agricole, il resto sopra i tetti delle case, dei capannoni, ecc. Ma per raddoppiare la potenza necessaria entro il 2030 ne serviranno altrettanti, e il tempo stringe”.
Finora l’installazione dei pannelli fotovoltaici nei campi agricoli si è mossa in maniera disordinata e sconnessa. Nel centro e nel sud dell’Italia non è raro imbattersi in appezzamenti di terreni, incolti o abbandonati, su cui sono installati enormi distese di pannelli. Sotto questi pannelli molto spesso non scorre nulla: né coltivazioni né erbe né, tantomeno, animali. In questi casi, dunque, è errato parlare di agrivoltaico quanto di pannelli a terra. D’altra parte a realizzare questi impianti erano soprattutto società che non portavano alcun beneficio per il territorio – essendo imbullonati, ad esempio, questi impianti non pagano neanche l’Imu. Comuni e Regioni, in assenza di una normativa nazionale, sono andati in ordine sparso e sempre più spesso hanno emanato ordinanze per limitare o addirittura vietare nuove installazioni di pannelli fotovoltaici.
In contemporanea associazioni già esistenti o neonate – come la coalizione Art.9, che promuove la difesa del paesaggio – si battono contro la proliferazione, a loro dire eccessiva, dei pannelli in agricoltura, in luoghi che depurterebbero il paesaggio. Il segreto di Pulcinella è che per favorire uno sviluppo dell’agrivoltaico che non venga additato come “selvaggio” e che sia armonico con la natura circostante servirebbe una cornice legislativa adeguata.
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I provvedimenti del governo
“Se la priorità è accelerare al massimo le rinnovabili, dobbiamo capire a che livello di priorità siamo. Perché poi sui territori ci sono poi le opposizioni a fare gli impianti. Io comprendo le istanze di tutti, ma poi di fronte ci troviamo il muro del Nimby e delle autorizzazioni”: così il 23 febbraio il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani riferiva al Parlamento in merito alla strategia energetica dell’Italia. Una strategia che era stata delineata dal cosiddetto decreto Energia e che, al netto della guerra in Ucraina e della rinnovata spinta alle rinnovabili, resta l’ultimo provvedimento legislativo a cui fare riferimento. Il decreto, che dovrebbe approdare in Aula alla Camera il 28 marzo, all’articolo 11 prevede la “regolamentazione dello sviluppo del fotovoltaico in area agricola”. Si tratta di una serie di semplificazioni che si applica a tutti gli impianti fotovoltaici, a patto che questi “occupino una superficie complessiva non superiore al 10 per cento della superficie agricola aziendale”. Come a dire che nello sviluppo dell’agricoltura l’attività agricola deve restare prevalente o comunque l’attività energetica non può prevalere su quella agricola. Ne spiega meglio il senso lo stesso ministro nella relazione in Parlamento che introduce il testo governativo.
“Non vorrei semplificare troppo – afferma Cingolani – ma noi dobbiamo aiutare la nostra filiera agrofood a essere energicamente autonoma. Quindi dobbiamo mettere in campo tutto ciò che possiamo: i tetti, i capannoni e così via. E in più dobbiamo favorire l’agrivoltaico. Ci sono tre possibilità: mettere i pannelli a terra occupando terreno agricolo, e per noi questa strada non va bene perché dobbiamo evitare le speculazioni; l’altro modello di agrivoltaico è quello alto, dove sotto i pannelli passa l’uomo, adatto soprattutto ai vigneti, e in questo caso abbiamo concordato con Confagricoltura e Coldiretti che non più del 10% del terreno di un’impresa agricola può essere utilizzato per mettere il fotovoltaico; e poi c’è il terzo modello, quello più tecnologico, con strutture molto alte dove sotto ci passano pure i trattori e i pannelli hanno strutture wireless e regolabili. In quest’ultimo caso la speculazione non converrebbe, perché si tratta di impianti molto costosi”.
Per riassumere, con il decreto Energia il governo intende:
- “Facilitare l’espansione del fotovoltaico su superfici di edifici agricoli prevalentemente ai fini di autoconsumo, per impianti fino a 200 kW; questa misura sar accompagnata da un piccolo fondo MiTE dedicato.
