I rifiuti meno problematici sono quelli che non generiamo. Un’evidenza messa nero su bianco dalla direttiva quadro sui rifiuti (la 2008/98/CE) e dalla gerarchia europea che a monte di tutte le opzioni mette il riuso e quindi la prevenzione del rifiuto. Se lo guardiamo con gli occhi dei produttori e dell’industria, il riuso non è che un diletto per anime belle. E così è stato considerato anche dalle istituzioni, prova ne sia il grandissimo ritardo nella pubblicazione dei decreti attuativi per la preparazione al riutilizzo attesi da oltre 10 anni.
Nonostante l’inerzia delle istituzioni e l’ostracismo del mondo produttivo, qualcosa si muove. Nel nostro Paese ci sono infatti centri del riuso come Triciclo a Torino, Daccapo a Capannori, Cauto a Brescia o Cooperativa insieme a Vicenza e, oltre a questi più noti, molti altri. Quanti? Dove? Cosa fanno? Per rispondere a queste domande Danilo Boni – con l’aiuto tecnico informatico di Maurizio Bertinelli, e con il supporto del Centro di Ricerca Rifiuti Zero di Capannori e della rete di Zero Waste Italy – ha avviato un censimento nazionale dei centri del riuso e/o riparazione.
Il censimento – che riguarda i centri del riuso (comunali, intercomunali, privati) ma anche le diverse esperienze di centri di riparazione come Repair Cafè e Restarters mutuate dall’estero – ad oggi ha avuto risposta da 85 centri ed è ancora in corso (qui il modulo ).
I risultati (provvisori) del censimento sui centri del riuso
Quasi la metà degli 85 dei centri del riuso che, ad oggi, hanno risposto si trovano in Lombardia (26%) ed Emilia Romagna (20,8%), mentre le altre regioni più rappresentate sono Marche, Veneto e Toscana.
La gran parte dei centri è nata dopo il 2010. “Di sicuro – spiega Danilo Boni – ciò è dipeso dalla spinta istituzionale di Comuni e Regioni ma anche dalla risposta dei cittadini e delle realtà associative sensibili a queste tematiche”.
A dare il via a queste strutture c’è un forte legame tra motivazioni ambientali e sociali. Per oltre la metà dei centri la motivazione è prettamente ambientale: quindi ridurre i rifiuti promuovendo il riutilizzo in antitesi alla crescente diffusione, in moltissimi i settori, dell’usa e getta. Per un altro 32% alla nascita dei centri si collegano motivi ambientali e insieme sociali (l’impiego di persone svantaggiate o la cessione di beni a persone bisognose). Il 10% dei centri ha motivazioni prevalentemente sociali, e per la restante e marginale quota la motivazione è il finanziamento. Il legame tra finalità ambientali e sociali trova conferma anche nella natura del gestore dei centri, di solito affidata a cooperative sociali (32%), associazioni del territorio (30%), volontari (20%).
Le strutture si dividono equamente tra centri di proprietà comunale (50%) e centri privati (50%). Circa i due terzi dei centri ad oggi censiti ha un ricavo annuo inferiore ai 10 mila euro, non mancano però esperienze più strutturate che superano i 20 mila euro.
Dove sono, cosa fanno, cosa pensano i cittadini dei centri del riuso
Solo il 40% dei centri di riuso e riparazione che hanno risposto al censimento ha la propria sede accanto alla piattaforma ecologica. Quindi solo 4 centri su 10 si trovano nella posizione migliore per raccogliere i beni prima che diventino rifiuti. “Questa è la collocazione ideale – sottolinea Danilo Boni – per intercettare subito il bene e ridurre costi di logistica”.
Si occupano prevalentemente di abiti, mobili, biciclette, elettrodomestici ed apparecchi elettronici, giochi e libri. In sei centri su 10 si offrono anche servizi di riparazione: soprattutto restauro di mobili (26%), ciclofficine (18%), riparazione di elettrodomestici (11%), piccoli lavori di sartoria (5%).
Nel 70% dei casi, raccontano i gestori dei centri di riuso e riparazione, i cittadini hanno mostrato nei confronti della struttura una risposta positiva: buona (36%), molto buona (20%) o ottima (14%).
Mentre il conferimento è sempre gratuito, le modalità di prelievo cambiano. “Di solito – spiega ancora Boni – i soggetti deboli che i Comuni raccolgono nelle loro liste possono andare al centro e prendere i beni di cui hanno bisogno senza pagare nulla. Tutti gli altri invece contribuiscono con cifre modiche”. Dal censimento risulta che il 23% dei centri cede i beni usati gratuitamente, il 34% chiede una donazione, il 20% circa tiene insieme le due formule. Il restante 10% circa prevede modalità con contributi economici.
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Gli obiettivi del censimento
“Abbiamo iniziato a censire queste realtà – racconta Danilo Boni – per mappare i centri italiani, censirne le caratteristiche e le attività, evidenziare la loro importanza a livello locale, per farli diventare ancora di più dei punti di riferimento, ma anche per farne nascere di nuovi ed infine creare un network per unire le forze sia a livello nazionale che internazionale. Adesso speriamo che le adesioni continuino ad aumentare”.
Un modo “per far emergere un ‘comparto’ che non solo contribuisce a ridurre i rifiuti ma anche a promuovere occupazione e piccola impresa oltre che buone pratiche sul riuso e il riutilizzo di oggetti e anche le esperienze di riparazioni di apparecchiature elettriche ed elettroniche”, aggiunge ancora il promotore dell’iniziativa.
Tra le sinergie obiettivo del censimento, anche la diffusione delle best practices: “Le esperienze più interessati sono quelle che si sostengono economicamente al di là delle sovvenzioni pubbliche, che riescono a creare delle attività di riutilizzo, riparazioni oppure laboratori”. Ideale, insomma, sarebbe che queste esperienze facessero scuola per rendere gli altri centri sostenibili economicamente, senza ovviamente eclissare la vocazione sociale e ambientale che abbiamo visto.
Comunicare e coinvolgere
Altro aspetto importante è la comunicazione. “La comunicazione è fondamentale – ci tiene a sottolineare Boni – bisogna spiegarlo bene ai cittadini, far sapere loro che alcune cose si possono riutilizzare, è che c’è un mercato di seconda mano che fa risparmiare e che fa bene all’ambiente. Se questo si spiega bene, se i cittadini vengono coinvolti, si ridurrebbero e di molto i rifiuti”.
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