- Regolamentare l’accesso agli incentivi per gli impianti fotovoltaici in area agricola, con configurazioni variabili (da quelli a terra fino a quelli in verticale) e comunque tali da occupare una contenuta/limitata porzione del terreno dell’azienda agricola, tutelando la vocazione agricola dei suoli.
- Accelerare il percorso di aste FER (Fondi Energie Rinnovabili), in linea per il raggiungimento dei nuovi obiettivi di penetrazione rinnovabili elettriche pari al circa 70%, per cui già a gennaio sono stati aggiudicati 1,5 GW (rispetto ad una media di 0,5 GW delle tornate precedenti)
- Dare seguito agli impegni PNRR in materia di sviluppo agrivoltaico, comunità Energetiche, e impianti innovativi off-shore”
Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché da tempo si attendono linee guida ad hoc sull’agrivoltaico. O, ancor meglio, una norma specifica. Una sorta cioè di manuale di istruzioni che indichi nel dettaglio quali tipi di impianti possono essere realizzati, su quali terreni e con quale colture.
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Il parere di un imprenditore delle rinnovabili
“Piuttosto che individuare le aree idonee, come ha fatto finora il ministero, meglio stilare la lista di dove non si può fare agrivoltaico”. Leonardo Montesi è il fondatore e amministratore delegato di TEP Renewables LTD, una delle società leader delle rinnovabili in Italia. Molto attivo sui social, specie su Linkedin, con EconomiaCircolare.com Montesi va dritto al sodo. “L’agrivoltaico può prendere due piccioni con una fava – dice l’imprenditore – Ma serve una definizione condivisa, perché altrimenti ognuno presenta progetti propri senza certezza del diritto e con il rischio che gli enti locali decidano a macchia di leopardo. E le contraddizioni sono sempre dietro l’angolo. Pensiamo alla Sicilia che ha intere porzioni di territorio tappezzate di serre, come nel ragusano e nell’agrigentino. Per costruire quell’enorme distesa di plastica basta fare una semplice comunicazione agli enti locali, quando viene fatta. Invece se vuoi mettere un pannello fotovoltaico diventa un problema paesaggistico”.
Che ci sia bisogno di indipendenza energetica è ormai concezione diffusa. Ma cosa si potrebbe fare per risolvere questa soluzione? E l’agrivoltaico può davvero essere un’opzione? “Non sta a noi operatori del settore individuare la soluzione – spiega Montesi – ma su questo il governo dovrebbe interrogarsi, fornendo una cornice e fissando criteri chiari e regole valide per tutti. D’altra parte, come ci insegna la vicenda del caro bollette, non sono ancora ben chiari nell’opinione pubblica i benefici di un’energia alimentata da fonti rinnovabili. Affinché queste non siano osteggiate bisogna che anche il consumatore finale ne provi i vantaggi”. Lo sviluppo delle rinnovabili inevitabilmente vede il Sud al centro delle attenzioni. E infatti negli ultimi anni le Regioni e i Comuni dicono di essere subissati di richieste. Non c’è il rischio di una speculazione per pochi a danno di molti, come già è avvenuto con le fonti fossili?
“Molte terre hanno rese limitate e sono gli stessi agricoltori a essere tentati di cedere questi spazi per impianti fotovoltaici – osserva l’ad di Tep Renewables – La nostra idea è che l’impianto fornisca un reddito integrativo per consentire comunque la coltivazione. Siamo d’accordo che vadano individuate le zone di salvaguardia, in cui espressamente vietare gli impianti a terra. Ma allo stesso tempo se si fa una definizione troppo tecnica si corre il rischio di cadere di favorire una tecnologia specifica. L’agrivoltaico è un coacervo di soluzioni tecniche tra il mantenimento dell’attività agricola e la produzione di energia. Chiariamo ancor meglio il concetto: l’agrivoltaico è necessario se vogliamo raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030. Bisogna pensare delle regole, è chiaro che ci sono terreni agricoli che hanno un valore e altri che sono lasciati incolti e hanno poco valore se non zero”.
Le linee guida dell’università della Tuscia
In attesa di un quadro normativo organico e coerente sull’agrivoltaico, sono gli istituti di ricerca e le stesse associazioni del settore a provare a fornire un po’ di chiarezza. È il caso ad esempio di Fieragricola, l’evento internazionale che a Verona nei giorni scorsi ha messo insieme le varie filiere del settore. In un incontro specifico sull’agrivoltaico, moderato dalla testata QualEnergia, sono state presentate le linee guida redatte dall’Università delle Tuscia. Nel documento di 50 pagine vengono ripercorse la storia di questo termine, il contesto normativo, gli aspetti socio-economici-politici e la descrizione di alcuni casi studio. Sempre all’insegna dell’integrazione.
“Il reddito aggiuntivo derivante dal fotovoltaico – si legge – potrebbe consentire all’agricoltore di riconquistare la propria libertà di scelta, così da aumentare la compatibilità con il territorio e la sostenibilità ambientale. Ciò potrebbe anche essere accompagnato da un ritorno, in alcuni territori, di colture tradizionali, ormai quasi del tutto scomparse. L’agro-fotovoltaico, quindi, si inserisce a pieno titolo nell’ottica di multifunzionalità dei sistemi agricoli, aumentando la possibilità di utilizzare nuovamente e in modo sostenibile una gran parte delle superfici agricole, ormai non più coltivate per la loro bassa redditualità. Ciò sarebbe, sicuramente, un vantaggio sia per il maggior reddito generato, sia per la riduzione delle problematiche ambientali date dall’abbandono”.
Altrettanto interessante è il documento “I sistemi agro-fotovoltaici”, sottoscritto da Anie Rinnovabili, Elettricità Futura e Italia Solare, che descrive nel dettaglio i due sistemi finora più adottati: quello con elevazione da terra e quello a livello del suolo.
La posizione di Ispra
E il consumo di suolo? In teoria l’integrazione tra agricoltura ed energia, insieme ai vincoli previsti dal governo nel decreto Energia, dovrebbe in parte limitare le distese di pannelli che ci siamo abituati a vedere. Ispra però resta guardinga. L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale da tempo ammonisce il pubblico e il privato sul consumo di suolo zero – che tra l’altro è un obiettivo europeo al 2050 che l’Italia ha sancito. Ad agosto 2021 il ricercatore Ispra Michele Munafò ammoniva sui possibili rischi di una contrapposizione tra il diritto energetico e la tutela del suolo.
“Nel 2020 abbiamo perso 56,7 chilometri quadrati di suoli naturali a causa di nuovi cantieri, edifici, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio, infrastrutture e altre coperture artificiali, arrivando a un totale di oltre 21 000 chilometri quadrati, il 7,11% del territorio nazionale rispetto alla media UE del 4,2%. I costi nascosti di questo fenomeno, causati dalla perdita dei servizi ecosistemici che il suolo non è più in grado di fornire, sono stimati in oltre tre miliardi di euro l’anno – si legge nell’articolo di Munafò – L’obiettivo di azzerare il consumo di suolo netto entro il 2050, fissato a livello europeo, si scontra però con la necessità di installare nuovi impianti fotovoltaici che permettano la transizione energetica verso fonti rinnovabili. Si stima che al 2030 saranno tra 200 e 400 i chilometri quadrati di aree agricole persi per installare pannelli fotovoltaici a cui se ne aggiungerebbero 365 destinati a nuovi impianti eolici. Eppure sfruttando i tetti degli edifici esistenti, gli ampi piazzali associati a parcheggi o ad aree produttive e commerciali, le aree dismesse o i siti contaminati ISPRA stima che potrebbero essere installati pannelli per una potenza totale più che doppia rispetto ai 30 gigawatt che il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima prescrive di aggiungere entro il 2030”.
Che fare, dunque? Rinnovabili sì, ma dove? Secondo Munafò “la transizione energetica non ha necessità di consumare altro suolo agricolo e naturale e si potrebbe facilmente coniugare con gli obiettivi di protezione del suolo e delle risorse naturali, del mantenimento della produzione agricola e della tutela del paesaggio. Anzi, potrebbe essere un’ulteriore occasione di riqualificazione degli edifici e di rigenerazione del patrimonio costruito esistente”.
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